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Serenità, tempo, diritto: le parole perdute della scuola

Non è, di per sé, che mi spiaccia fare gli auguri, e nemmeno lo sento come un dovere più o meno conveniente. Però ci sono date con un sapore simbolico più gradevole di altre. Il passaggio da un anno al successivo è una di queste.


Nei giorni sotto Natale è circolata nei media l’originale iniziativa didattica di un’insegnante di lettere di una scuola secondaria dalle parti di Lodi. Per i suoi allievi ha avuto un’idea insolita: la rubrica delle parole perdute. Gli ultimi cinque minuti di lezione – racconta – ho deciso di impiegarli ricordando termini di scrittori del passato (da Dante ad Alessandro Manzoni) o andati ormai in disuso. Chiedo loro di memorizzarli e contestualizzarli. Il massimo per i miei alunni era citare i versi dei rapper del momento; io, invece, batto sull’antico. All’inizio erano perplessi, poi hanno iniziato a incuriosirsi, a divertirsi e a creare frasi, fino a quando una mattina un alunno si è “dichiarato” a una sua compagna affermando: “La tua presenza è alcinesca”. L’aggettivo alcinesco vuol dire attraente. In quel momento ho capito che la mia iniziativa stava funzionando.

Ne ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 23 dicembre (“Le parole che fanno crescere”):

In un tempo in cui il vocabolario viene sfregiato dalle volgarità e dalle sciatterie di politici cialtroni e volgari nonché dall’esibizionismo anglofilo, quello della prof. De Luca è un gesto quasi eroico. Proporre ai ragazzi di aggiungere al loro repertorio lessicale parole inconsuete e strane, significa opporsi a quella che Pasolini, sin dagli anni 70, intravedeva profeticamente come omologazione culturale da civiltà totalitaria. E non è facile, visto che spessò l’educazione «sentimentale» giovanile è improntata al turpiloquio finto trasgressivo e finto maledetto di tanto rap o trap commerciale […]. La lingua ha un’infinità di risorse: è un deposito di storie (le etimologie sono intrecci straordinari come i migliori romanzi), un patrimonio di potenzialità creative con cui si può anche giocare, ed è il più ricco arsenale di armi (non da fuoco!) con cui farsi valere. La Prof. De Luca ha capito, probabilmente, che con l’aria che tira la prima educazione civica è quella linguistica.

ALFRED SISLEY – «Le Chemin de Montbuisson à Louveciennes», 1875, Huile sur toile (cm 46 x 61), Paris: Musée de l’Orangerie

Anche la scuola ha il suo elenco di parole perdute. Di alcune non si sente la mancanza, anche se il mondo è pieno di nostalgici – Si stava meglio quando si stava peggio!, e quattro scapaccioni erano più pedagogici di tante manfrine. No, grazie.

Ci sono invece parole che si dovrebbero recuperare, parole che arrivano da tanto tempo fa. Una, ad esempio, è tempo, una parola che ci riporta a Jean-Jacques Rousseau.

Émile ou de l’éducation, par Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, 1762: Amsterdam, chez Lean Néaulme, Libraire | Tome premier, Livre second, pp. 191-2

Così la filosofa Lina Bertola:

(…) se l’educarsi è un divenire ciò che si è, un viaggio verso sé stessi, la scuola per educare deve anche saper resistere. Resistere alle esigenze sempre più pressanti di un mercato che richiede prestazioni, inducendo a sacrificare la pienezza dell’essere allo sviluppo delle capacità di funzionare bene. Ma per educarsi occorre tempo (…). Nell’educazione di Emilio bisogna in un certo senso perdere tempo, non essere impazienti di vedere nel fanciullo l’uomo. Grande idea: perdere tempo, lasciarlo scorrere il tempo, attraversarlo con calma, come richiede l’ascolto di un sentimento, il filo di un ragionamento, la trama di un pensiero e di un racconto che sappia diventare esperienza di sé nell’ordine del senso. Bella idea per contrastare una scuola che senza il tempo non può educare. Per contrastare una scuola frettolosa e un po’ disorientata che rincorrendo performances di ogni genere arriva perfino a pensare di anticipare le scelte per migliorare la sua qualità.[Rousseau e l’educazione, RSI Rete 2, giugno 2012].

