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Due o tre cose che so di lei…

No, non è un plagio, davvero. Al titolo del film di Jean-Luc Godard del 1967 ho aggiunto i puntini di sospensione, che non ci sono nell’originale.

Ha detto Godard, a proposito di quel suo film: «Quand on soulève les jupes de la ville, on en voit le sexe», dove la ville è Parigi.

Manifesto Godard deux ou trois chosesLa mia Lei non è Parigi, benché abbia un potere che va ben oltre quello della ville lumière: Lei è una vecchia bagascia, che malgrado gli anni che passano sembra sempre una ventenne. Ma è un principio economico: fin che c’è domanda l’offerta non può mancare, e la domanda è ancora altissima. La sua bravura risiede nella capacità di reinventarsi e adattarsi alle mode. Nel suo genere è un’artista sublime, tanto che ogni suo frequentatore crede di essere l’unico che, ripagato, la sa ripagare. Il suo favorito, insomma.

È una che ha classe, quest’è certo. Tante persone aspirano ai suoi favori, s’inchinano, la rispettano. È sopravvissuta persino al ’68, che ha fatto strame di tante oneste pratiche scolastiche, Sue inconsapevoli vittime.

Certo, è Lei, si è capito: è la notissima Nota scolastica, la Nota più nota di tutte.

Di cose che so di Lei potrei farne un elenco lungo da qui a Papeete, forse anche più in là. Già Chiccolino dove stai? / Sotto terra, non lo sai? era sottoposto al suo malvagio potere. In tenera età la dovevi sapere a memoria, sennò finivi in qualche cerchio scolasticamente infernale. Più tardi la mannaia tagliava ben altre teste: D’in su la vetta della torre antica, / Passero solitario, alla campagna / Cantando vai finché non more il giorno… E poi Né più mai toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque; per non parlare del Pio bove, della Cavalla storna, del 5 maggio, senza scordare Quel ramo del lago di Como, che, come è noto, volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti.

Lei ha all’attivo più vittime delle due guerre mondiali e di qualche storica epidemia, come la peste nera o il vaiolo: basti pensare alla matematica, alle date della storia, ai luoghi della geografia.

«La scuola che verrà», il progetto per la scuola del futuro lanciato neanche due anni fa dal nostro Dipartimento dell’Educazione, ha (forse aveva…) un obiettivo rivoluzionario: «Minor rigidità nell’accesso alle formazioni del Secondario II, grazie a un lavoro approfondito di orientamento e alla descrizione delle competenze degli allievi». Tradotto terra terra: si vuole abolire la media del 4.65 di media, naturalmente con riferimento ai corsi cosiddetti attitudinali, quelli solitamente riservati a chi non nasce nudo come un verme, ma strilla i primi vagiti con addosso la camicia d’ordinanza, quella che, secondo le statistiche, ti apre quasi tutte le porte, a prescindere dall’orientamento politico dei tuoi vecchi.

La Regione del 20 novembre scorso ha riferito della conclusione della prima, ampia consultazione sull’ambizioso sogno dipartimentale. Sulla questione rivoluzionaria dell’abolizione dell’iniquo e soggettivo 4.65 ha scritto:

È la proposta che ha accolto in assoluto meno consensi: quella di permettere, alla fine delle Medie, l’accesso diretto a qualsiasi formazione del Secondario II (togliendo quindi la media del 4.65 per il liceo). Critiche si sono levate dagli ambienti scolastici soprattutto per il timore di incidere negativamente sulla motivazione degli allievi e per il rischio di posticipare l’insuccesso scolastico. “Le preoccupazioni sono fondate” valuta oggi il DECS, spiegando di aver deciso di “riorientare la proposta”.

Ergo: la rivoluzione è annullata, a causa del rischio di ammutinamento delle truppe, ufficiali e sottufficiali compresi.

Così, ora, è importante dire quelle due o tre cose che si sanno di Lei.

1. Per prima cosa non è una di bocca buona. Predilige i ricchi. Se non sei ricco, o almeno benestante e anche se ti puzza il fiato, ti devi impegnare molto di più di quegli altri per raggiungere l’acme delle sue imposture.

