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Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi

Parrebbe che ai piani alti del nostro dipartimento dell’educazione ci sia un po’ di nervosismo. O, almeno, il clima sembra un po’ concitato. A inizio ottobre è apparsa sul Corriere una lettera aperta a Manuele Bertoli, direttore del DECS, con qualche domanda critica relativa all’obbligo della frequenza per i bambini di quattro anni. È una delle novità dell’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, noto come HarmoS, che sta muovendo i primi passi proprio quest’anno scolastico.

La risposta del ministro, un po’ piccata ma rassicurante, è giunta di corsa. Passa un giorno ed ecco una fulminante opinione di Lauro Tognola, uomo di scuola ora in pensione. Siamo ancora dalle parti di HarmoS e Tognola spara ad alzo zero sul «Piano di studio della scuola dell’obbligo», di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la «rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica» o la «pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare», tanto per dirne un paio.

Anche stavolta, nel giro di ventiquattr’ore, giunge la risposta di Bertoli, che parte proprio dalla lingua del documento: «Può darsi – concede il ministro – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti».

Il problema non è la qualità letteraria del Piano o lo slancio appassionato che la trama del racconto dovrebbe scatenare. Tuttavia l’intreccio ha le sue singolarità e il linguaggio, qua e là, è ostile, condito con dosi smodate d’un pedagogichese fumoso benché di moda: ciò che non contribuisce a spianare la strada all’intento dichiarato di «affrontare la formazione in modo esplicito».

La chiarezza e il divieto perentorio di equivocare, o di interpretare secondo i propri comodi, sono irrinunciabili, soprattutto se si intende dar vita a una svolta storica, che rivolti la scuola come un calzino e, con alcune mosse ben studiate, dia scacco matto a tutti i suoi problemi, a partire dalla pesante selezione che interviene già dopo la seconda media, benché sia socialmente predisposta con largo anticipo.

Questo è l’anno del passaggio concreto ad HarmoS e ai suoi comandamenti. Poi ci si immergerà nell’ormai celebre «Scuola che verrà», un progetto che sarà presentato in primavera, dopo il lancio pubblicitario di un anno fa.

Non so da dove salti fuori questa fregola della rivoluzione copernicana a tutti i costi. Per iniziare sarebbe stato più utile avere il coraggio politico di metter mano alla Legge della scuola, per chiarire se la scuola dev’essere al servizio del Paese, dell’economia e della finanza, o di chi altro. In altre parole, bisognerebbe dichiarare a chiare lettere se la scolarizzazione obbligatoria a quattro anni deve mirare con determinazione alla formazione di base elevata di ogni futuro cittadino, oppure se sia più conveniente intervenire precocemente sulla selezione degli individui in base a criteri tutti da definire (si potrebbe chiedere ad Avenir Suisse, a costo zero).

Chi segue questa rubrica sa da che parte sto. I programmi della scuola dell’obbligo chiamano a gran voce essenzialità e chiarezza. Qualcuno, frattanto, dovrà spiegarci quando, come e con quali mezzi si procederà all’informazione dei docenti sul nuovo Piano di studi, come supplemento alla normale formazione continua.

Scuola obbligatoria: si può mirare a risultati elevati per tutti?

