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Educare in tempi oscuri

Crescono le forze reazionarie in tutta Europa; la risposta democratica spetta anche alla Scuola, come segnala il pedagogista e ricercatore Philippe Meirieu

In un suo recente lavoro Philippe Meirieu, pedagogista, ricercatore e saggista, afferma che l’ascesa dell’estrema destra, ovunque in Europa, rappresenta un pericolo considerevole per coloro che credono ancora che l’emancipazione di ciascuno e la solidarietà tra tutti siano le uniche prospettive in grado di dare un senso al nostro futuro. […] Nel paese dei Lumi [ma non solo, direi] si deve ancora sperare in un vero risveglio politico, nei mesi e negli anni a venire, da parte di coloro che credono ancora, come diceva Theodor W. Adorno, che «Pretendere che la barbarie non si ripeta più è la prima esigenza di ogni educazione», perché, spiegava, «che ci siano degli uomini che diventano esecutori di ciò che perpetua la loro stessa schiavitù e rinunciano a ogni dignità […], è qualcosa su cui l’educazione ha comunque ancora molto da dire» (Educare dopo Auschwitz, 1967).

Voltaire e Rousseau, 1794 circa

Che sia una destra estrema o anche solo un centro-destra agguerrito, si tratta di un’onda che ha invaso quasi tutto l’Occidente e che ha preoccupanti ricadute sui sistemi scolastici, con una certa enfasi verso i piani di studio, le impostazioni pedagogiche e le regole di valutazione. Ci si può guardare in casa, per cominciare. HarmoS è un concordato che definisce a livello svizzero le discipline che rientrano nella formazione di base e che devono essere affrontate da ogni bambino nel corso della propria scolarità obbligatoria. Queste sono le lingue (lingua di scolarizzazione, seconda lingua nazionale e un’altra lingua straniera), matematica e scienze naturali, scienze umane e sociali, educazione musicale, educazione visiva, educazione alle arti plastiche e educazione fisica. Si badi bene, l’elenco segue l’importanza data a ogni disciplina e trascina nella propria scia la dotazione di ore di insegnamento e il peso della valutazione, che è piuttosto selettiva.

Parrebbe insomma che, tanto o poco, un gran numero di paesi europei insegua quelle “eccellenze” internazionali date da piani di valutazione come PISA, l’indagine internazionale coordinata dall’OCSE, che valuta le competenze degli studenti di 15 anni in lettura, matematica e scienze. L’obiettivo di PISA è misurare, a scadenza triennale, quanto gli studenti, prossimi alla fine dell’obbligo scolastico, siano in grado di applicare le loro conoscenze e abilità in situazioni reali, solleticando un confronto tra i sistemi educativi dei vari paesi partecipanti, ma senza minimamente considerare le strategie messe in moto per raggiungere i loro risultati, cioè come funzionano i sistemi scolastici dei diversi paesi.

Ha affermato lo scrittore Paolo Di Paolo: Dove i genitori non credono nei figli, ci crede la scuola. Dove la società attempata non crede nei giovani, ci crede la scuola. Dove i genitori e la società attempata non credono nella scuola, la scuola è tenuta a credere in sé stessa. Dove la società attempata e le sue sacche reazionarie non credono più o non hanno mai creduto nella democrazia, la scuola continua a crederci. Deve crederci. (La Repubblica, 11.09.2024).

Lo sanno tutti che certi test scolastici si possono superare dopo una bella “secchiata” la notte prima degli esami, magari in bella compagnia, una notte che sarà rievocata quando, da grandi, si faranno le rimpatriate. Da lì a ricordare di cosa si trattava ce ne corre: si commemorano lo stress, il prof accigliato che ci scrutava, gli stratagemmi per inventare i bigini più inespugnabili, in una recita conosciuta da tutte le parti in gioco. E poi? Cosa è rimasto di tutta quella sceneggiata? Purtroppo è quel che succede con regolarità, in tanti gradi scolastici. La palese incoerenza, semmai, risiede nel contenuto di ogni test. Perché un conto è – poniamo – la padronanza mnemonica delle caselline, un altro la capacità di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà: che è una delle finalità della scuola. Direi: più importante delle caselline, e pure di uno qualsiasi dei principi della termodinamica. Ma chi si occupa di valutare gli obiettivi più alti della scuola?

