Da un po’ di anni sono diventati famosi i bimbi ad alto potenziale cognitivo, frugoletti che «hanno un quoziente intellettivo superiore a 130, un linguaggio fuori dal comune, una memoria da elefanti e a volte presentano una maturità di comprensione che li avvicina più agli adulti che non ai loro coetanei»: insomma dei genietti, dei Mozart o dei Gauss in pectore. Ne ha parlato ancora il 5 aprile questo giornale, secondo il quale questi ragazzetti potrebbero essere il 5% della popolazione, sette-ottocento solo nella scuola elementare. Sarà la nuova celebrità, sarà il fatto che se ne parla, ma sempre più spesso giungono a scuola genitori che chiedono la verifica del livello intellettivo del venerato pargolo, evocando indicatori saccheggiati da internet e chiedendo di intervenire celermente, perché il ritardo potrebbe arrecare danni insanabili. Federica Mormando, psichiatra citata nell’articolo del CdT, suggerisce di non «considerare unicamente i casi effettivi», testati e conclamati, ma di aiutare gli insegnanti a individuarli e, quindi, a «far capire loro che sono bambini diversi e in quanto tali hanno bisogni specifici. Quindi ci deve essere una differenza di approccio, anche didattico».
Ma come?! Non si è sempre detto che tutti i bambini sono diversi e che la scuola, attraverso la differenziazione, deve adeguare l’insegnamento? È sconcertante constatare ancor oggi come in gran parte delle aule scolastiche, dalla scuola elementare alla scuola media, spadroneggino metodi d’insegnamento ammuffiti, basati sulla (bella) lezione, sull’insegnante deus ex machina che parla e parla, su esercizi uguali per tutti. Così c’è sempre, giorno dopo giorno e inesorabilmente, chi s’annoia perché non capisce, e fallisce!, e chi è sopraffatto dal tedio perché è già avanti: nella più completa indifferenza alle differenze. Eppure sono almeno cent’anni che si sono messe a punto delle impostazioni pedagogiche che dovrebbero permettere a ognuno di avanzare secondo i propri ritmi e capacità.
Si deve allo psicologo russo Lev Vygotskij il concetto di «zona di sviluppo prossimale»: ridotta ai minimi termini, è quell’area della mente leggermente superiore a ciò che un alunno è in grado di fare da solo, ma che potrebbe riuscire a fare con l’aiuto dell’insegnante. Si deve a tanti maestri e pedagogisti dell’ultimo secolo la teorizzazione e l’applicazione pratica di questo principio, attraverso un’impostazione del lavoro scolastico basato sulla cooperazione e sui principi della cosiddetta scuola attiva. Come definirla? È naturalmente difficile riassumere la sterminata letteratura sul tema in poche righe. Se vogliamo, il punto di partenza è ancora quello aristotelico, secondo cui per imparare a fare una cosa che non si è in grado di fare bisogna farla… Per spiegare con un esempio: bisogna leggere per imparare a leggere. Toccherà all’insegnante avveduto proporre letture che si pongano un poco al di sopra delle capacità letterarie del momento, affinché l’allievo possa progredire secondo ciò che la natura e le sue esperienze gli hanno dato sin lì. Si può fare, e c’è chi lo fa, anteponendo la tenacia di insegnare alle note scolastiche e ai test reiterati: un approccio che conviene a tutti, a prescindere dal fatto che la natura e il mondo siano stati magnanimi o molto sparagnini. È un modo di organizzare l’insegnamento a tutto vantaggio dei polentoni, di chi è normalmente dotato e anche dei genietti: cioè dell’intero Paese, senza la necessità di inventare a ritmo continuo costose stampelle.
Salve mi chiamo Nunzio Curigliano, sono calabrese ed ho fatto tanti test per il quoziente intellettivo, ho anche provato ad entrare al Mensa Italia ma non ce l’ho fatta.