Malgrado tutto, ancor oggi c’è chi mette la scuola sul banco degli imputati per le lacune civiche della popolazione. Nel 2002 il Gran Consiglio modificò il regolamento della scuola media, introducendo un intero articolo dedicato all’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza. Con questa innovazione legislativa si statuì che l’insegnamento dovesse avvenire in III e in IV media e fosse compreso, parzialmente, nel programma di storia e civica; poi l’organizzazione di alcune giornate o mezze giornate riservate a queste tematiche avrebbe fatto il resto. Son passati dieci anni, ma non sembra che la riforma abbia dato i frutti sperati. Se le elezioni comunali sono un buon termometro per palpare il polso al senso di appartenenza dei cittadini alla comunità politica, allora vien da dire che il problema non è stato risolto. È infatti noto che i partiti hanno incontrato difficoltà invalicabili a trovare candidati per le loro liste in vista delle vicine votazioni comunali, tanto che in un comune su quattro non si andrà a votare: elezioni tacite, il che non è un buon segnale e, soprattutto, non significa che l’armonia regni sovrana tra i cittadini.
Quattro anni fa andò a votare poco più della metà di chi ne aveva diritto. L’elezione dei nostri amministratori e legislatori, dunque, è un affare di pochi. Eppure gli eletti ci governeranno per quattro anni, e non è detto che non facciano danni che si allungheranno nel tempo – così come non si può mettere la mano sul fuoco che non si faranno gli affari propri. Ma allora, per tornare al nocciolo del discorso, come si educano e si avvicinano i cittadini alla civica e, così, anche alla politica? Esistesse una risposta sicura e oggettiva il problema non esisterebbe e il parlamento non avrebbe dovuto far finta di affrontarlo cambiando il regolamento della scuola media. I nostalgici evocano sovente «Frassineto», il noto libro dell’avvocato, giornalista e politico Brenno Bertoni, «Letture di educazione civica ad uso delle scuole maggiori e della 3ª ginnasiale», pubblicato la prima volta nel 1933. Quello, però, era un testo che descriveva e spiegava il funzionamento delle istituzioni, che era tutto sommato facile e logico verificare coi propri occhi (e, soprattutto, coi propri pensieri). Iniziava con un motto: «Formare il cittadino, facendo astrazione dell’uomo, è impossibile. Ma non è meno impossibile formare l’uomo senza formare il cittadino». Poi, attraverso esempi concreti, dispiegava la tela della Politica reale, col fondamento profondo che ricoprire una carica politica era un onore, ancor prima più che un onere.
Oggi si dice che l’ideologia è morta, che destra e sinistra sono concetti antiquati o, almeno, passati di moda. Sarà. Coerentemente la politica odierna ha inventato le liste senza intestazione e quelle civiche, come se non esistessero partiti e movimenti a sufficienza per fare una scelta assennata, magari turandosi qualche volta il naso. Così i nostri adolescenti coltivano altri interessi e snobbano la politica, col probabile timore che, vada come vada, non sarà possibile far qualcosa affinché mamma possa stare a casa con noi, al posto di sgobbare come un mulo dalle stelle alle stelle a fare un lavoro del cavolo, così da dare una mano a tirare le fine del mese. E contro l’aumento dei premi della cassa malati c’è poco da fare. E il figlio disoccupato non troverà un lavoro decoroso neanche promettendo al partito o all’amico fugace il tanto agognato voto personale. Nel frattempo il nostro adolescente leggerà magari i giornali e seguirà le nostre TV. Così davanti al teatrino quotidiano dei politici si allontanerà ancor più, nella convinzione che la possibilità di cambiare le cose sia affare dei soliti maneggioni, contro cui non val la pena scaldarsi gli animi. Eh sì, si fa in fretta a dire educazione civica.