È soprattutto in questo contesto di competizione e selezione, sempre più tracotante e dispotica, che si colloca l’ultima fatica di Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, che potremmo tradurre con “risvegliamo l’Illuminismo”, rianimiamolo, ristabiliamolo, resuscitiamolo. Applichiamone i principi fondamentali. L’autore ricorda che il secolo dei Lumi fu un’epoca di passione per l’educazione, dove si affermò la scienza contro l’oscurantismo e si lottò per liberare i bambini da ogni forma di dominio, compresa quella della Chiesa, che si vantava di proteggere i bambini dalla tentazione e dal peccato inculcando loro un catechismo basato sulla paura dell’inferno. Gli intellettuali illuministi, raccogliendo il sapere globale nelle loro enciclopedie, aspiravano invece a formare individui capaci di pensare autonomamente e scegliere liberamente il proprio destino, una visione di emancipazione che rimane fondamentale anche oggi.

D’accordo, il mondo, fin qua, non è andato esattamente in quella direzione. Forse anche perché la Costituzione della République comincia con La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale, mentre quella svizzera decolla In nome di Dio Onnipotente: come è noto almeno agli umanisti, le parole hanno un senso.

Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, 2024, Éditions de l’Aube, pp. 185 (disponibile anche in formato e-book).

La traduzione delle citazioni dall’originale è mia.

Scritto per Naufraghi/e

La politica che comincia a scuola e rischia di portare a scuola il peggio della politica

Ai progetti che prefigurano sedicenti “Consigli comunali dei bimbi” meglio opporre modelli di funzionamento collettivo e collegiale delle classi, affinché la scuola sia laboratorio di convivenza e collaborazione, non copia dei consessi politici attuali

Quello della mancanza di giovani che si dedicano alla politica attiva – scriveva laRegione nel 2021, informando di una mozione di due consiglieri comunali del Ppd chiassese – è un tema ricorrente a ogni elezione comunale. Per cercare d’invertire questa tendenza, a Chiasso potrebbe presto nascere un Consiglio comunale dei bambini e delle bambine. Al Municipio viene chiesto di istituire l’organo nella formula adottata dalla Città di Mendrisio, con l’invito a «coinvolgere il corpo docenti nella definizione dello stesso e la raccomandazione di chiedere riscontro a chi ha già messo in atto progetti simili».

Pochi giorni fa – come da programma, verrebbe da dire – il legislativo di Chiasso ha deciso l’istituzione del Consiglio comunale dei bimbi, con una votazione quasi bulgara, malgrado il parere negativo della Commissione della legislazione (‘È un progetto lontano dai bisogni reali degli allievi’). La parola passa ora ai docenti, chiamati a trasformare i proclami politici in pratiche pedagogiche; benché, scrive ancora laRegione, «il corpo docenti [abbia] espresso in maniera chiara la perplessità sul progetto e il disagio ad accettare che la politica comunale entri in maniera invasiva nell’attività didattica», mentre questa decisione obbligherebbe la scuola «a occuparsi del Consiglio comunale dei bambini e delle bambine malgrado venga riconosciuto da qualsiasi esperto del settore quanto sia negativo imporre un progetto che non sia condiviso».

Accordo o meno, a me pare una trovata poco sensata e piuttosto esclusiva. Qual è il senso di “copiare” il mondo degli adulti, soprattutto in quest’epoca che ha ridimensionato i partiti e moltiplicato i movimenti? In questa maldestra imitazione del Consiglio comunale, manca tutto: non ci sono i partiti e le loro opinioni e non c’è un organo esecutivo che renda operative le sue risoluzioni. Si può provare a immaginare quali saranno gli “eletti” che saranno eletti per rappresentare tutti i “cittadini” dell’istituto, o chiedersi se sarà possibile disertare le urne: una copia conforme porterebbe a tassi elevati di astensione al voto.