2. Le piace sembrare scientifica e fatale, ma è una truffa, un trucchetto da imbroglione. Si sa, qua da noi pratica una scala di quattro gradi, dal 3 al 6, oltre ai mezzi punti. Poi c’è chi si sbizzarrisce e usa i più (+) e i meno (–) e mille altre variazioni, roba da far impallidire le sfumature descritte dalla E. L. James. Naturalmente ci cascano in tanti, comprese le nostre scuole, che hanno ad esempio inventato ’sta media del 4.65 e tante altre medie per essere promossi o accolti.

Ma, come dicevo, è tutto un imbroglio. La sequenza 3-4-5-6 non è una scala d’intervallo, vale a dire una scala in cui la distanza fra due valori indica sempre la medesima quantità. Lo sanno tutti che, nel caso delle note scolastiche, la distanza da 3 a 4 è solitamente più grande che, poniamo, da 5 a 6. Ciò significa che, al posto di 3-4-5-6, noi potremmo avere A-B-C-D oppure Mostruoso-Bastevole-Buono-Celestiale. Ma come A + B non fa E, non è neanche vero che, poniamo, 3 in matematica e 6 in italiano fa, mediamente, 4½ in tutt’e due: perché vuol dire che non sai la matematica e sei un mezzo genio in italiano, ma per Lei resti un grigio figurante a mezza tacca.

Ora si pensi che le discipline che contribuiscono a formare questa famigerata soglia del 4.65 sono addirittura nove: nove materie di studio che la scuola riesce a fondere in un’unica «misura», che non significa assolutamente nulla, sebbene abbia significative ricadute su chi può fregarsene e, soprattutto, su chi non se lo può permettere.

3. E dato che ho iniziato col proposito di raccontare due o tre cose che so di Lei, mettiamocene una terza, anche se, naturalmente, ce ne sono molte di più. La Nota non è scientifica e non è nemmeno neutra. Le variabili che concorrono a fare assegnare un 3, un 4 o un 5 in una prova qualsiasi, orale o scritta poco importa, sono innumerevoli, al limite dell’infinito. Andiamo dalla luna storta dell’insegnante al diametro della sua manica; dalla domanda bastarda, inessenziale ai fini della conoscenza, a quella sfuggente e un poco enigmatica; dal docente che ha insegnato bene a quell’altro che non sa neanche cosa siano la pedagogia e la didattica.

Eppure si continua imperterriti a replicare questo teatrino e, da quel che s’intuisce, Nostra Signora della Pagella festeggerà ancora chissà quanti compleanni, senza neanche la necessità di soulever les jupes pour montrer son sexe: perché la povera grulla, in consultazione per la scuola di domani, ha accolto in assoluto meno consensi.

È già di nuovo tempo di auguri

Ohibò. Mi sono preso la briga di andare a rileggere cosa avevo scritto esattamente un anno fa. Lasciamo perdere. Tra qualche giorno le testate più varie e variegate cominceranno gli amarcord dell’anno testé trascorso.

Oggi volevo giocare a Facciamo che io ero… Gianni Rodari (figuratevi!). Così ho iniziato a comporre una filastrocca:

Quest’anno che tra poco finirà / è partito giusto giusto un anno fa. / E quell’altro che s’avvia di venerdì / sarà vecchio da qui a un anno o giù di lì.

Poi, ovviamente, mi sono fermato, e non solo perché io non sono Gianni Rodari.

Ma, insomma!, gìrala, vòltala e pìrlala, siamo sempre al punto di partenza. Da oltre due secoli c’è la scuola pubblica e obbligatoria, oltre a quell’altra che viene prima o dopo. Ma il boccino è sempre in mano ai soliti noti, e non c’è verso che lo mollino, al di là della democratizzazione degli studi, delle pari opportunità, della partecipazione delle tante componenti attive o passive (o neutre), e via elencando: tanto a smenarci son sempre i soliti poveri cristi. Il sistema, per loro, non prevede vie d’accesso ai piani alti della piramide meritocratica, ma solo percorsi di guerra.

L’ho scritto più volte, citando il professor Walo Hutmacher: «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé» (Éducateur, febbraio 2012). Non so come bisognerebbe fare. Si potrebbe cominciare dalla scuola dell’obbligo, che dovrebbe essere un luogo in cui gli insegnanti insegnano e gli allievi si sentono al sicuro. Come dice un vecchio proverbio, sbagliando s’impara, ma non è giusto che gli errori siano puntualmente puniti. Ha scritto Aristotele, nel libro II dell’Etica a Nicomaco: «Le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole». È il principio di ogni insegnamento e di ogni apprendimento. Solo certa scuola riesce a farsene un baffo, a fingere che non è così.

