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Anche i compiti a casa servono a marcare le disuguaglianze

Il sito de La Repubblica ha pubblicato il 21 luglio scorso un articolo di un certo interesse, cucito col tono un po’ scanzonato che si addice al caldo di questi giorni: Milano, la disobbedienza delle mamme sui compiti delle vacanze: “Diritto al riposo per i bimbi”. (Qualora non si riesca e leggerlo in repubblica.it lo si può scaricare qui). Racconta della «protesta organizzata in una scuola elementare, dove è partita la rivolta d’estate: “I nostri figli si danno da fare tutto l’anno, ora devono giocare e riposare”». Il succo della protesta delle mamme è già nel titolo.

Curiosi anche diversi commenti dei lettori. Scrive tal Yuri Pomè: «ma che scuole hanno fatto quelle mamme? i compiti a casa e durante le vacanze ci sono sempre stati!! il problema è che oggi i compiti li fanno i genitori e non i figli. a me mai mia madre o mio padre mi facevano i compiti, al massimo chiedevo aiuto». Gli fa eco un certo rocgreg: «Sì dai facciamoli crescere tutti ignoranti… incapaci di formulare una frase di senso compiuto e di intrattenere rapporti sociali… bella roba!!!». Aggiunge Attilio Gusmaroli: «Il trionfo dell’ignoranza e del non far niente ha obnubilato i cervelli di queste mamme. Abituare i propri figli in questo modo, ovviamente dando a loro in pasto tablet e smartphone, utili solo a mandare il cervello in “pappa” sortirà solo un effetto: crescere una generazione di incapaci buoni solo per fare gli scaricatori nei mercati generali. Ma nemmeno saranno capaci di fare ciò e vivranno alle spalle di questi genitori. PS I miei genitori erano altra cosa e li ringrazio ancora oggi nell’avermi educato allo studio che mi ha dato cultura e mi ha dato anche un ottimo tenore di vita». E via sentenziando.

Nelle scuole elementari ticinesi vigono da alcuni decenni norme pertinenti per disciplinare i compiti a casa, riunite in modo chiaro in due documenti con lo stesso titolo, I compiti a domicilio, uno per gli insegnanti, l’altro per i genitori. Sono norme senza data, quindi attuali, sottoscritte dal Collegio degli ispettori delle scuole elementari; e, malgrado i tanti cambiamenti in atto, erano certamente ancora validi l’anno scolastico passato. Si legge infatti nelle Disposizioni per gli insegnanti del giugno 2015 che «… nella riunione d’inizio anno, ai genitori dovranno essere presentati in modo particolare gli obiettivi educativi e le competenze che s’intendono raggiungere e sviluppare con gli allievi così come il senso dei compiti a domicilio; ricordiamo le indicazioni contenute nel testo Compiti a domicilio tuttora valide sia per i genitori sia per gli insegnanti».

Tuttavia bisogna dire che, come succede con tante direttive scolastiche, tra il dire e il fare c’è di mezzo il solito mare. Questa dei compiti a casa è una delle tante norme di solito trascurate. I compiti appartengono ai dogmi della scuola. L’insegnante che non li prescrive con regolarità pignola e un poco ottusa rischia di passare per un mollaccione, uno dal quale gli allievi avranno poco da imparare. L’abitudine di assegnare compiti a casa è un segno distintivo, informa che si è un insegnante di quelli di una volta, uno che è riuscito a non lasciarsi infettare dalle menate psico-socio-peda proliferate nel Sessantotto.

D’altra parte la protesta delle mamme milanesi non è proprio nuova. Ne avevo già scritto oltre dieci anni fa, prendendo spunto da un articolo apparso sul Corriere della Sera a firma Barbara Palombelli, che avevo intitolato La scuola e il dramma dei compiti a domicilio (Corriere del Ticino, 24.11.2004). E avevo ripreso il tema stimolato da una mamma, che mi aveva scritto: «La maestra di mio figlio dice di aver ricevuto una direttiva, secondo la quale non si possono più dare compiti, nemmeno di recupero, neanche nelle vacanze o nei fine‐settimana. Mio figlio era contentissimo, ovviamente io molto meno!» (I compiti a casa, una tradizione che resiste al passare del tempo, Corriere del Ticino, 5.11.2012).