Cosa c’è da imparare, civicamente e culturalmente parlando? Davvero si crede di recuperare questi futuri cittadini alla politica, senza che venga almeno un po’ da ridere? C’è un’unica certezza: sarebbe l’ennesima gara scolastica, vinta quasi di sicuro dagli “eletti” di sempre. Oddio, si sarebbe potuto optare per qualcosa di più semplice, tipo l’assemblea comunale, consesso ancora presente in alcuni comuni con la popolazione ridotta; ma nella sostanza sarebbe cambiato poco.

E allora? Allora c’è che il mestiere del politico bisognerebbe impararlo pian piano, fin dalla più tenera età. Parlando di politica e di istituzioni, Massimo Cacciari si è chiesto: Tu ti affideresti a un medico che non ha fatto un’ora di medicina, a un ingegnere che non sa come stanno in piedi due mattoni? E invece in politica ti va bene che venga il primo che capita per la strada? In anni in cui la società pareva più semplice la politica godeva di un certo prestigio, e spesso il percorso di chi era motivato cominciava dal partito, per poi tentare l’elezione nel Consiglio comunale, quello vero.

Anni prima, una parte seppur minoritaria del mondo della scuola aveva ideato delle pratiche pedagogiche piuttosto affascinanti. Il più noto esponente della democrazia dentro l’aula è sicuramente Célestin Freinet, che, accanto ad alcune scelte pedagogiche e didattiche molto originali – la tipografia scolastica, il giornalino, lo studio per progetti, la cooperazione tra allievi – aveva dato un posto di rilievo alla possibilità che alla voce dei suoi allievi fosse garantito uno spazio concreto per partecipare attivamente al processo educativo.

Qualche anno dopo, Fernand Oury (1920-1997), nato in una cittadina suburbana, una banlieue, diventò maestro nella stessa scuola che aveva frequentato da bambino, alloggiato in un edificio come ce n’erano tanti e come ce ne sono ancora, a più piani, con le aule che s’affacciano sui corridoi e i suoi cortili per la ricreazione: una situazione lavorativa ben diversa da quella di Freinet, nella sua scuoletta di campagna, senza cortili ma con la campagna tutt’intorno. Racconta Philippe Meirieu in un cortometraggio di qualche anno fa (Y a-t-il une autre loi possible dans la classe ?), che all’inizio, le cose non sono state facili per lui: non sapeva bene cosa fare con quei bambini rinchiusi in una «scuola-caserma». E poi un giorno quell’uomo delle città periferiche incontrerà un grande insegnante dei campi, Célestin Freinet. Questo incontro sarà decisivo”.

Sarà infatti proprio Oury a sviluppare all’interno della sua classe una sorta di assemblea istituzionale (Le Conseil, il Consiglio), integrata nella vita scolastica, con l’intento di organizzarsi affinché ogni studente impari come la vita collettiva possa aiutare ogni studente a prendere a carico il proprio lavoro, come evitare che l’insegnante debba chiedere il silenzio ogni cinque minuti, come gli studenti avanzati in una disciplina possano aiutare quelli in difficoltà, come rendere le lezioni ex cathedra più efficaci e le valutazioni più formative…