Succede di rado, ma capita che qualcuno mi scriva per commentare un pezzo apparso in questa rubrica. Dopo quello uscito l’8 settembre, dedicato ai settant’anni dalla morte di Janusz Korczak, ho ricevuto un messaggio da un caro amico, mio Maestro, ormai tanti anni fa, ai tempi dell’università. Bello!, mi ha scritto. Ma a cosa alludi con «i sempre più frequenti appelli alla selezione precoce?». Continuo a ritenere che la scuola dell’obbligo debba alzare il tiro su alcune essenzialità, cioè insegnare di più e meglio a tutti. Poi dev’essere in grado di orientare, mentre il compito di selezionare tocca alla scuola post-obbbligatoria e al mondo del lavoro. Perché gli appelli  alla selezione precoce mi sembrano sempre più frequenti? Esempio 1. Lino Guzzella, nuovo rettore del politecnico di Zurigo, ha chiesto «esami più difficili, soprattutto in matematica, fisica, tedesco e inglese», perché alla fine tanti studenti «arrivano da noi all’ETH e sono male preparati allo studio» (Corriere del 30 luglio). Ottima l’analisi, pessima la terapia. Esempio 2. La deputata Francesca Bordoni-Brooks, membro della commissione scolastica del Gran consiglio, ha scritto che converrebbe «dividere questa scuola media unica (…) per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali» (Corriere del 4 aprile). Esempio 3. Sergio Morisoli, fondatore di AreaLiberale: «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali [Toh!?]. E va valorizzata la scuola professionale rispetto ad un modello che porta tutti all’università e alle scuole superiori» (Corriere del 12 agosto). Walo Hutmacher, sociologo, ha lanciato un bel sasso nello stagno, lontano mille miglia dallo slogan sulle pari opportunità per tutti, ormai diventato obsoleto, tanto è politicamente corretto: «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé» (Éducateur, febbraio 2012).
Pronta, va da sé, la risposta del mio interlocutore: «Non conoscevo l’idea di Hutmacher: in ogni caso mi fa riflettere e dovrebbe spingermi a ripensare un’evidenza sulla quale ho sempre sorvolato. Ma a proposito di quell’enunciazione: la chiave sta naturalmente nel concetto di niveau élevé, che non mi sembra chiarissimo. Tu come lo espliciteresti?». È assai difficile, naturalmente, dare una risposta esauriente a simile questione. Cosa significa, ad esempio, che un bambino, alla fine della seconda elementare, deve «Saper leggere silenziosamente testi brevi e semplici, comprendendone il significato» ed essere capace di «scrivere brevi testi, usando le parole appropriate, con frasi chiare nella costruzione e corrette nell’ortografia», come recitano i programmi della scuola elementare? Com’è un testo breve e, nel contempo, semplice? E quali sono le parole appropriate, per di più inserite in frasi realizzate con la necessaria chiarezza? Mi fermo qui, poiché andando in su con gli anni di scuola i programmi diventano vieppiù complicati nell’enunciazione e vaghi nel significato concreto: soprattutto se poi c’è chi dà le note per certificare il raggiungimento del traguardo. Tra le tante ricerche prodotte dalle scienze dell’educazione, non esistono, ch’io sappia, risposte a tali quesiti. Eppure è su questi aspetti che, dai e dai, si infrangono tante innovazioni e tante rivoluzioni didattiche. Anche perché in assenza di riferimenti minimamente precisi, son sempre i soliti poveri cristi a lasciarci le penne e a finire per assumere l’ingrato ruolo dell’ultimo della classe. Ho scritto al mio interlocutore: «È vero che il concetto di niveau élevé non è chiarissimo. Ma qual è il livello minimo sopportabile? E come fare per arrivarci?» Essenziale la sua replica: «Risposta ovvia, all’epoca nostra: come fanno i finlandesi. In pratica?». Studiando per bene il sistema scolastico di quel paese, ad esempio, invece di limitarsi a citarne solo gli aspetti che fan comodo, da destra e da sinistra. O no?