Vignetta i compiti a casa
Vignetta tratta dal blog di Barbara Gaiardoni, pedagogista

Reputo che la protesta delle mamme meneghine sia insopportabile. I commenti… anche.

Mi sa che le madri che hanno deciso di non cedere e di andare fino in fondo (tanto ci sarà sempre qualche mass-media bendisposto), siano proprio lombarde DOCG, senza troppi assilli rispetto alla propria identità economica, culturale e sociale. E a quella della prole.

Il guaio è che a scuola ci devono andare anche gli altri, quei figli che non sanno da che parte cominciare con questa storia dei compiti. Così capita che in zona cesarini salti fuori un compito non fatto, e il papà o la mamma dànno una mano, tra una ramanzina e uno sbadiglio. Ma non è detto che quel papà o quella mamma sia in grado sul serio di dare una mano al piccino: e a quel punto la frittata è servita.

Fino a tre anni fa dirigevo una scuola frequentata da tanti poveri diavoli, spesso alle prese con un’integrazione difficile e, alle spalle, una famiglia che s’arrabattava per arrivare a fine mese. Era una lotta continua con i maestri particolarmente compito-dipendenti. Credo che, con equilibrio, convenga tenere sveglio e attivo il cervello sempre, anche sotto l’ombrellone o all’ombra di un larice. Il dubbio è che la scuola, ogni tanto, chieda i compiti (serali, fine-settimanali, estivi, natalizi, carnevaleschi, pasquali…), senza pretendere il cervello acceso proprio mentre si è in classe, obbligati a essere a scuola.

In questi casi anche i compiti a casa si trasformano in esaltatori delle differenze e dei ritardi.

Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità?

Viviamo tempi strani.

Qualche giorno fa ho pubblicato una breve riflessione sull’insuccesso: La forza dell’insuccesso e l’elogio del fallimento. Paolo Di Stefano, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, ha introdotto la sua riflessione con la frase di un autore che sarà svelato solo nell’ultima frase, tra parentesi: «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Sveliamo il mistero per chi non ha avuto voglia di andarsi a cercare la soluzione. La versione originale recita: «Der Erfolg ist der einzige irdische Richter über das Recht oder Unrecht».

L’autore è Adolf Hitler, il libro Mein Kampf [Volume I, capitolo 12].

Mica male, per un principio di politica dell’educazione e della formazione che aiuta a sistemare tante coscienze. ’Sta tiritera delle pari opportunità copre ormai tutto l’arco costituzionale, infinito come un cerchio: destra-centro-sinistra-centro-destra, e via girandoci intorno.

D’accordo, istituire la scuola media obbligatoria è stato un atto progressista, così come portare i licei anche a Bellinzona, Locarno e Mendrisio. Ma sono cose di quarant’anni fa. Sarebbe come contentarsi della rivoluzione agricola, di quella industriale o di quella francese. Non è vero che sono sufficienti le pari opportunità per dare concretamente a ognuno la giusta occasione per riuscire a dare il meglio di sé. Basta guardare la questione femminile: nessuno se la sente di sostenere che il solo fatto di nascere donna possa generare disuguaglianze sociali, politiche o economiche. Cavoli: ci sono le pari opportunità! Eppure…

Ho detto che nessuno se la sente di?

Chiedo scusa.

Ho esagerato.

In realtà qualcuno c’è.

L’Unione Democratica di Centro, come si sa, è un partito di destra, malgrado l’aggettivo un poco temerario, e il sostantivo – centro – che è lì per ragioni storiche. Qualche giorno fa, l’11 maggio per la precisione, la sezione vodese dell’UDC ha pubblicato quel ch’è definito Son premier document de reference politique: «L’UDC, la voie du bon sens!». Il documento, di una settantina di pagine, è una specie di bibbia elvetica del XXI secolo. L’UDC (vodese…) traccia il suo Mein Kampf dicendo la sua sulla famiglia e sulla formazione, sulla giustizia, sulla sicurezza e su tutti i temi che interrogano ogni paese dell’occidente, senza naturalmente scordare le religioni, l’asilo e, pensa te!, anche le migrazioni.