Sì, tempo è una parola da togliere dalla soffitta, perché suggerisce altre parole da rimettere in piena forma, come serenità, affinché la scuola sia un ambiente protetto, dove si possa crescere e imparare perché si percepiscono la fiducia e il rispetto. O come diritto, altra parola che ha radici millenarie, perché la vita nell’aula deve offrire a tutti la certezza del diritto, al riparo da ogni vessazione, contro l’indifferenza alle differenze, e con la scelta precisa di «passare dal mito delle pari opportunità al diritto all’educazione per tutti».

Anche nella scuola ci sono le parole perdute e sarebbe bello se qualcuno cominciasse a riportarle in vita, dentro le aule della scuola dell’obbligo e negli spazi di formazione degli insegnanti.

È il mio augurio per il 2019.

Scuola e politica all’inseguimento del futuro (prossimo)

Neanche fosse chissà quale novità, l’informatica. D’accordo, se ne parla almeno dal 1984, anno quanto mai simbolico, quando due giovanotti misero sul mercato il primo Mac, un «coso» con la mela che avrebbe cambiato il mondo. Eppure scuola e politica stanno vivendo proprio di questi tempi la loro età degli eccessi ormonali nei suoi confronti. Sembrerebbe che le scuole scollegate dal www e prive di adeguate apparecchiature di alta tecnologia siano impossibilitate a perseguire le loro alte finalità educative. L’ultimo numero di Ticino Management ha dedicato un servizio al tema, declinandolo sulla formazione degli insegnanti. Ha detto Luca Botturi, docente di Tecnologie e Media in educazione al DFA della SUPSI: «Accanto a tematiche caratterizzanti del nostro Dipartimento, quali la didattica dell’italiano, della matematica e delle lingue straniere oppure agli aspetti legati alla gestione della classe, la riflessione sul rapporto tra educazione e nuove tecnologie è una delle nuove frontiere sulle quali ci stiamo impegnando».

«Constatare che la tecnologia si è fatta spazio in ogni aspetto della nostra vita – ha scritto il filologo Lorenzo Tomasin in un bel saggio del 2017 – ha indotto molti a pensare che essa dovesse averne uno anche nella formazione delle nuove generazioni. Per lungo tempo portare i bambini a scuola significava perlopiù strapparli ai campi. Ora, a chi mai sarebbe venuto in mente di portare i bambini a scuola per mostrare loro una zappa, o per insegnare loro come funziona? Nella grande maggioranza dei casi sarebbe stato certo più sensato che far trovare loro un vocabolario, un trattato di matematica e un’insulsa poesia da imparare a memoria. Ma a lungo, forse sbagliando, abbiamo pensato che in quelle pagine stessero gli ingredienti di base della buona istruzione. E che questi fossero gli strumenti migliori per trasmetterli. Operando altrimenti, sarebbe stato assai difficile fare di un contadino qualsiasi altra cosa che un contadino; di un operaio, altro che un operaio. Se molti figli e nipoti di contadini sono diventati ingegneri, medici e architetti è proprio perché a scuola hanno trovato qualcosa di diverso da una zappa, e sia pure da una zappa tecnicamente raffinatissima».