I livelli della scuola media non sono una vacca sacra

Con tutte le volte che ho scritto peste e corna dei livelli A e B della scuola media e di tutte le forme di selezione più o meno dissimulata che avvinghiano la nostra scuola come una malerba, sono naturalmente favorevole all’iniziativa parlamentare dei Verdi, che vuole abolire i livelli nel secondo biennio: anche se poi bisognerà vedere quel che ciò potrà significare. Si fa in fretta a togliere, ma bisognerebbe avere le idee in chiaro su dove si vuole andare, ciò che non è per nulla evidente, al di là delle solite dichiarazione in perfetto stile politichese. Il consigliere di Stato Manuele Bertoli ha subito dichiarato che vale la pena discuterne: «Qualcosa che non funziona effettivamente c’è. Il tema quindi non è eludibile e non può essere liquidato con una presa di posizione dipartimentale. La riapertura del dibattito sulla scuola media è essenziale». Aggiungerei: su tutta la scuola dell’obbligo, visto che con HarmoS inizierà persino due anni prima, a quattro anni. Però è ormai cominciato il teatrino della politica istituzionale, quella che volentieri fa in modo di non guadagnarsi la P maiuscola. Generazione Giovani, il movimento giovanile del PPD, ha già reagito «esprimendo stupore e contrarietà verso un’iniziativa che se approvata, farebbe solo del male alla qualità della formazione dei giovani ticinesi». Perché tanto sbigottimento affidato a un comunicato stampa, appena poche ore dopo la presentazione dell’atto parlamentare? Scrivono gli stessi giovani del PPD: «A spingere la stesura di un comunicato stampa ci ha pensato il Consigliere di Stato On. Manuele Bertoli che, a fronte delle sue prime reazioni, sembra purtroppo sostenere la tesi dell’abbandono dei gruppi differenziati d’insegnamento nelle materie di matematica e tedesco». Si guardi attentamente quel «purtroppo», che non lascia presagire nulla di buono nell’ipotesi che si apra un utile dibattito – e tenuto conto che nessuno può tirarsi fuori da una situazione che disgraziatamente è congenita: perché c’è davvero qualcosa che non gira come dovrebbe. Mentre scrivo son trascorsi solo pochi giorni dalla presentazione della proposta dei Verdi, ma è già polemica. Magari, quando la rubrica apparirà, altri pronunciamenti avranno contribuito a esporre posizioni più o meno precostituite, secondo i dogmi di ogni partito, movimento o associazione.
Eppure quando la deputata Francesca Bordoni Brooks, sul Corriere del 4 aprile, aveva buttato un pesante sasso nello stagno, proponendo di «dividere questa scuola media unica per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali», nessuno era insorto con uguale tempismo e toni da vigilia dell’apocalisse. Sarà stucchevole, ma viene in mente la nota battuta attribuita ad Andreotti: a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina. In altre parole: vuoi vedere che il mantenimento dell’attuale scuola media, magari con un inasprimento delle regole per separare il grano dal loglio, trovi molti più consensi di quel che non si scriva e si dica, da destra a sinistra e ritorno? In fondo, tanto per fare un esempio, la scuola media, classe 1974, era nata coi livelli A e B, ma senza la nota di condotta e i mezzi punti per valutare le diverse materie. A pochi anni dalla sua generalizzazione, però, la nota di condotta e i mezzi punti erano stati riabilitati se non a furor di popolo, almeno a furor d’insegnanti. Di grazia: qualcuno è in grado di dire in maniera comprensibile a che serve la nota di condotta, questa specie di casellario giudiziale ante litteram? E qualcuno sa spiegare, con la dovuta trasparenza, qual è la differenza tra un 4½ e un 5? Mi verrebbe da dire che le cose o si sanno o non si sanno: il resto son solo diavolerie scolastiche, fumo negli occhi per convincerci che le note siano un fatto oggettivo e scientifico. E pensare che siamo solo all’inizio dell’opportuna contesa: c’è da credere che la discussione sull’iniziativa verde riserverà tanti momenti spassosi, a cavallo tra farsa e tragedia, a seconda delle diverse sensibilità.