Un paio di giorni fa, al capitolo «Famiglia», c’era scritto, tra le altre cose, che bisognava smetterla con la storia che non si potevano tirare un paio di cazzotti ai propri figli, sano principio democratico di educazione alla pace. Il Corriere del Ticino di sabato scorso titolava: «UDC Per educare i figli ci vogliono le sberle». E nell’edizione pubblica e online: «Sberle ai figli per salvare la famiglia». Ecco qua il capitolo di cui si parla.

Chiaro?

Il lunedì di Pentecoste, 16 maggio, la via del buonsenso dell’UDC ha già avuto un primo ripensamento. Neanche ventiquattr’ore dopo, il trattatello di pedagogia democentrista è già sparito: Le présent chapitre fait actuellement l’objet d’une mise à jour. Gli schiaffi e le sberle si sono dissolti. È scomparso l’intero capitolo. Attenderò con curiosità l’esito dell’aggiornamento tanto improvvisato e repentino. Ma non ci potevano pensare prima?

Naturalmente ci sono posizioni pirotecniche anche al capitolo Formation, con chicche come questa: «Sebbene la formazione in un’Alta Scuola Pedagogica non sia inutile, conviene tener presente che “la pedagogia non è una scienza, ma una tecnica”». Eccetera.

Oggi tutti dichiarano la loro adesione al principio universale delle pari opportunità. Mi viene in mente una vignetta esemplare, che circola da tanti anni:

Il compito è uguale per tuttiEccole qua, le pari opportunità: il compito è uguale per tutti, nella più completa indifferenza alle differenze – un’apatia che non è per nulla neutra, politicamente parlando. Tra l’altro ne avevo già parlato; ad esempio: I politici, il DECS e l’indifferenza alle differenze o Un mal inteso senso delle pari opportunità.

Ho la netta sensazione che anche i sostenitori dei quattro scapaccioni educativi non siano così rari: ma non è una posizione che fa tendenza, meglio non dirlo troppo in giro. Forse basterà aspettare un po’, ma poi ci arriveremo.

A differenza del consenso verso le pari opportunità, credo che le punizioni corporali, anche senza arrivare alle frustate e ai fagioli sotto le ginocchia, abbiano il loro pubblico, neanche troppo di nicchia.

Botte a parte, e senza troppe acrobazie retoriche, non si può scordare che pochi anni fa un gruppo di insegnanti ticinesi aveva lanciato il suo «Appello per la scuola», per far sì che i genitori di questo cantone potessero essere «… compiutamente informati in merito alla scuola che frequentano i nostri figli» (v. Troppa pedagogia!).

Non sarebbe male se, in tempi accettabili, anche chi si compiace della sua adesione alla solita solfa delle pari opportunità si desse una mossa. Con le pari opportunità non si riesce neanche a risolvere la questione femminile. Figuriamoci tutto il resto, ch’è addirittura più complicato.

Due o tre cose che so di lei…

No, non è un plagio, davvero. Al titolo del film di Jean-Luc Godard del 1967 ho aggiunto i puntini di sospensione, che non ci sono nell’originale.

Ha detto Godard, a proposito di quel suo film: «Quand on soulève les jupes de la ville, on en voit le sexe», dove la ville è Parigi.

Manifesto Godard deux ou trois chosesLa mia Lei non è Parigi, benché abbia un potere che va ben oltre quello della ville lumière: Lei è una vecchia bagascia, che malgrado gli anni che passano sembra sempre una ventenne. Ma è un principio economico: fin che c’è domanda l’offerta non può mancare, e la domanda è ancora altissima. La sua bravura risiede nella capacità di reinventarsi e adattarsi alle mode. Nel suo genere è un’artista sublime, tanto che ogni suo frequentatore crede di essere l’unico che, ripagato, la sa ripagare. Il suo favorito, insomma.

È una che ha classe, quest’è certo. Tante persone aspirano ai suoi favori, s’inchinano, la rispettano. È sopravvissuta persino al ’68, che ha fatto strame di tante oneste pratiche scolastiche, Sue inconsapevoli vittime.

Certo, è Lei, si è capito: è la notissima Nota scolastica, la Nota più nota di tutte.