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L’educazione civica nei tempi della scuola-supermercato
Il filosofo Franco Zambelloni si è soffermato recentemente sulla caduta libera del «senso civico» nella nostra società («il caffè», 2.5.2010). Senza entrare nel merito delle «tante cause che hanno concorso al deterioramento del civismo, perché sono tutte note», Zambelloni osserva che il «prevalere dei diritti e la dimenticanza dei doveri ha fatto eclissare la figura del cittadino. In sua sostituzione è emersa la figura dell’utente. Non è un cambiamento da poco: per un cittadino lo Stato è fonte di diritti e doveri al contempo; per un utente, lo Stato è solo un dispensatore di servizi che ciascuno ha il diritto di pretendere». Una conclusione cinica, ma che riflette bene una realtà sconsolante. Anche nella scuola, purtroppo, si sente sempre più spesso parlare di allievi-utenti, così come con altrettanta pervicacia si sta trasformando la scuola in un grande magazzino ove, accanto ai tradizionali prodotti del settore – leggere, scrivere, far di conto… – è facile trovare nuovi gadget acchiappa-clienti: dalle refezioni ai doposcuola, oltre a una vasta gamma di prodotti adatti alle più svariate educazioni (sessuale, ecologica, alimentare, stradale, ambientale); e poi lingue di ogni origine e spendibilità, curricoli informatici, concimi per una crescita rigogliosa dell’intelligenza emotiva, e via elencando. Ha scritto Philippe Meirieu: «La scuola non è un servizio, ma un’istituzione. Cos’è un servizio? È un organismo che “rende delle prestazioni” a un insieme di persone. La Posta è un servizio, così come l’amministrazione della rete stradale. Ora, in una repubblica devono esistere almeno tre organismi che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono delle istituzioni. (…) L’educazione, nel periodo della scolarità obbligatoria – vale a dire nel momento cruciale in cui lo Stato decide di scolarizzare tutti i bambini e di garantire loro un’uguale istruzione – deve obbedire a valori specifici. Essa non ha la vocazione di essere il campo chiuso della concorrenza sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno, significa condannarsi alla scuola-supermercato» (L’école ou la guerre civile, 1997).
Certamente la logica della scuola-emporio è stata favorita, negli ultimi 30/40 anni, da una presuntuosa voglia di onnipotente tuttologia, che ha fatto credere a molti di essere in grado di muoversi sui fronti più disparati. Così la scuola ha sacrificato sull’altare delle discipline in apparenza meglio spendibili una gran quantità di materie “inutili”, quali la storia, le arti, la speculazione intellettuale: insegnamenti senza i quali è assai difficile costruire il senso civico. Per riprendere l’articolo di Zambelloni, «il senso civico ha una precisa radice culturale: l’appartenenza a una comunità. Solo quando si ha una chiara coscienza di appartenere ad un gruppo sociale se ne condividono le regole, le si rispetta e si vuole che siano rispettate». Ma c’è di più. Stando a numerosi studi, alcuni dei quali assai noti, sembrerebbe che anche nei campi più tradizionali – come insegnare a leggere e scrivere – la scuola odierna non sia più così in gamba. E allora, posti di fronte a necessità di educazione e apprendimento sempre più complesse e numerose, si dovrà prima o poi ripensare al ruolo e alla formazione degli insegnanti, ai quali non si può attribuire integralmente il decadimento attuale. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 si è scelto di terziarizzare la loro formazione: non è però chiaro, parafrasando Edgar Morin, se i maestri di oggi siano “ben pieni o ben fatti”. Le nuove generazioni di insegnanti, in ogni caso, non sembrano più efficaci e professionali di quelle precedenti. Quella del docente è rimasta nei secoli una professione strutturalmente imbalsamata: lo si diventa una volta per tutte e, salvo rari colpi di fortuna, non vi sono possibilità di carriera e di differenziazione dei ruoli: un caso forse unico nel panorama delle professioni del XXI secolo.