I ragazzi della scuola dell’obbligo sono nati col mouse in mano, hanno imparato a scorrere l’indice sullo schermo del telefonino prima ancora di dire «mamma». Spesso sono vittime e imputati di cyber bullismo o di altri misfatti, ma non saranno i nostri predicozzi a convincerli che ci vuol poco a cadere nella rete e a farsi male.  Tentare di forgiare l’Homo technologicus è pericoloso (avete in mente la creatura del dr. Frankenstein?), un po’ perché si vedono già in giro fin troppi «idioti specializzati»; e un altro po’ perché ciò che oggi è il massimo dell’hi-tech domani è già antiquato, sorpassato da un altro hi-tech, che avrà anch’esso la vita effimera di una farfalla. Meglio, quindi, tornare a dedicarsi con passione all’educazione di Homo sapiens, attraverso le discipline umanistiche, la logica, la matematica e le scienze naturali, in un ambiente – la Scuola – fondata sul diritto e sul rispetto, con l’idea che, insieme, si sta imparando il difficile mestiere di donne e uomini adulti. Vendere il Paese e i suoi cittadini di domani a questa economia feroce e cinica sarebbe un crimine. Eppure è proprio quel che potrebbe capitare assai in fretta, man mano che le moderne tecnologie diverranno un fine, e non un mezzo per prefiggersi traguardi più nobili.


La citazione di Lorenzo Tomasin, parziale, è tratta da: LORENZO TOMASIN, L’impronta digitale – Cultura umanistica e tecnologia, 2017, Carocci editore, pp. 8-9

La citazione di Luca Botturi è tratta da: SUSANNA CATTANEO, «Digitalizzazione: scuola all’appello», in Ticino Management, Mensile svizzero di finanza, economia e cultura, Anno XXX, N° 10, Ottobre 2018, p. 78

Tra la bellezza che rimane ancora e la scuola che verrà

Mi scuso coi miei lettori più assidui. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che sia la prima volta che infilo due articoli in due giorni.

Come sanno i ticinesi, domenica 23 settembre si è votato sul credito per la sperimentazione del progetto «La scuola che verrà». I risultati sono giunti nel primissimo pomeriggio. Il verdetto è chiaro: la richiesta di poter testare l’ampia riforma proposta da Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, è stata bocciata dal 56.7% dei votanti, con una partecipazione del 40%.

Chi mi segue sa che ho votato a favore, anche se preferivo la prima versione del progetto, quella ancora incontaminata di quattro anni fa (versione che, lo so bene, non avrebbe neanche lontanamente convinto un’esigua minoranza del Parlamento).

Il mio sito, domenica pomeriggio, si è animato. Un inusuale numero di curiosi cercava probabilmente un mio commento, che non c’era e non ci sarà. Ero convinto che i contrari (a questa riforma, a Bertoli, ai socialisti, ai progressisti, ai pedagogisti, …) avrebbero vinto facilmente. Conservare è facile, si rischia poco e, se necessario, si trovano sempre dei colpevoli.

Domenica, invece, ho pubblicato La bellezza che rimane ancora: echi dal diario di Anne Frank, un mio personale ricordo dell’edizione di Piazzaparola del 20 settembre scorso.

In tarda mattinata Luca Del Notaro ha inviato un commento, che non ho pubblicato:

Ha ha… tutti i tuoi lettori, io compreso, si aspettavano una bella analisi del risultato della votazione sulla scuola che non verrà più… e invece…  beccatevi questa!!

Non è stato un sotterfugio, il mio, o una fuga fifona. Le proposte di Piazzaparola, così come i concerti o il teatro per le scuole, sono più vicini alla scuola dei miei sogni dei tanti efficientismi di quella che in tanti vagheggiano, una scuola che vorrebbe preparare alla vita – anche se lorsignori confondono la vita con l’economia e il mondo del lavoro. Cittadini e lavoratori non sono la stessa cosa.

Gabriel Lemmonnier (1743-1824), Une soirée chez Madame Geoffrin (1812)

Quindi non commenterò un bel niente, i commenti dell’esito referendario sono affare di politici e politologi.

Il partito liberale (che si ostina a dirsi anche radicale) ha già comunicato che la colpa della sconfitta è del ministro Bertoli: ha voluto una riforma – si pensi un po’! – ideologica. Si vede che i liberali fanno politica senza ideologia. Commento inutile per dire di chi, senz’ideologia per ammissione a mezzo stampa, continua a menarla con le pari opportunità di partenza, ma non di arrivo: scienza pura, ovvio, nessuna idea di scuola.