Di cose che so di Lei potrei farne un elenco lungo da qui a Papeete, forse anche più in là. Già Chiccolino dove stai? / Sotto terra, non lo sai? era sottoposto al suo malvagio potere. In tenera età la dovevi sapere a memoria, sennò finivi in qualche cerchio scolasticamente infernale. Più tardi la mannaia tagliava ben altre teste: D’in su la vetta della torre antica, / Passero solitario, alla campagna / Cantando vai finché non more il giorno… E poi Né più mai toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque; per non parlare del Pio bove, della Cavalla storna, del 5 maggio, senza scordare Quel ramo del lago di Como, che, come è noto, volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti.

Lei ha all’attivo più vittime delle due guerre mondiali e di qualche storica epidemia, come la peste nera o il vaiolo: basti pensare alla matematica, alle date della storia, ai luoghi della geografia.

«La scuola che verrà», il progetto per la scuola del futuro lanciato neanche due anni fa dal nostro Dipartimento dell’Educazione, ha (forse aveva…) un obiettivo rivoluzionario: «Minor rigidità nell’accesso alle formazioni del Secondario II, grazie a un lavoro approfondito di orientamento e alla descrizione delle competenze degli allievi». Tradotto terra terra: si vuole abolire la media del 4.65 di media, naturalmente con riferimento ai corsi cosiddetti attitudinali, quelli solitamente riservati a chi non nasce nudo come un verme, ma strilla i primi vagiti con addosso la camicia d’ordinanza, quella che, secondo le statistiche, ti apre quasi tutte le porte, a prescindere dall’orientamento politico dei tuoi vecchi.

La Regione del 20 novembre scorso ha riferito della conclusione della prima, ampia consultazione sull’ambizioso sogno dipartimentale. Sulla questione rivoluzionaria dell’abolizione dell’iniquo e soggettivo 4.65 ha scritto:

È la proposta che ha accolto in assoluto meno consensi: quella di permettere, alla fine delle Medie, l’accesso diretto a qualsiasi formazione del Secondario II (togliendo quindi la media del 4.65 per il liceo). Critiche si sono levate dagli ambienti scolastici soprattutto per il timore di incidere negativamente sulla motivazione degli allievi e per il rischio di posticipare l’insuccesso scolastico. “Le preoccupazioni sono fondate” valuta oggi il DECS, spiegando di aver deciso di “riorientare la proposta”.

Ergo: la rivoluzione è annullata, a causa del rischio di ammutinamento delle truppe, ufficiali e sottufficiali compresi.

Così, ora, è importante dire quelle due o tre cose che si sanno di Lei.

1. Per prima cosa non è una di bocca buona. Predilige i ricchi. Se non sei ricco, o almeno benestante e anche se ti puzza il fiato, ti devi impegnare molto di più di quegli altri per raggiungere l’acme delle sue imposture.

2. Le piace sembrare scientifica e fatale, ma è una truffa, un trucchetto da imbroglione. Si sa, qua da noi pratica una scala di quattro gradi, dal 3 al 6, oltre ai mezzi punti. Poi c’è chi si sbizzarrisce e usa i più (+) e i meno (–) e mille altre variazioni, roba da far impallidire le sfumature descritte dalla E. L. James. Naturalmente ci cascano in tanti, comprese le nostre scuole, che hanno ad esempio inventato ’sta media del 4.65 e tante altre medie per essere promossi o accolti.

Ma, come dicevo, è tutto un imbroglio. La sequenza 3-4-5-6 non è una scala d’intervallo, vale a dire una scala in cui la distanza fra due valori indica sempre la medesima quantità. Lo sanno tutti che, nel caso delle note scolastiche, la distanza da 3 a 4 è solitamente più grande che, poniamo, da 5 a 6. Ciò significa che, al posto di 3-4-5-6, noi potremmo avere A-B-C-D oppure Mostruoso-Bastevole-Buono-Celestiale. Ma come A + B non fa E, non è neanche vero che, poniamo, 3 in matematica e 6 in italiano fa, mediamente, 4½ in tutt’e due: perché vuol dire che non sai la matematica e sei un mezzo genio in italiano, ma per Lei resti un grigio figurante a mezza tacca.