Riflettendo fra l’educazione civica e la “Politica sporca”
Anch’io, come molti coetanei, quand’ero un ragazzetto dovevo sorbirmi giornalmente il notiziario. Mario Casanova, a mezzogiorno e mezzo in punto, leggeva il bollettino dell’Agenzia Telegrafica Svizzera, che qualche volta riusciva ad attirare l’attenzione anche di noi sbarbatelli, mentre è pur vero che, solitamente, non afferravamo granché, al di là della memorizzazione un po’ acritica di qualche nome della politica internazionale e nazionale (Eisenhower e Adenauer, che gran confusione). Poi capitava che se ne parlasse coi grandi, ma di solito ci si limitava ad ascoltarli, e non sempre suonavano in piena armonia. Ricordo, ad esempio, che nell’agosto del ’64 anche Radio Monteceneri dedicò diversi notiziari all’agonia, alla morte e alle esequie di Palmiro Togliatti, uomo che anche da noi non faceva certo il pieno di consensi: e giù lunghe dispute. Non rammento quando Casanova andò in pensione – e forse non c’era già più in quell’estate spensierata. Ma «quel» notiziario era «il» notiziario.
Poi taluni temi si ritrovavano sui giornali e, naturalmente, sul leggendario «Almanacco Pestalozzi», che riportava anno dopo anno i nomi dei consiglieri federali e dei governanti cantonali, accanto, un po’ alla rinfusa, a concetti di civica, di storia e di geografia; e poi l’alfabeto Morse, le regole della geometria, l’elenco dei Cantoni e molte altre nozioni ritenute importanti dalla cultura pedagogica dell’epoca. Anche se il notiziario non l’ascolto più con tale consuetudine, è quello il contesto educativo in cui si è formata la mia conoscenza della ‘res publica’ e si è sviluppato il mio senso dello Stato: un impasto di elementi formali (l’«Almanacco», qualche sporadica lezione specifica) e di situazioni informali (il notiziario subìto e le discussioni dei grandi). Poi, come no!, sentivo dire che «la politica l’è ’na roba sporca», e qualche anno più tardi scoprii l’esistenza del «tavolo di sasso», che non era solo una metafora. Ma ero già sufficientemente smaliziato per capire che, lì attorno, non sedessero solo mitici eroi da additare quali fulgidi esempi alle generazioni future.
Oggi l’educazione civica sembrerebbe diventata un affare esclusivo della scuola, soprattutto da quando, nel 2001, il Gran Consiglio ha modificato alcuni testi legislativi introducendo norme relative all’insegnamento dell’educazione alla cittadinanza – come viene chiamata oggi. Ma dalla scuola non ci si possono attendere magie, anche perché i nostri insegnanti si formano all’Alta Scuola Pedagogica, mica alla fantastica scuola per maghetti di Hogwarts. Così la recente interrogazione di Abbondio Adobati, che vuol sapere dal Consiglio di Stato quali sono i risultati di quella minuscola modifica legislativa di cinque anni fa, è per lo meno un po’ leziosa. Anche perché la risposta era già indirettamente contenuta nel rapporto della commissione speciale scolastica che aveva proposto alcune soluzioni, poi divenute norma di legge. Scriveva il relatore Franco Celio, che «lo studio delle istituzioni deve necessariamente seguire – non precedere – la sensibilizzazione all’interesse per la ‘cosa pubblica’».
Cioè a dire: per educare futuri cittadini «in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società» occorre lo sforzo di tutti. Ma la scuola – luogo privilegiato di educazione formale – non può in nessun caso raggiungere da sola obiettivi di questo tipo. Non ne era capace cinquant’anni fa, quando le dinamiche sociali e culturali erano più lineari e uniformi, ed è ancor più in affanno oggi, confrontata com’è con una moltitudine di individui che diventano maggiorenni senza essere minimamente sfiorati dal dibattito politico: perché non ascoltano nessun notiziario né seguono il tiggì, perché dei giornali leggono solo lo sport, perché asfaltopoli, il fiscogate e lo scandalo dei permessi facili – di cui avranno pure qualche eco lontana – sono solo un alibi per confermare a se stessi che la politica è una cosa sporca.