Insegnare è un mestiere difficile e faticoso.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).

Lor signori, per citare il mio amato Fortebraccio, trovano sempre il modo per schivare l’oliva. Una volta è la meritocrazia, madre di tutte le politiche educative, e un’altra i soldi, che se non ci sono non è mica possibile fare le necessarie e ineludibili riforme. Concordo con Alex Farinelli, quando scrive, citando il compianto Giuseppe Buffi e rivolgendosi al ministro dell’educazione, che è troppo facile chiamarsi fuori…

Ora ci sono i nuovi piani di studio, armonizzati da Oberbangen nel Canton Sciaffusa a Pedrinate quaggiù in Ticino, da Chancy nel Canton Ginevra a Müstair nei Grigioni. Là fuori Germania, Italia, Francia e Austria.

E nel tempo d’uno sbatter di palpebre ecco a voi, elettrici ed elettori, La Scuola Che Verrà, a condizione che ci siano i soldi.

È una storia che sentiamo ormai da tanti, troppi anni. C’è sempre un alibi, un dito dietro il quale nascondersi.

Mi spiace, davvero, ma questi non sono tempi che inducono all’ottimismo. L’anno che stiamo per lasciarci alle spalle è iniziato a Parigi, il 7 gennaio, ed è terminato nuovamente a Parigi il 13 novembre.

Tra qualche giorno comincerà il nuovo anno. Non sembra che vi siano troppi motivi per brindare. Così riprendo pari pari gli auspici di un anno fa. Tanti tanti auguri a tutti quelli che, per scelta o per caso, conosciuti o sconosciuti, visitano questa mia piazzetta virtuale; e poi, magari, sorridono, annuiscono o smoccolano come si deve. Grazie, qualunque sia la reazione.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).

Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti

Al di là di un certo fervore riformista e d’un dinamismo concitato, sembrerebbe che mai come oggi la scuola sia avvolta da una nebbia fitta, che impedisce di intravedere il cammino da percorrere. Da diverso tempo, ormai, si fa fatica a trovare il filo del discorso, a capire se la scuola sia (ancora) al servizio del Paese, nel difficile progetto di educare futuri cittadini democratici, cólti, dotati di spirito critico, amanti del bello e del rispetto; oppure se la precedenza sia assegnata all’economia e alla produttività, con lo sforzo di fornire le necessarie competenze e, nel contempo, orientare e selezionare i lavoratori di domani. Ma la scuola non è un’impresa, nell’accezione economica del termine. In nessun caso, anche se la condivisione è sempre più vaga e sfilacciata, la scuola deve produrre utili immediatamente spendibili, al di là degli slogan un po’ logori sull’educazione come investimento per il futuro: perché bisognerebbe mettersi d’accordo sulle sue finalità, dato che le mie, per dire, sono diverse da quelle del CEO di una qualsiasi impresa «too big to fail».

Ridotto all’osso, è forse questo il quadro generale che ha indotto il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI e l’Istituto universitario federale per la formazione professionale a organizzare, lo scorso 25 novembre a Locarno, il convegno di studio intitolato «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico per l’insegnante?». In un’aula magna gremita, il tema è stato trattato da alcuni punti di vista essenziali. Il filosofo Fabio Merlini ha esposto i quesiti del convegno, muovendo, in particolare, dalla sempre più debole legittimazione sociale della scuola, per chiedersi se non sia necessario e urgente riconoscersi in un’etica condivisa. Dick Marty ha proposto una testimonianza su etica e società, con una conclusione ovvia quanto per nulla scontata: i cittadini consapevoli, con un’alta tensione etica, devono essere formati, perché consapevoli non si nasce.