Non un gioco, dunque, ma un tempo istituzionalizzato, con alcune regole di funzionamento – la regolarità e il rispetto del calendario degli incontri; la preparazione e l’ordine del giorno; la definizione dei suoi compiti, perché il “Consiglio” non è un luogo di chiacchiere per questioni del tutto secondarie, né un organo onnipotente, al di là e al di sopra delle Leggi; la definizione dei ruoli, perché nessun “Consiglio” può funzionare senza un presidente e un segretario di seduta, con compiti definiti e rispettati; la regolare presenza di un verbale, che funga da memoria delle decisioni prese. E, per finire, il pragmatismo dell’insegnante, dato che il “Consiglio” non è un organismo autogestito senza adulti. Fernand Oury : «Il Consiglio comprende i bambini e l’insegnante. Non si tratta affatto di lasciare che i bambini decidano tutto. Senza questo, non sarebbero bambini. Avevano discusso, ad esempio, del destino di un ragazzo molto noioso e molto fastidioso. Avevano deciso di mettergli una pietra intorno al collo e di buttarlo nella Senna, cosa che mi sembrava una decisione molto ragionevole a mio parere. Ho quasi votato a favore… ma solo quasi! Mi sono fermato.»

Per farla breve: una proposta dall’alto contenuto pedagogico e democratico, che porta a capire come deve funzionare la democrazia, che insegna a esprimersi e ad ascoltare, che obbliga a confrontarsi civilmente, al posto dell’agire di pancia; che presuppone che anche una classe è una comunità che non può funzionare senza legge; e che c’è un’affascinante alternativa all’autoritarismo e al suo contrario, il caos.

Nota. Per la descrizione del «Consiglio», invero molto succinta, ho riportato, con una certa libertà, alcune parti del volumetto che ha accompagnato, a suo tempo, la vendita del cortometraggio citato (Philippe Meirieu, Fernand Oury. Y a-t-il une autre loi possible dans la classe?, 2001, Parigi, Éditions PEMF).

Scritto per Naufraghi/e

Un’educazione del sentimento civico

Per non confondere, nella scuola, una pretesa educazione civica con una più appropriata educazione alla cittadinanza e alla democrazia

La pensata comune tende a ridurre l’educazione civica a quelle quattro nozioni in croce. «A livello di scuola media – ha detto Greta Gysin in un’intervista a Enrico Lombardi (Tre domande a Greta Gysin) – si impara ancora quante persone siedono in Consiglio nazionale e quante ce ne sono agli Stati: questi, in fondo, sono dei dettagli che non importano poi così tanto». Invece, continua, «bisogna far crescere la passione per la politica, quindi far capire come si discutono le cose, andare a palazzo federale, andare a palazzo delle Orsoline. Far sentire quella che è la politica, ma proprio sulla pelle, e forse così si riuscirebbe, almeno nelle persone giovani, a risvegliare un po’ di interesse, e così, in definitiva, aumentare un po’ la partecipazione».

Che bello. Ho sott’occhio l’introduzione di un testo di educazione civica di quasi cent’anni fa. «Mentre altri testi hanno cercato di procurare agli allievi molte nozioni esatte intorno all’organizzazione dei pubblici poteri e di fornire al docente un prontuario delle cose che il programma a lui richiede – sono le parole di Brenno Bertoni, autore di uno storico testo di educazione civica – io mi sono sforzato di eliminare tutti i particolari, tutte le singolarità che oggi sono e domani non sono, e forse saranno murate quando lo scolaro sarà fatto uomo. Per contro ho cercato di conseguire l’educazione del sentimento civico, coltivando nel cuore dell’allievo il naturale amore al suo paese, la naturale inclinazione al bene, il naturale aborrimento del male. Mi sono ingegnato di inspirare nell’animo del giovinetto un ideale semplice ma bello di ciò che dev’essere il suo comune, la sua valle, lo stato di cui sarà il futuro cittadino e difensore».

In realtà già l’educazione alla cittadinanza è un proposito piuttosto complesso da definire; se poi si vogliono anche raggiungere obiettivi inequivocabili, il rischio è di creare illusioni, per nascondere la solita figura da cioccolataio. Far crescere la passione per la politica, realizzare il sentimento civico, l’amore per il paese, l’inclinazione al bene e il disprezzo del male, sono fondamenti etici propri di ogni educatore che si muove nell’ambito di una società democratica. Da qui al declinare il desiderio in un percorso pedagogico con le migliori scelte didattiche il passo è sicuramente più lungo della gamba, e forse lo è sempre stato sin dai tempi del “Frassineto”.