Nel grande emporio della formazione
Sul Corriere del 26 marzo, Saverio Snider ha chiosato con sarcasmo la notizia, rimbalzata sin qui dall’oberland zurighese, secondo cui “…un liceo di Wetzikon ha deciso di lanciare un «progetto pilota» sul fronte pedagogico: lezioni senza docente per promuovere l’apprendimento individuale. Gli allievi riceveranno una lista di compiti e obiettivi didattici e dovranno sbrogliarsela da soli; gli insegnanti saranno presenti per assisterli solo per un’ora settimanale (invece delle odierne tre o quattro), salvo ovviamente essere raggiungibili tramite posta elettronica”. Ironia a parte, la pensata non è così peregrina come sembra, in un’epoca in cui la scuola è sottoposta a pressioni di varia estrazione, nell’intento sempre più appariscente di trasformare un’istituzione al servizio del Paese in un immenso emporio dell’istruzione, dove molti vorrebbero che ognuno potesse servirsi secondo i suoi bisogni più istintivi e immediati.
Stando a quanto scrive Snider, la trovata non ha alcun obiettivo didattico, ma risponde solo a una ragione economica, quella di risparmiare sui salari. Ma la Municipalità di Wetzikon potrebbe inconsapevolmente aver scoperto l’uovo di Colombo del liberismo applicato all’istituzione scolastica: in fondo se non fosse per gli insegnanti e l’apparato burocratico dei diversi dipartimenti dell’istruzione, non vi sarebbero altri impedimenti sulla strada dei programmi à la carte, dell’energico aumento del numero di allievi per classe e dell’applicazione di una vera selezione, per separare i meritevoli dagli incapaci. Nell’800 la borghesia laica e liberale si era battuta aspramente contro il clero, per sottrarle il potere dell’educazione dai fanciulli e dei giovani, che la chiesa esercitava pro domo sua. Anche perché – come ricordava Diego Erba in un recente articolo su La Regione – “la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società”. Quella lotta ha portato all’edificazione della scuola repubblicana, che è scuola di tutti, grazie all’impegno di persone che credevano nella democrazia. Ancora tre anni fa, in occasione della votazione sulla proposta di sussidio alle scuole private, c’era stata una corsa all’evocazione dello spirito fransciniano, per sottolineare i pericoli di una scuola consegnata nelle mani degli interessi privati.
Come sembrano lontani, quei tempi! Non passa giorno senza che i neo-liberisti nostrani si scaglino contro la scuola e i suoi insegnanti, descritti come una casta di sfaccendati pieni di privilegi, che servono a poco e che, soprattutto, costano un patrimonio. Insomma: i poteri forti sono stufi di questa scuola che, nelle intenzioni del Parlamento, dovrebbe promuovere “…lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”: quante frottole… In tal senso la proposta di Wetzikon di togliere dai piedi un bel po’ di insegnanti è una trovata formidabile, perché fa risparmiare un sacco di soldi e, soprattutto, non implica la dispendiosa perdita di tempo per accrescere le competenze di chi potrà benissimo guadagnarsi da vivere senza troppe nozioni. Anzi, a questo punto converrebbe estendere la riforma anche a tutta la scuola dell’obbligo: pochi insegnanti affiancati da un numero adeguato di sorveglianti – che costano poco e si potrebbero benissimo reclutare tra i genitori – favorirebbero in tempi brevi la metamorfosi della scuola che conosciamo in un grande supermercato della formazione, dotato beninteso di regolare mensa e organizzato attorno a proposte formative variegate: inglese, matematica, biologia e letteratura; ma anche bricolage, pallacanestro, origami e cucina. A libera scelta, con buona pace della democrazia e dell’integrazione sociale e culturale.
