Il 27 maggio è stato presentato a Locarno il rapporto della SUPSI relativo alla valutazione della sperimentazione dell’insegnamento di «Storia delle religioni», che è iniziata in sei sedi di scuola media del Cantone Ticino nel settembre del 2010. Per il ministro dell’educazione e della scuola Manuele Bertoli è stata l’occasione per tratteggiare a grandi linee la quadratura del cerchio necessaria per istituire nella scuola media il corso di «Storia delle religioni» e la nuova disciplina «Educazione alla cittadinanza», esigenze espresse dal Parlamento il primo e da un’iniziativa popolare la seconda.
Non m’interessa, per ora, entrare nel merito delle due nuove discipline pretese dal “popolo sovrano”, in attesa di leggere il rapporto della SUPSI. Segnalo di transenna che nella mia rubrica sul Corriere del Ticino ho già parlato in tre occasioni di insegnamento della religione: il 24 dicembre 2003 (Scuola, cultura religiosa e indifferenza), l’8 maggio 2007 (La nuova ora di religione sconfiggerà la barbarie?) e il 24 ottobre 2012 (Religione a scuola: una sperimentazione inutile?).
Durante l’incontro di Locarno Bertoli, secondo quanto ha riferito il Corriere del Ticino, ha detto a chiare lettere che in nessun caso si deve aumentare la griglia di 33 ore settimanali in vigore nella scuola media: «Questo è il carico massimo che i ragazzi possono sopportare, anzi, idealmente andrebbe ridotto». Concordo, soprattutto sull’accenno alla riduzione, anche se avrei preferito l’uso del modo indicativo al posto del condizionale. Ergo: va ridotto.
Teoricamente i nostri ragazzi sono a scuola per trentatre ore settimanali, dunque, più o meno, per circa 1’200 ore all’anno. Bisogna poi aggiungere i famigerati compiti a casa, vacanze comprese, che sono difficili da quantificare e, sempre teoricamente, sono inversamente proporzionali alle attitudini di ognuno e ai suoi ritmi di apprendimento. Si può ipotizzare che per alcuni le ore di lavoro potranno avvicinarsi a cinquanta, mentre per altri non giungeranno nemmeno alle canoniche trentatre: i “bigioni” son sempre esistiti.
Sull’altra faccia della medaglia, vale a dire dal punto di vista della scuola, possiamo dare altre letture, assai variegate. Ne segnalo una, ben descritta da Don Milani in anni ormai lontani:
«Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola.»
D’accordo, oggi la maniera di essere a scuola è forse un po’ diversa, ma non poi così tanto. A colpi di test e di blitz e di verifiche, quasi sempre spacciati per strumenti scientifici e pertinenti (ohibò!), si perde un sacco di tempo che potrebbe essere dedicato all’insegnamento, all’approfondimento e al recupero. Senza naturalmente contare i giorni durante i quali non si insegna né si valuta – e, altrettanto naturalmente, senza scordare la grande ricreazione di fine anno (v. il mio scritto del 4 giugno 2003).
C’è poi almeno un secondo aspetto, tutt’altro che di niuna importanza. La griglia oraria settimanale, sintetizzando un po’, è occupata più o meno dalle medesime discipline che l’avevano presidiata tanti decenni addietro: l’italiano, la matematica, la storia e la civica, la geografia, le scienze naturali, e poi le seconde e terze lingue (queste in crescita), le educazioni visiva, manuale e tecnica, musicale, fisica e via etichettando. Poi, giustamente o no, il peso specifico di ogni materia cambia: il peso specifico dell’italiano o della matematica è ancor oggi ai vertici della classifica, con un’accelerazione delle scienze naturali. In fondo troviamo la religione. Tra i due un’ammucchiata di difficile interpretazione educativa: l’educazione fisica ha più ore, poniamo, della storia, che ha lo stesso numero di ore delle educazioni manuale e tecnica, musicale e visiva (almeno nei primi due anni).