Il Piano di studio della scuola dell’obbligo dedica ampio spazio al tema dell’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia, con il lodevole tentativo di precisarne il significato e i traguardi formativi, il modello e i traguardi di competenza, le indicazioni metodologiche e didattiche. È possibile che questo sforzo sia scaturito, almeno in parte, dalle diverse pressioni giunte allo Stato attraverso iniziative che si sono inseguite per almeno vent’anni, da quella dei giovani liberali per l’introduzione dell’ora di civica, all’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», al beneplacito del parlamento per una nuova disciplina nelle scuole medie e medio-superiori e, infine, il verdetto popolare del 24 settembre 2017: 44% di votanti, 63% di voti favorevoli. 56% da educare, per farli andare appassionatamente alle urne.

Come capita spesso, un conto è raccogliere firme e marcare il territorio mandando il popolo alle urne; un altro, invece, credere per davvero che la scuola sia in grado, da sola, di raggiungere obiettivi educativi di questa portata. Che poi, a ben guardare, non c’è bisogno di una nuova disciplina scolastica con le sue brave note – brave nel senso manzoniano del termine. La Legge della scuola, per tanti versi vecchiotta e incerottata, dice tutto già col suo art. 2 dedicato alle finalità. Bisogna leggerlo bene, ricordarselo e fare sempre il possibile per realizzare pienamente quel grande progetto educativo, che si sviluppa attraverso la scuola, la famiglia e – dice la legge – le altre istituzioni educative, vale a dire quella realtà sociale e culturale in cui tutti i cittadini sono immersi: i mass media, i luoghi di studio e di lavoro, i contesti artistici, sportivi, del divertimento.

La scuola di Atene (Raffaello Sanzio, 1509-1511)

 

È lì che avviene la vera educazione civica e alla cittadinanza, e lo è soprattutto nella società di oggi, che ha caratteristiche ben diverse dalla Svizzera e dal Ticino del secolo passato: basta pensare alla moltitudine di culture che vivono e danno vita alla nostra quotidianità, svizzeri o stranieri che siano. La vera sfida di cittadinanza, semmai, è quella di riuscire a rafforzare una convivenza che non sia solo tollerante, rispettosa e laboriosa, ma che sia anche partecipativa nel senso più largo ed empatico del termine. Proprio lì, forse, ci potrebbe essere il vero punto di forza della scuola, già a partire da quella dell’infanzia. Perché è a scuola che si incontrano, convivono e devono imparare a cooperare persone che provengono dalle più diverse situazioni religiose, economiche, storiche, etniche.

Già a quattro anni si possono (e si dovrebbero!) creare dei contesti di cittadinanza, che col passare degli anni – dalla prima infanzia all’adolescenza all’età adulta – diverranno via via più consapevoli della centralità del Diritto in una società democratica. E sarà nel momento della seppur parziale consapevolezza del Diritto che si potrà cominciare a spiegare il perché di talune scelte politiche, di consessi diversi dal comune alla confederazione, di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari.

Quell’altra educazione civica che si continua a evocare è solo un insieme di nozioni più o meno vuote o incomprensibili, che non possono lottare contro l’assenteismo alle urne.

Scritto per Naufraghi/e

Xenofobia, razzismo e rispetto fra i banchi di scuola

Discriminazioni e diritti calpestati passano più o meno sotterraneamente ogni giorno fra i gesti e le parole di allievi, docenti e famiglie. Urge una nuova sensibilità

Il Codice penale svizzero si occupa dettagliatamente, ormai da trent’anni, di Discriminazione e incitamento all’odio. Lo fa con l’art. 261bis, che tratta di razzismo, xenofobia e dintorni: sarebbe utile leggerlo a scuola, assieme alla Costituzione, e spiegarlo a insegnanti, alunni e genitori; e rinfrescarne regolarmente la memoria.