Scuola, sulle vie difficili della “democratizzazione”
Negli ultimi trent’anni anche il Cantone Ticino ha imboccato la strada della democratizzazione degli studi, attuata con l’istituzione della scuola media, la proliferazione dei licei, un incisivo intervento sul piano dell’aiuto allo studio e altre misure meno vistose. Oggi, dunque, tutti possono “andare avanti a studiare”, tanto che quasi nessuno, giunto ai fatidici quindici anni, chiude definitivamente con le aule scolastiche, emarginato nelle campagne o relegato in qualche cantiere edile a mescolar la malta. Parallelamente si è assistito a un lento quanto inesorabile declino del tessuto culturale di molti adulti e innumerevoli giovani, unito – ma poteva essere altrimenti? – a un preoccupante calo delle competenze linguistiche. Colpa della democratizzazione, sembrano dire i detrattori più accaniti dell’attuale scuola dell’obbligo, ch’è fatta di scuola media, ma anche di scuola elementare.
Così il mio recente dissenso verso la proposta britannica di formare le classi sulla base del quoziente intellettivo è stato liquidato da qualcuno con un chiaro gesto di condanna dei pedagogisti, rei di sostenere che tutti possono imparare e che ritengono ancor oggi come sia possibile insegnare bene anche a gruppi eterogenei, senza nemmeno dover abbassare dogmaticamente il numero massimo di allievi per classe. In effetti il processo di democratizzazione degli studi si è rivelato in un gran numero di casi niente più che una democratizzazione dei diplomi. Stando alle più recenti inchieste internazionali, i nostri quindicenni non sanno più leggere, credono che Bach sia un deodorante e sono dell’avviso che Leopardi sia un eccentrico tipo di Rancate; però farfugliano diverse lingue straniere, e si sentono così dei veri cittadini del mondo. Voler sostenere che la situazione sia meno deplorevole di così sarebbe un modo assai disinvolto per atteggiarsi a struzzo. Ma non è nemmeno possibile – neanche in tempi di globalizzazione e di generale spostamento a destra della politica – gettare dalla finestra il bambino con l’acqua sporca per invocare la restaurazione di sistemi di selezione scolastica che non servirebbero a nessuno.
Diciamo allora che occorrerebbero programmi scolastici più chiari ed essenziali: poche cose ma difficili, come ama ripetere un mio amico direttore di scuola. Invece mano a mano che il tempo passa, la scuola tende sempre più a trasformarsi in un mammifero dalle mille poppe, che dispensano un po’ di tutto, nella futile smania di rispondere agli echi delle innumerevoli sirene che si aggirano (anche) nelle nostre contrade e secondo le quali la scuola dovrebbe insegnare bene le lingue (no, il latino no…), manifestare un alto profilo nelle materie scientifiche e logico-matematiche, educare alla cittadinanza, al sesso, al codice della strada, all’igiene alimentare e all’ecologia. Naturalmente servirebbero anche quel poco di italiano, di storia e geografia, di ginnastica e musica: ma non è in questi ambiti che si gioca il futuro dei cittadini. Il risultato è una scuola che ricorda più una fabbrica di saponette che un luogo di cultura.
A ogni buon conto non è separando i bravi studenti dai cattivi – questo lo si fa già – che si riuscirà a imprimere una vivace svolta all’attuale tendenza al minimalismo, soprattutto se persisteremo nel dare per scontato che tutti i maestri e i professori che popolano le nostre aule sono competenti, bravi, capaci, didatticamente irreprensibili e zelanti come missionari. Nel corso degli anni lo Stato si è dotato di strumenti molto minuziosi per impedire qualsiasi verifica individuale della qualità dell’insegnamento e per intervenire qualora si scovasse anche un solo docente infingardo o pacchianamente incapace. In tutta evidenza molte altre ancora sono le cause del disagio – e le differenze attitudinali tra allievi sono di sicuro la causa meno inquietante, anzi. Ma il cocktail di obiettivi confusi e intangibilità dei macchinisti ha un retrogusto amaro; tanto alla cassa passano sempre gli stessi discoli: quelli che rompono, chi se non loro?