La scuola e quella smisurata voglia di misurare tutto

Viviamo un’epoca che chiama a gran voce le misure. Tutto dev’essere misurato, soppesato, monetizzato. Tutto dev’essere utile. Sarà per questo che talune discipline che una volta qualificavano la scuola, come la poesia, la storia o la filosofia, oggi non sono più così di moda: si possono valutare solo in parte, perché è difficile quantificare le conoscenze degli allievi e degli studenti a questo livello. Oltre a ciò sono materie poco spendibili e che non riempiono il borsello, a meno che uno, da grande, non abbia in testa di fare il poeta, il filosofo o il professore di storia. Ma è di per sé frustrante, o per lo meno sospetto, che un ragazzino o un adolescente scelga di fare un lavoro così inutile. A scuola, si sa, per misurare si usano le note. Nella scuola dell’obbligo esse vanno dal 3 al 6 e il 4 rappresenta la sufficienza. Quand’ero un ragazzino, dei libretti pieni di 4 si diceva ch’erano costellati di sedie, forma elegante per dire che valevano poco. Ma quella era una scuola che si limitava a mettere in fila gli allievi dal più al meno bravo. C’erano i maestri larghi di manica e quelli più tirchi. Capitava che se prendevi un 5 in qualche disciplina poco amata, a casa ti chiedevano le note dei tuoi compagni: il tuo 5 valeva 5 solo se i tuoi compagni avevano preso 3½ o 4, neanche il tuo 5 fosse La Gioconda.
Negli anni ’70 si cominciò a riflettere su questi meccanismi iniqui. La scuola media, ad esempio, debuttò senza la nota di condotta e senza i mezzi punti, che furono però reintrodotti già nei primi anni ’80. Dal canto suo la scuola elementare mantenne le note a fine anno e introdusse il «Libretto delle comunicazioni ai genitori», che compariva in dicembre e verso aprile. Questo documento, voluto in prima istanza proprio dagli insegnanti, intendeva mettere in primo piano cosa l’allievo aveva imparato e quali erano stati i suoi progressi. Consci dell’importanza della collaborazione dei genitori, la scelta era stata quella di instaurare un dialogo formale tra i due principali poli educanti: scuola e famiglia, appunto. Quel libretto ha resistito per oltre un trentennio, anche se, nel parlare comune, fu ribattezzato abbastanza in fretta «Libretto dei giudizi»: insomma, sembra che la scuola non riesca ad assolvere il suo mandato, che è quello di istruire e di collaborare a educare, se non può sputar sentenze ed emettere giudizi a volte impietosi, altre servili.
Il mese scorso tutti i genitori degli allievi di scuola elementare sono stati invitati dall’insegnante a un colloquio obbligatorio, durante il quale è pure stato consegnato il nuovo «Libretto delle comunicazioni ai genitori», generalizzato quest’anno dopo tre o quattro anni di atti preparatori, fasi sperimentali, corsi di formazione. Un passo avanti? C’è da dubitarne. Oltre alla denominazione, è rimasta una stringata descrizione del livello raggiunto in ogni disciplina. Di nuovo c’è l’incontro coatto con le famiglie a metà anno, nonché una valutazione, già a partire dalla 2ª elementare, che al posto delle note usa i soliti aggettivi raffermi: buono, discreto, sufficiente… In fin dei conti un passo indietro, anche se l’idea era quella di farne un paio in avanti, magari con l’intenzione di riuscire a instaurare una comunicazione trasparente, di cui il genitore potesse farne qualcosa, oltre che prenderne atto. Però è quel che il collegio degli ispettori e un gran numero di direttori hanno voluto a tutti i costi. Gian Piero Bianchi, ispettore oggi in pensione, si era opposto a questa riformetta; ha detto di recente a laRegione: «Come si può dare una nota all’amore per la lettura?». Domanda tutt’altro che retorica, anche perché si sono reintrodotte a metà anno le tanto criticate note, cha sono la fiera della soggettività, ma non si è ancora avuta l’ingegnosità di definire cosa sa un allievo che intasca un «Molto buono» in italiano, rispetto a quello reputato solo «Buono». In attesa che qualcuno dica cosa è obbligatorio sapere, la valutazione resta insufficiente.