Simonetta Caratti, su laRegione del 17 luglio, ha pubblicato un commento particolarmente interessante. «Imparare cos’è il razzismo sin da piccoli, evita di diventare adulti discriminatori. È una sfida che riguarda l’intera società, in particolare la scuola, dove si stanno moltiplicando le segnalazioni di casi di razzismo, soprattutto verso persone afrodiscendenti».

Così continua: «Che ci sia chi gira la testa dall’altra parte è deludente. L’apertura si insegna con l’esempio quotidiano di tolleranza, prendendo posizione e condannando apertamente i comportamenti razzisti. Specialmente docenti, direttori e chi sta sopra. L’esempio deve venire dall’alto in una società che è permeata da un razzismo strutturale. Se un ragazzino cresce a pane e pregiudizi, c’è da sperare che in classe incontri un adulto che sappia mostrargli altri punti di vista, che allarghi il suo angusto modo di giudicare, che lo renda attento alle parole divisive che feriscono».

Purtroppo l’educazione alla tolleranza, all’empatia, al rispetto, al diritto, alla democrazia è un po’ come l’educazione civica. Certo, la si può confinare dentro una materia scolastica, coi suoi test e gli immarcescibili voti impressi sul libretto: come ha fatto recentemente il nostro Cantone. Ma, sin qua, non si vedono, neanche di sfuggita, risultati di qualche tipo; non fosse così, non saremmo qui a parlare di razzismo.

Negli anni ’80 del secolo passato la scuola del nostro Cantone fu confrontata per la prima volta con un’immigrazione che non parlava italiano. Oddio, l’affermazione è vera solo fino a un certo punto, perché prima c’era stato un altro fenomeno migratorio che parlava tedesco, ma non erano Gastarbeiter. Per i migranti germanofoni del secondo dopoguerra, spesso ricchi e cólti, si creò il primo servizio per gli alloglotti. La Legge della scuola del 1958 si era occupata di loro, e così aveva statuito: Il comune può istituire corsi preparatori di lingua italiana destinati agli allievi di altra lingua che non sono in grado di seguire normalmente le lezioni comuni (art. 94, Corsi per allievi d’altra lingua).

Giunsero, negli anni seguenti, bresciani, bergamaschi, vigezzini, ma parlavano italiano. Durante il boom economico, che fu anche il boom di quella speculazione edilizia che, d’altra parte, continua imperterrita, i migranti in Svizzera erano per lo più italiani del meridione, che i predecessori lombardo-veneto-piemontesi chiamavano terroni. Nel resto della Svizzera squillò l’allarme, e nel giugno del 1970 il popolo svizzero andò alle urne per esprimere il proprio parere sulla campagna contro l’inforestierimento, promossa da James Schwarzenbach, politico di estrema destra: tra La barca è piena e Cercavamo braccia, sono arrivati uomini. La proposta fu respinta dal 54% dei votanti.

Poi cominciarono a confluire in Ticino altre famiglie, provenienti da diverse parti dell’Europa e del mondo, chi per motivi economici, chi per ragioni di guerra e di sopraffazione. E non parlavano italiano. I numeri esplosero a macchia di leopardo in alcuni centri ticinesi. Già nel 1983 si riscoprì quell’art. 94 della legge scolastica per mettere in piedi i primi corsi per i nuovi alloglotti. A Locarno, nell’ultimo decennio del ’900, si registrarono percentuali attorno al 20%. Erano famiglie di rifugiati e lavoratori ai quali non mancava solo la lingua italiana. Erano storie di sofferenza e di emarginazione, che le fragili proposte interculturali non riuscivano a scalfire, così come si era disarmati di fronte al clima razzista e xenofobo che strisciava in un mainstream neanche tanto velato.