Ora si pensi che le discipline che contribuiscono a formare questa famigerata soglia del 4.65 sono addirittura nove: nove materie di studio che la scuola riesce a fondere in un’unica «misura», che non significa assolutamente nulla, sebbene abbia significative ricadute su chi può fregarsene e, soprattutto, su chi non se lo può permettere.

3. E dato che ho iniziato col proposito di raccontare due o tre cose che so di Lei, mettiamocene una terza, anche se, naturalmente, ce ne sono molte di più. La Nota non è scientifica e non è nemmeno neutra. Le variabili che concorrono a fare assegnare un 3, un 4 o un 5 in una prova qualsiasi, orale o scritta poco importa, sono innumerevoli, al limite dell’infinito. Andiamo dalla luna storta dell’insegnante al diametro della sua manica; dalla domanda bastarda, inessenziale ai fini della conoscenza, a quella sfuggente e un poco enigmatica; dal docente che ha insegnato bene a quell’altro che non sa neanche cosa siano la pedagogia e la didattica.

Eppure si continua imperterriti a replicare questo teatrino e, da quel che s’intuisce, Nostra Signora della Pagella festeggerà ancora chissà quanti compleanni, senza neanche la necessità di soulever les jupes pour montrer son sexe: perché la povera grulla, in consultazione per la scuola di domani, ha accolto in assoluto meno consensi.

È già di nuovo tempo di auguri

Ohibò. Mi sono preso la briga di andare a rileggere cosa avevo scritto esattamente un anno fa. Lasciamo perdere. Tra qualche giorno le testate più varie e variegate cominceranno gli amarcord dell’anno testé trascorso.

Oggi volevo giocare a Facciamo che io ero… Gianni Rodari (figuratevi!). Così ho iniziato a comporre una filastrocca:

Quest’anno che tra poco finirà / è partito giusto giusto un anno fa. / E quell’altro che s’avvia di venerdì / sarà vecchio da qui a un anno o giù di lì.

Poi, ovviamente, mi sono fermato, e non solo perché io non sono Gianni Rodari.

Ma, insomma!, gìrala, vòltala e pìrlala, siamo sempre al punto di partenza. Da oltre due secoli c’è la scuola pubblica e obbligatoria, oltre a quell’altra che viene prima o dopo. Ma il boccino è sempre in mano ai soliti noti, e non c’è verso che lo mollino, al di là della democratizzazione degli studi, delle pari opportunità, della partecipazione delle tante componenti attive o passive (o neutre), e via elencando: tanto a smenarci son sempre i soliti poveri cristi. Il sistema, per loro, non prevede vie d’accesso ai piani alti della piramide meritocratica, ma solo percorsi di guerra.

L’ho scritto più volte, citando il professor Walo Hutmacher: «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé» (Éducateur, febbraio 2012). Non so come bisognerebbe fare. Si potrebbe cominciare dalla scuola dell’obbligo, che dovrebbe essere un luogo in cui gli insegnanti insegnano e gli allievi si sentono al sicuro. Come dice un vecchio proverbio, sbagliando s’impara, ma non è giusto che gli errori siano puntualmente puniti. Ha scritto Aristotele, nel libro II dell’Etica a Nicomaco: «Le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole». È il principio di ogni insegnamento e di ogni apprendimento. Solo certa scuola riesce a farsene un baffo, a fingere che non è così.

Insegnare è un mestiere difficile e faticoso.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).

Lor signori, per citare il mio amato Fortebraccio, trovano sempre il modo per schivare l’oliva. Una volta è la meritocrazia, madre di tutte le politiche educative, e un’altra i soldi, che se non ci sono non è mica possibile fare le necessarie e ineludibili riforme. Concordo con Alex Farinelli, quando scrive, citando il compianto Giuseppe Buffi e rivolgendosi al ministro dell’educazione, che è troppo facile chiamarsi fuori…

Ora ci sono i nuovi piani di studio, armonizzati da Oberbangen nel Canton Sciaffusa a Pedrinate quaggiù in Ticino, da Chancy nel Canton Ginevra a Müstair nei Grigioni. Là fuori Germania, Italia, Francia e Austria.

E nel tempo d’uno sbatter di palpebre ecco a voi, elettrici ed elettori, La Scuola Che Verrà, a condizione che ci siano i soldi.