È difficile capire quale logica educativa e pedagogica sia sottesa a un simile allestimento della griglia oraria: che è troppo fitta e che serve a poco. A dirla tutta, non contribuisce neanche alla “famosa” selezione delle future élite e alla formazione dei cittadini di domani, perché è sotto gli occhi di tutti che per almeno due terzi degli allievi i risultati scolastici dipendono strettamente dal contesto socio-culturale (ed economico!) di appartenenza, da un po’ di fortuna nell’incappare negli insegnanti più bravi (o più larghi di manica, e naturalmente non sempre le due variabili vanno insieme) e dalle tempeste ormonali, ovviamente in agguato proprio in quegli anni della scolarità. Mi par di capire che la tradizione, le lobby disciplinari e certe mene corporative sanciscano il futuro dei nostri ragazzi, e conseguentemente dell’intero Paese, al di là di ogni ragionamento più razionale.
Philippe Perrenoud, sociologo e professore onorario dell’università di Ginevra, ha pubblicato nel 2011 un libro dal titolo intrigante: «Quando la scuola pretende di preparare alla vita». È una lettura interessante, che pone sul tavolo della discussione diversi temi di sicuro interesse: sempre che, naturalmente, la discussione non dia troppo fastidio e il dibattito si apra. Fino a non tanti anni fa, si dava per scontato che la scuola dell’obbligo doveva insegnare a leggere, scrivere e far di conto, con l’obiettivo finale, allo scadere dei quindici anni, di preparare alla vita e di trasmettere gli elementi fondamentali della cittadinanza. Altri tempi, certo. Con gli anni sulla scuola son piovuti sempre più compiti, sia all’interno stesso delle sue discipline tradizionali – la matematica, la storia, la geografia, le scienze naturali, … – sia inserendo qua e là nuove «educazioni»: ai media, alla salute, sessuale, interculturale, alimentare, … Come sempre, però, tra il dire e il fare c’è proverbialmente di mezzo il mare. Basta avere qualche figlio alla scuola media o scorrerne il «Piano di formazione» per rendersi conto che tante nozioni che fluiscono durante i quattro anni, e che assai spesso concorrono alla riuscita scolastica, sono destinate a non sedimentarsi in nessun angolino del cervello e della mente. Ma Perrenoud va oltre, osservando come ben altre conoscenze sarebbero molto utili alla vita, mentre non sono contemplate dai programmi, se non, qualche volta, solo di striscio: si pensi alla psicologia e alla psicanalisi, alla sociologia, alle scienze politiche ed economiche, al diritto.
Tra addetti ai lavori si parla da decenni della necessità di rendere più essenziali i piani di formazione dei diversi settori, ognuno dei quali è messo sotto pressione da quello successivo, un po’ come il pesce grande che mangia il pesce piccolo: l’università preme sul liceo, che a sua volta sollecita la scuola media, che si lamenta dell’impreparazione di chi giunge dalle elementari. Ma al di là del mero parlarne, è difficile, se non impossibile, riuscire a modificare qualcosa in più di alcuni dettagli, solitamente marginali. Lascio immaginare cosa succederebbe qualora si volessero ridurre le ore di una qualsiasi disciplina: la lobby annessa inizierebbe certamente a strillare, e gli strilli sarebbero tanto più alti e robusti, quanto più la presunta utilità della disciplina sarebbe blasonata. Già sarebbe difficile ridurre l’educazione musicale; ci si immagini quale coraggio ci vorrebbe per ritoccare la matematica. Si possono immaginare catastrofi epocali.
Per tornare al ministro Bertoli e alle nuove imposizioni parlamentari o popolari che sono oggi sui tavoli del DECS, non resta che immaginare cosa potrebbe succedere se, nei prossimi mesi, giungessero nuove imposizioni popolari o parlamentari da ficcare in qualche modo in questa e/o quella griglia oraria della scuola dell’obbligo: non sono certo gli argomenti a mancare. Nel frattempo il vescovo, Mons. Lazzeri, e gli iniziativisti dell’educazione alla cittadinanza hanno già manifestato il loro netto disaccordo alle proposte dipartimentali.
C’è da sperare, dunque, che qualcuno, magari il dipartimento di Manuele Bertoli, s’ispiri alla rinomata poesia di Robert Desnos «Le pélican», che Bourdieu e Passeron avevano inserito come epigrafe al loro libro più importante – La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement (Minuit, Paris, 1970) – e avvii finalmente la frittata.