E allora: ha ragione Simonetta Caratti? Certo. Ci sono tante “cose” che si possono fare a scuola, sin dalla più tenera età, a partire dalla condanna ferma e rigorosa di chi osa voltare la testa dall’altra parte di fronte a ogni episodio di discriminazione più o meno palese. Ma di ciò di cui parla il 261bis del Codice penale ci sono occasioni a iosa, a scuola, per parlare, fare cultura, educare. Di ciò che il codice penale dovrebbe punire sono piene le arti – la letteratura, la poesia, la musica, la pittura, la religione, il teatro, il cinema. Ci sono i piccoli e grandi episodi della quotidianità, che si possono spiegare e commentare: anche quella dei giornali, dei TG, dei settimanali, dei social (si vedano, in questa sede le esternazioni social dentro un gruppo Facebook privato di sostenitori di Lega e Udc).

Chissà se i giovani formati o abilitati dalla SUPSI per insegnare nelle nostre scuole conoscono – per citarne uno non a caso – i lavori di Janusz Korczak, pedagogista, scrittore e medico polacco che fa parte a buon diritto della storia della scuola e dell’educazione? Ha scritto Erri De Luca: «Passai per via Krochmalna, dove abitavano i Singer, e per via Sliska, dove c’era l’orfanotrofio diretto da Janusz Korczak, che s’incamminò coi suoi centonovantadue bambini allineati verso i vagoni aperti della Umschlagplatz. Se riferiti a persone, i numeri vanno scritti per me in lettere. Le cifre vanno bene per ogni contabilità, tranne che per le vite umane. Per loro ci vogliono le lettere: centonovantadue bambini. Con quella schiera disciplinata e muta Korczak entrò nudo nei tre recinti concentrici del campo di Treblinka fino agli stanzoni dell’asfissia».

Poi, naturalmente, servono modelli significativi: in famiglia, a scuola, nella politica, in radio, in TV, su giornali, portali e blog. Oggi più di ieri il consenso attorno ai valori etici da trasmettere attraverso l’esperienza e la conoscenza non ruota più attorno a un modello riconosciuto di Società civile. La scuola, quindi, sembra assomigliare sempre meno al Paese in cui opera: ma tant’è, la confusione è universale. Così ci si potrebbe chiedere, credo legittimamente, se nel Piano di studio della nostra scuola ci sia spazio per quel che taluni considerano argomenti di nessuna importanza: la xenofobia, il razzismo, il rispetto. Il diritto.

 

Il trailer del film Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki (2011), umanissimo film che dovrebbe far parte della formazione di ogni giovane.

Scritto per Naufraghi/e

L’etica in classe

A proposito delle nuove “Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico” recentemente emanate dal DECS

Ho sempre inteso che le finalità della nostra scuola, impresse nell’art. 2 della Legge, contengono ed enunciano gli obiettivi più rilevanti. Richiamata la collaborazione con la famiglia e l’intero contesto in cui la scuola è inserita, i legislatori del 1990 puntarono alle istanze di giustizia e di libertà, attraverso la realizzazione, crescente con gli anni, del senso di responsabilità, dell’educazione alla pace, al rispetto dell’ambiente e agli ideali democratici. È una missione etica ed estetica, tesa a trasmettere – per dirla con l’antropologo britannico Edward Tylor (1832-1917) – quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società: cioè la cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico.

Il percorso è lungo, inizia con l’entrata nella scuola dell’obbligo e non dovrebbe mai terminare. Nel Piano di studio quelle finalità sono più sfumate, disseminate nei diversi capitoli che lo compongono. Non vi si leggono richiami specifici alle esperienze di pedagogia istituzionale, evocate dal filosofo e pedagogista americano John Dewey, secondo cui l’etica e la democrazia dovrebbero essere insegnate attraverso l’esperienza pratica e la partecipazione attiva degli allievi – teorie poi riprese da molti altri in Europa e nel mondo.

