Se la scuola non fosse inclusiva, in che società vivremmo?

Laddove eventualmente pone problemi l’inclusione va gestita meglio, non abolita in base alle lusinghe del darwinismo sociale che affascina sempre più le destre.

«La scuola inclusiva finisce sotto esame», così il Corriere del Ticino ha aperto la sua edizione del 19 ottobre. UDC e PLR, che si contendono il tema a livello federale, propongono classi speciali per i bambini che parlano lingue straniere o con difficoltà di apprendimento. Secondo i due partiti borghesi, la scuola inclusiva ha mostrato i suoi limiti. L’inclusione, se non gestita con equilibrio, può essere dannosa sia per gli allievi con difficoltà, sia per quelli senza problemi. Quindi? Meglio escludere. Meglio ancora, respingere, mettere all’angolo.

Non era una prassi nazionale, quella di tentare anche solo l’integrazione degli allievi alloglotti nelle nostre classi. Un collega argoviese, qualche anno fa, mi aveva raccontato come funzionava in quel cantone. Gli alloglotti erano raggruppati in classi in cui imparavano il tedesco, cioè l’Hochdeutsch, almeno quel poco per sopravvivere. L’anno dopo si “integravano” nelle classi usuali, dove si parlava lo Schwiizertütsch.

Non la si chiamava ancora inclusione, neanche da noi. Però, al di là della lingua, in altri Cantoni, il Ticino tra questi, si tentava anche una strada di integrazione culturale, processo tremendamente complicato, che, detto così, può far sorridere. Ho conosciuto tanti confederati che non sono mai riusciti a perdere il loro inconfondibile accento, accanto a campani o molisani che s’avventuravano nel nostro dialetto, senza accorgersi di farsi fatalmente riconoscere al volo. Personalmente cerco sempre di non imitare gli accenti altrui, tanto mi beccano sempre, da Varese a Siracusa.

Cosa sia l’inclusione, e cosa la distingue dall’esclusione, dalla separazione e dall’integrazione, lo spiegano bene Elisa Geronimi e Michele Mainardi nell’approfondito In-formazione@Inclusione, che cita quattro atteggiamenti diversi verso i diversi: esclusione, separazione, integrazione, inclusione. Diciamo allora che la visione delle destre elvetiche – ticinesi comprese – spinge verso la separazione. Di qua i normali, di là gli altri, al di là di una definizione e dei soliti preconcetti.

Tratto da in-formazione@inclusione, a cura di Elisa Geronimi e Michele Mainardi (SUPSI-DFA)

La smania di voler in qualche modo catalogare, omologare, facilitare è vecchia come la scuola. Oggi siamo per lo più alle classi per età: a quattro anni si entra nella lunga fase dell’obbligatorietà scolastica e dai sei anni cominciano le tappe tradizionali: la 1ª, la 2ª, la 3ª elementare, fino alla licenza di scuola media. Se tutto fila liscio, in men che non si dica finisce il privilegio (o la sventura…) di dover andare a scuola.

Quand’ero bambino, nella cittadina in cui sono cresciuto vigeva ancora la separazione tra maschi e femmine, designazione un po’ zootecnica per indicare bambini e bambine. Era un segno distintivo delle città. Conobbi le classi miste in III ginnasio. Detta così parrebbe una scelta un po’ bacchettona di quegli anni. Eppure ancora nel 2009 alcuni parlamentari della Lega (sempre i soliti, insomma), primo firmatario Bignasca il Giovane, chiesero, tramite un atto parlamentare, di studiare la fattibilità di introdurre questo modello di apartheid scolastica, basato sulla “tesi educativa” – molto semplice, specificavano – secondo cui maschi e femmine sono talmente diversi fisicamente e psicologicamente che sarebbe un errore pretendere che imparino le stesse cose alla stessa età. La parola-chiave è talmente.

Qualche anno prima un’altra trovata per raggruppare gli studenti era arrivata dalla Gran Bretagna, dove il governo di allora aveva escogitato un’idea che era sembrata un colpo di genio: dividiamo gli studenti in base alla loro intelligenza. Ecco il miracolo, come se non fossero bastate le derive xenofobe che già attraversavano i sistemi scolastici di mezza Europa.

Ma l’avversione quasi rancorosa per l’inclusione nella scuola di UDC e PLR, due partiti sempre più a destra, ha tuttavia una sua logica. Lorsignori hanno una concezione darwinista, individualista e ultra meritocratica dell’intero paese, e quindi anche del suo sistema scolastico. A ciò si aggiunga che, nella realtà, in Svizzera vi sono 26 leggi scolastiche, ognuna ancorata alle sue tradizioni e alle sue abitudini.

Alla faccia di tanti tentativi di collaborazione, soprattutto tra regioni linguistiche, ogni Cantone tende a sottolineare le sue particolarità, che sono storiche, religiose, economiche, direi antropologiche – per rendersene conto basterebbe parlare con un gruppo di professionisti dell’educazione dei Cantoni di Ginevra e Vaud, o di Uri e San Gallo. Al di là del Concordato HarmoS, col quale i Cantoni svizzeri hanno scelto di precisare mediante un accordo quali siano gli elementi fondamentali che permettono l’armonizzazione tra i sistemi scolastici cantonali, permangono tante diversità, che oltrepassano tranquillamente la sostanza degli elementi fondamentali, che sono poi i soliti leggere, scrivere e far di conto.

Non da oggi alcuni Cantoni includono o escludono più di altri, sono più o meno selettivi. Ricordo – un ricordo di qualche anno fa – che alcuni Cantoni avevano una percentuale molto più elevata di allieve nelle scuole speciali, così come nel Canton Vaud esisteva fino a tempi recenti l’École primaire supérieure destinata a quegli allievi che, al termine della scuola elementare, non erano stati ammessi alla scuola secondaria superiore (ginnasio): roba da far impallidire i nostri livelli A e B della scuola media.

Stiano comunque tranquille le destre elvetiche, perché nel nostro paese l’inclusione è già in atto da un pezzo, anche in quei Cantoni che si ritengono tutt’altro che levantini, festaioli e inaffidabili, a parte forse Appezöll Innerroode, il semi-cantone di Appenzello interno. Ora si tratta solo di fare un passo in più.

Scritto per Naufraghi/e

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