Eirick Prairat, docente di filosofia dell’educazione all’università della Lorena, ha affrontato il tema con un accenno specifico alla funzione moralizzatrice dei docenti, che sono al servizio di una cultura per la costruzione della cittadinanza. Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo, ha messo a fuoco il codice deontologico dell’insegnante, sottolineando alcuni vincoli, che rappresentano confini chiari e ineluttabili: imparare è un processo lento, che non ammette scorciatoie, e l’insegnante deve avere la capacità di prendersene cura e di coltivare invenzione e creatività, dentro un sistema formativo aperto e dinamico, tenendo costantemente presente che la scuola è anche il luogo del dialogo tra generazioni diverse. Infine Marcello Ostinelli, docente-ricercatore al DFA, si è soffermato sull’ambiguità di quel ruolo, sempre in bilico tra valori interni, determinati dalle caratteristiche intrinseche della professione, e valori esterni, ricavati dall’interpretazione personale del contesto sociale e politico entro cui si esercita la professione.

È stato un convegno di elevato livello. Ora è necessario che non restino solo quello e gli atti che sono stati promessi. È importantissimo rilanciare l’etica per la scuola, che non può toccare solo docenti e dintorni, ma deve interessare l’intera nostra società, compresi quei politici che, ogni tanto, pur sapendo solo pressappoco di cosa stanno parlando, riescono ad approvare leggi inutili e a volte pure dannose. Fermarsi ora, infatti, non sarebbe eticamente accettabile: sarebbe come gettare il convegno alle ortiche.

Chi si ricorda più del «Profilo degli insegnanti»?

Si trattava in realtà di un documento del dicembre 2007, così definito: «Per profilo professionale è intesa la descrizione accurata delle competenze e dei comportamenti attesi dai docenti e riferiti  al lavoro in sezione con gli alunni,  alla preparazione,  alla formazione,  alla vita di istituto,  alle relazioni con i colleghi, le autorità, i genitori, la comunità locale»: mica minuzie. Il documento, come ho accennato, aveva avuto una larga diffusione, benché si trattasse di una proposta in consultazione e non ancora di una sorta di contratto impegnativo tra le parti. In particolare l’avevano ricevuto, oltre ai soliti uffici cantonali e gli ispettorati, i direttori, l’Alta Scuola Pedagogica, le autorità comunali, le associazioni magistrali e la Conferenza cantonale dei genitori. Naturalmente, anche la stampa ne aveva parlato, erano apparsi articoli e riflessioni, c’erano state serate pubbliche. Non mi interessa qui entrare nel merito di questo «Profilo», che chiunque può consultare nella sua versione originale e incompiuta (basta digitarne il titolo in un qualsiasi motore di ricerca). Invece vi sono un paio di dettagli di un certo interesse, anche per capire le cose di questo cantone e della nostra scuola. Nella lettera che accompagnava la trasmissione del documento si può leggere che «tra i numerosi fattori che concorrono a determinare la qualità del complesso sistema scolastico, la professionalità dei vari attori è e rimarrà uno degli elementi centrali. Per questo motivo il Collegio degli ispettori ha riservato una riflessione importante, nel corso di questi ultimi tre anni scolastici, alla figura e al mandato dei docenti di scuola dell’infanzia ed elementare». Infatti già il 23 novembre 2006 il direttore dell’USC, prof. Mirko Guzzi, aveva presentato un documento, a quell’epoca un pochino diverso, ai direttori delle scuole comunali, riuniti in seduta plenaria a Sementina. Solo che il titolo era un altro: «Valutazione docenti». I direttori avevano applaudito l’iniziativa, ma avevano altresì consigliato, con un po’ di sdegno, di non “bruciare” tutto sull’altare della valutazione. Anzi: meglio togliere del tutto l’accenno alla valutazione e pensare invece a valorizzare i docenti. Ohibò: vuoi vedere che chi vive di valutazione quotidiana, ha poi paura della valutazione? Tant’è. Sta di fatto che per la fine del 2010 gli ispettori avrebbero dovuto esaminare il «Profilo» nell’ambito dei loro nove circondari e inviare poi il loro parere e le loro proposte all’USC, affinché il documento fosse calibrato e approvato dal DECS, per diventare quindi uno strumento operativo e impegnativo per valorizzare, correggere, aiutare, formare e, perché no?, liberarsi degli insegnanti «diversamente bravi»… Il circondario di cui facevo parte – il VI – aveva fatto i compiti e aveva inviato entro i termini le sue riflessioni e le sue proposte: mi sembra un documento interessante e per questo motivo lo metto a disposizione di chi fosse interessato [Profilo professionale – Documento del VI circondario] E qui sta la seconda curiosità, perché non se n’è saputo più nulla.