Teste ben fatte, ma non solo per allievi e studenti

Stando alle intenzioni del Consiglio di Stato, che ha licenziato nei giorni scorsi il suo messaggio al parlamento, l’alta scuola pedagogica (ASP) di Locarno sparirà presto dall’organigramma del DECS per trasformarsi in dipartimento della SUPSI: «Con questo ulteriore passo – si legge nel messaggio – si tratta di far beneficiare l’ASP dei vantaggi che verranno conseguiti entrando a far parte di una struttura universitaria di più ampio respiro, approfittando delle risorse di carattere generale, ma anche di carattere specifico dei suoi singoli indirizzi di studio, che la SUPSI può mettere in campo sul piano dell’attività didattica di base, dell’offerta di aggiornamento per i bisogni del Paese, nonché della ricerca applicata e dello sviluppo». Sta di fatto che anche l’ASP perderà parte della sua autonomia, per diventare parte integrante di un istituto universitario di diritto pubblico, con tutto quel che ne può conseguire all’atto pratico.
Naturalmente, e non poteva essere che così, c’è già chi ha messo le mani avanti e si dice preoccupato, facendo capire che questo matrimonio non s’ha da fare, almeno non nei modi previsti dai nostri sensali: perché, anche in questo caso, chi parte sa cosa lascia ma non sa cosa troverà. Eppure quest’ulteriore cambiamento – il secondo in meno di venticinque anni – non modifica sostanzialmente il quadro di partenza: l’ASP resta una scuola magistrale, i cui compiti sono la formazione di base degli insegnanti delle scuole comunali, l’abilitazione pedagogica degli altri, l’aggiornamento e la formazione continua di tutti.
Che poi, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, si sia deciso di “terziarizzare” questa formazione è un altro discorso. Si può essere o meno d’accordo sulla necessità di portare la formazione degli insegnanti a livello universitario; si tratta però di un processo inarrestabile, diffuso a livello nazionale e internazionale, che non sarà possibile interrompere e che sarebbe paradossale anche solo pensarlo. A questo punto l’inserimento dell’ASP nella SUPSI è dunque più che sensato, anche perché l’istituto di formazione attuale non è né carne né pesce. La magistrale post-liceale di tre anni dopo la maturità si era riversata pari pari nell’attuale ASP, diventando di livello terziario per durata, ma non possedendo né la mentalità né i mezzi dell’istituto universitario.
Nel frattempo, tuttavia, restano intatti i problemi della scuola di tutti i giorni, quelli dei docenti delle scuole dell’infanzia, elementari, medie e medio-superiori, confrontati con gli allievi del terzo millennio, che sono sempre più diversi dai loro coetanei di tutte le generazioni che li hanno preceduti. A ciò s’aggiunga la maggior complessità delle realtà socio-culturali ed economiche odierne. Ergo: insegnare ed educare diventa un compito vieppiù problematico. La mediazione tra le conoscenze acquisite in molteplici ambiti delle scienze dell’educazione e le esigenze della scuola dell’obbligo e dei suoi insegnanti è la vera scommessa che, se persa, genererà danni irreversibili e gravi. Per certi versi è normale e legittimo che lo specialista universitario, un po’ ricercatore e un po’ docente, si concentri sul suo ambito specifico; ma i docenti hanno bisogno di competenze efficaci per affrontare la classe nella sua quotidianità multiforme, eterogenea e complessa. L’istruzione di massa ha azzerato l’assunto, invero un po’ ipocrita, secondo cui è sufficiente “sapere le cose” e avere un po’ di “vocazione” per essere un bravo insegnante. Oggi non è più sufficiente riempire la testa dei futuri docenti di competenze disciplinari e saperi pedagogici per metterli in condizione di affrontare le classi di oggi e contribuire per davvero a forgiare buoni insegnanti. La proposizione di Edgar Morin secondo cui a teste ben piene sono preferibili teste ben fatte deve valere anche per i docenti. Sennò si rischia di continuare a mandare al fronte dei soldati in braghe corte, armati col retino per farfalle.