Si è parlato molto, in vista del rinnovo dei poteri cantonali, di scuola pubblica e della necessità di continuare a difenderla; da cosa o da chi non è parso molto chiaro. Ora che i giochi sono conclusi, i tanti suoi protettori avranno tirato un bel sospiro di sollievo: la scuola pubblica, quella cioè che fa capo al DECS e, per suo tramite, allo Stato, non è finita in mani maldestre e poco repubblicane. A ben vedere è da un paio di lustri che il tema della scuola pubblica ha ripreso vigore, dopo che per tanti anni era sembrato che il tema non meritasse particolari attenzioni, tanto tutto sembrava procedere liscio come l’olio. A dare il la era certamente stata l’iniziativa che mirava all’introduzione dell’aiuto finanziario dello Stato alle scuole private, poi sonoramente bocciata in votazione popolare. Nondimeno parrebbe che l’oggetto del contendere resti piuttosto generico, con ripetuti richiami a Stefano Franscini e alla sua vasta opera di fondazione della scuola pubblica ticinese che, in quella prima metà dell’800, era ancora saldamente in mani clericali. L’obiettivo politico dello statista leventinese era quello di dar vita a uno Stato laico e democratico, sganciato dalle gerarchie ecclesiastiche e dal potere della Chiesa, capillarmente diffuso. Si trattava insomma di far sì che ogni ticinese dovesse frequentare la scuola a partire da una certa età e per un determinato numero di anni, in un’epoca in cui non era scontato pretendere che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto, capacità che non servivano per mungere o per dare una mano nei campi e che, per sovrapprezzo, andavano contro il sistema di valori ispirato dal Cielo.
Oggi tutti vanno a scuola obbligatoriamente a partire dai sei anni e nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio simile imposizione. Detto questo, però, è un po’ più difficile progettare e gestire una scuola pubblica che sia in grado di mantenere la barra al centro. Non mi piace, come genitore e come cittadino, che la scuola di oggi sia surrettiziamente soggiogata dalle esigenze dell’immediato e dalle smanie dell’economia globalizzata. Quasi quarant’anni fa il nostro Parlamento ebbe il coraggio di istituire la scuola media unica, azzerando scuola maggiore e ginnasio. Oggi, però, circa la metà degli allievi esce dalla scuola media senza i requisiti per una scelta consapevole: studi o apprendistato? D’accordo, si dirà: non siamo mica tutti intellettualmente uguali; è quindi giusto che la scuola dello Stato si faccia carico della selezione, che casca così attorno ai dodici anni. Ma quali sono le armi preminenti della selezione? Le lingue forestiere e le scienze esatte. Poi, a seguire e con particolare riguardo ai ragazzi socialmente più dissestati, le altre discipline. È questa la scuola pubblica che si intende difendere? È questo il progetto politico dello Stato? Forse – forse! – sarebbe più civile preoccuparsi che i nostri giovani crescano nella consapevolezza di vivere e appartenere a una società precisa, che ne conoscano la lingua e la storia, che imparino a sviluppare il loro senso critico: per distinguere le sirene dai fatti concreti ed essere in grado di prendere decisioni e di fare scelte misurate con il minimo dei condizionamenti (massmediatici) possibili. Per restare all’ultimo dopoguerra, il dipartimento dell’educazione è stato guidato dal PLR, da Brenno Galli a Plinio Cioccari, da Bixio Celio a Ugo Sadis, da Carlo Speziali a Giuseppe Buffi a Gabriele Gendotti. Magari non è un male se dal 10 aprile la direzione dell’educazione e dell’istruzione statale abbia cambiato casa. Vedremo se il nuovo direttore del Dipartimento saprà imprimere una svolta all’attuale gestione dell’educazione obbligatoria dei ticinesi, senza restare ostaggio del corporativismo più interessato e recuperando, per difficile che sia, il vero senso della scuola pubblica, tesa a trasmettere il sistema di valori di un paese laico e democratico: giustizia, tolleranza, capacità di pensare e di comunicare, avendo beninteso delle cose da dire.