È una storia che sentiamo ormai da tanti, troppi anni. C’è sempre un alibi, un dito dietro il quale nascondersi.

Mi spiace, davvero, ma questi non sono tempi che inducono all’ottimismo. L’anno che stiamo per lasciarci alle spalle è iniziato a Parigi, il 7 gennaio, ed è terminato nuovamente a Parigi il 13 novembre.

Tra qualche giorno comincerà il nuovo anno. Non sembra che vi siano troppi motivi per brindare. Così riprendo pari pari gli auspici di un anno fa. Tanti tanti auguri a tutti quelli che, per scelta o per caso, conosciuti o sconosciuti, visitano questa mia piazzetta virtuale; e poi, magari, sorridono, annuiscono o smoccolano come si deve. Grazie, qualunque sia la reazione.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).

Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti

Al di là di un certo fervore riformista e d’un dinamismo concitato, sembrerebbe che mai come oggi la scuola sia avvolta da una nebbia fitta, che impedisce di intravedere il cammino da percorrere. Da diverso tempo, ormai, si fa fatica a trovare il filo del discorso, a capire se la scuola sia (ancora) al servizio del Paese, nel difficile progetto di educare futuri cittadini democratici, cólti, dotati di spirito critico, amanti del bello e del rispetto; oppure se la precedenza sia assegnata all’economia e alla produttività, con lo sforzo di fornire le necessarie competenze e, nel contempo, orientare e selezionare i lavoratori di domani. Ma la scuola non è un’impresa, nell’accezione economica del termine. In nessun caso, anche se la condivisione è sempre più vaga e sfilacciata, la scuola deve produrre utili immediatamente spendibili, al di là degli slogan un po’ logori sull’educazione come investimento per il futuro: perché bisognerebbe mettersi d’accordo sulle sue finalità, dato che le mie, per dire, sono diverse da quelle del CEO di una qualsiasi impresa «too big to fail».

Ridotto all’osso, è forse questo il quadro generale che ha indotto il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI e l’Istituto universitario federale per la formazione professionale a organizzare, lo scorso 25 novembre a Locarno, il convegno di studio intitolato «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico per l’insegnante?». In un’aula magna gremita, il tema è stato trattato da alcuni punti di vista essenziali. Il filosofo Fabio Merlini ha esposto i quesiti del convegno, muovendo, in particolare, dalla sempre più debole legittimazione sociale della scuola, per chiedersi se non sia necessario e urgente riconoscersi in un’etica condivisa. Dick Marty ha proposto una testimonianza su etica e società, con una conclusione ovvia quanto per nulla scontata: i cittadini consapevoli, con un’alta tensione etica, devono essere formati, perché consapevoli non si nasce.

Eirick Prairat, docente di filosofia dell’educazione all’università della Lorena, ha affrontato il tema con un accenno specifico alla funzione moralizzatrice dei docenti, che sono al servizio di una cultura per la costruzione della cittadinanza. Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo, ha messo a fuoco il codice deontologico dell’insegnante, sottolineando alcuni vincoli, che rappresentano confini chiari e ineluttabili: imparare è un processo lento, che non ammette scorciatoie, e l’insegnante deve avere la capacità di prendersene cura e di coltivare invenzione e creatività, dentro un sistema formativo aperto e dinamico, tenendo costantemente presente che la scuola è anche il luogo del dialogo tra generazioni diverse. Infine Marcello Ostinelli, docente-ricercatore al DFA, si è soffermato sull’ambiguità di quel ruolo, sempre in bilico tra valori interni, determinati dalle caratteristiche intrinseche della professione, e valori esterni, ricavati dall’interpretazione personale del contesto sociale e politico entro cui si esercita la professione.

È stato un convegno di elevato livello. Ora è necessario che non restino solo quello e gli atti che sono stati promessi. È importantissimo rilanciare l’etica per la scuola, che non può toccare solo docenti e dintorni, ma deve interessare l’intera nostra società, compresi quei politici che, ogni tanto, pur sapendo solo pressappoco di cosa stanno parlando, riescono ad approvare leggi inutili e a volte pure dannose. Fermarsi ora, infatti, non sarebbe eticamente accettabile: sarebbe come gettare il convegno alle ortiche.