La scuola e quella smisurata voglia di misurare tutto

Viviamo un’epoca che chiama a gran voce le misure. Tutto dev’essere misurato, soppesato, monetizzato. Tutto dev’essere utile. Sarà per questo che talune discipline che una volta qualificavano la scuola, come la poesia, la storia o la filosofia, oggi non sono più così di moda: si possono valutare solo in parte, perché è difficile quantificare le conoscenze degli allievi e degli studenti a questo livello. Oltre a ciò sono materie poco spendibili e che non riempiono il borsello, a meno che uno, da grande, non abbia in testa di fare il poeta, il filosofo o il professore di storia. Ma è di per sé frustrante, o per lo meno sospetto, che un ragazzino o un adolescente scelga di fare un lavoro così inutile. A scuola, si sa, per misurare si usano le note. Nella scuola dell’obbligo esse vanno dal 3 al 6 e il 4 rappresenta la sufficienza. Quand’ero un ragazzino, dei libretti pieni di 4 si diceva ch’erano costellati di sedie, forma elegante per dire che valevano poco. Ma quella era una scuola che si limitava a mettere in fila gli allievi dal più al meno bravo. C’erano i maestri larghi di manica e quelli più tirchi. Capitava che se prendevi un 5 in qualche disciplina poco amata, a casa ti chiedevano le note dei tuoi compagni: il tuo 5 valeva 5 solo se i tuoi compagni avevano preso 3½ o 4, neanche il tuo 5 fosse La Gioconda.
Negli anni ’70 si cominciò a riflettere su questi meccanismi iniqui. La scuola media, ad esempio, debuttò senza la nota di condotta e senza i mezzi punti, che furono però reintrodotti già nei primi anni ’80. Dal canto suo la scuola elementare mantenne le note a fine anno e introdusse il «Libretto delle comunicazioni ai genitori», che compariva in dicembre e verso aprile. Questo documento, voluto in prima istanza proprio dagli insegnanti, intendeva mettere in primo piano cosa l’allievo aveva imparato e quali erano stati i suoi progressi. Consci dell’importanza della collaborazione dei genitori, la scelta era stata quella di instaurare un dialogo formale tra i due principali poli educanti: scuola e famiglia, appunto. Quel libretto ha resistito per oltre un trentennio, anche se, nel parlare comune, fu ribattezzato abbastanza in fretta «Libretto dei giudizi»: insomma, sembra che la scuola non riesca ad assolvere il suo mandato, che è quello di istruire e di collaborare a educare, se non può sputar sentenze ed emettere giudizi a volte impietosi, altre servili.
Il mese scorso tutti i genitori degli allievi di scuola elementare sono stati invitati dall’insegnante a un colloquio obbligatorio, durante il quale è pure stato consegnato il nuovo «Libretto delle comunicazioni ai genitori», generalizzato quest’anno dopo tre o quattro anni di atti preparatori, fasi sperimentali, corsi di formazione. Un passo avanti? C’è da dubitarne. Oltre alla denominazione, è rimasta una stringata descrizione del livello raggiunto in ogni disciplina. Di nuovo c’è l’incontro coatto con le famiglie a metà anno, nonché una valutazione, già a partire dalla 2ª elementare, che al posto delle note usa i soliti aggettivi raffermi: buono, discreto, sufficiente… In fin dei conti un passo indietro, anche se l’idea era quella di farne un paio in avanti, magari con l’intenzione di riuscire a instaurare una comunicazione trasparente, di cui il genitore potesse farne qualcosa, oltre che prenderne atto. Però è quel che il collegio degli ispettori e un gran numero di direttori hanno voluto a tutti i costi. Gian Piero Bianchi, ispettore oggi in pensione, si era opposto a questa riformetta; ha detto di recente a laRegione: «Come si può dare una nota all’amore per la lettura?». Domanda tutt’altro che retorica, anche perché si sono reintrodotte a metà anno le tanto criticate note, cha sono la fiera della soggettività, ma non si è ancora avuta l’ingegnosità di definire cosa sa un allievo che intasca un «Molto buono» in italiano, rispetto a quello reputato solo «Buono». In attesa che qualcuno dica cosa è obbligatorio sapere, la valutazione resta insufficiente.