Gli spazi scolastici da dedicare allo sviluppo dell’etica e ai valori della democrazia non sono propriamente istituzionali, cosicché gran parte del compito poggia sulle spalle degli insegnanti e sulla loro capacità di stare a scuola con l’atteggiamento migliore per coniugare i contenuti dell’insegnamento coi fondamenti dell’educazione. Le occasioni sono giornaliere, basta saperle cogliere: quando si discute coi propri allievi, quando si aiuta chi è in difficoltà e si sprona chi ne ha bisogno, quando si valuta, quando si consiglia o si reagisce a ciò che gli allievi portano in classe, quando si elogia o si rimbrotta. E quando si parla coi loro genitori, alla ricerca delle necessità e delle urgenze educative, che devono trovare dei punti d’incontro, senza ricatti né prevaricazioni, da una parte come dall’altra.

«In nessun altro sistema sociale – avevo scritto in un articolo del 2000 (pp. 11-21) – la realtà è tanto frammentata e diversificata come nella scuola; le norme variano a seconda della personalità dell’insegnante, del suo umore, della sua storia, della sua visione dell’esistenza, del suo credo pedagogico. Ogni insegnante, di conseguenza, ha una sua maniera di approvare e disapprovare, di rimproverare ed elogiare, di punire e gratificare. In altre parole, ognuno ha un suo personale codice per regolare i comportamenti dei suoi allievi»: a condizione, naturalmente, che non ci si spinga mai oltre i rigorosi confini del Diritto.

D’accordo, sono passati cinque lustri, molti dei docenti di quegli anni sono usciti dalla scuola, il cambio generazionale è lì da vedere; così – si spera – anche i “codici penali” usati da ognuno. Sono convinto che l’autorevolezza sia più diffusa dell’autoritarismo, anche se gli autoritari, vestigia di una scuola che in troppi rimpiangono ancora, non si sono del tutto estinti.

Il DECS, un mese fa, ha emanato delle Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico, che mi hanno francamente scombussolato. «Con “comportamento inadeguato” – si legge – si intende qualunque condotta impropria di adulti di riferimento che operano nella scuola. Un comportamento inadeguato si manifesta in particolare attraverso condotte, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, rispettivamente di metterne in pericolo l’apprendimento, oppure di degradare il clima di istituto».

A me pare una direttiva più autoritaria che autorevole. Mi ha scandalizzato il furore enciclopedico con cui si specificano le forme diverse dei comportamenti poco consoni a un insegnante, come se i vertici del DECS avessero improvvisamente percepito larghe fasce di insegnanti in qualche modo violenti, e, dunque, inadatti.

Il ventaglio dei comportamenti sconvenienti è molto ampio, ma non necessariamente definito in termini concreti, come richiederebbe ogni codice serio, che andrà applicato di fronte a contegni indegni della professione. Lo spettro delle interpretazioni soggettive e legate alla propria idea di etica (comportamenti adeguati vs comportamenti inadeguati) è dunque arbitraria. Ma quando il DECS promulga una direttiva del genere al termine di un anno scolastico, è come se stesse dicendo che un numero significativo di docenti ha palesato comportamenti inadeguati, che attentano alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, per cui bisogna correre ai ripari.

Ora, quand’anche questa fosse la realtà percepita, potrebbe voler dire che a qualcuno le cose siano colpevolmente scappate di mano. In tal caso non è mai troppo tardi per intervenire, avviando le inchieste ritenute opportune e procedendo con le misure più consone, senza insabbiamenti né sconti: come si fa con le persone normali.

Così, invece, si dà al paese un pessimo messaggio, che rischia di gettare ombre sui tanti insegnanti che fanno degnamente il loro lavoro, sovente in solitudine, accollandosi quella missione etica della scuola che non ha bisogno di nuove e minacciose direttive: bastano le norme della scuola, i codici dello Stato e la Costituzione.

 

Scritto per Naufraghi/e