Però bisogna ammettere che almeno loro, i liberali, si sono fatti sentire subito, anche se poi, come ha scritto il Corriere del Ticino, «In casa PLR c’è maretta: i commissari liberali radicali in Scolastica prendono le distanze dal comunicato dell’Ufficio presidenziale dopo il no popolare alla sperimentazione». Altri, nelle medesime ore, non si sa dove fossero e a cosa pensassero.

Io continuerò a parlare di ciò in cui credo. In questo sito, tanto per dire, ci sono tantissimi articoli che parlano del progetto di riforma Scuola che verrà, di etica della scuola, di pari opportunità, di finalità della scuola dell’obbligo e di tanti argomenti analoghi, naturalmente privi di ogni parvenza ideologica.

Una scuola verrà, questo è sicuro. Magari sarà la stessa che c’era fino a venerdì scorso e ci sarà ancora domani; oppure un’altra, una tutta diversa. Il Paese, fin qua, ha scelto.

Auguri.

La scuola alla ricerca del futuro: una lezione di civica

La campagna in vista del credito per la sperimentazione della «Scuola che verrà» sta raggiungendo vette sbalorditive: per la ressa e, a volte, per i contenuti. Il Dipartimento dell’educazione aveva appena presentato i tratti essenziali della riforma – con il sottotitolo «Idee per una riforma della scuola dell’obbligo tra continuità e innovazione» – che i grandi vecchi della repubblica l’avevano già condannata: «È l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà ad ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro», aveva scritto l’imprenditore di successo. Qualche giorno dopo gli aveva fatto eco il politico di grido: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze». Sono passati quattro anni, ma l’impressione è che la maggior parte di chi, in queste settimane, si esprime pubblicamente non stia partecipando a un dibattito, ma a una rissa da stadio, senza un confronto di idee per capire vantaggi, svantaggi e criticità.

Personalmente credo che sarebbe opportuno approvare la sperimentazione, per non rischiare di seguitare a tenere in vita un paziente, la scuola dell’obbligo, con incessanti mosse di contenimento, nell’improbo compito di non annaspare per star dietro a un mondo che corre all’impazzata. Il problema è che i nemici della riforma hanno portato la campagna su temi diversi dagli oggetti in votazione, a colpi di pregiudizi, frottole e diversivi; oppure facendo le pulci a qualche marginale aspetto del progetto.

Franco Zambelloni, solitamente filosofo rigoroso e attento, ha pubblicato di recente una critica sarcastica alla metodologia di controllo della fase sperimentale. «Ci sono due modelli da confrontare tra loro – ha scritto – quello della riforma proposta dal DECS e quello alternativo. Si tratta, ovviamente, di vedere quale dei due produce risultati scolastici migliori». Si guarda dal dire che il modello alternativo è quello imposto dai liberali e accolto dal parlamento. Ma se noi applichiamo con coerenza il suo discorso, giungiamo alla logica conclusione che, per gli stessi motivi, gli insegnanti dovrebbero astenersi dal valutare i loro allievi con note e certificazioni; a meno che, per citare Zambelloni, i docenti siano tutti di uguale valore. Ma è possibile?

Diciamolo senza troppe remore: valutare un’innovazione scolastica è un processo complicato, che richiede grande prudenza. È uno dei motivi che vincola l’istituzione, affinché non tratti studenti e insegnanti come topolini da laboratorio. Però, come Zambelloni ha giustamente messo agli atti processuali citando una variabile fondamentale, «è ovvio che un docente bravo ottiene risultati migliori di uno scadente». Ma allora perché quando gli insegnanti scadenti bocciano non li si può cacciare, alla faccia delle pari opportunità?

Con gli anni ho maturato una lettura selettiva dei media. Così, ad esempio, ho fatto tesoro di una testimonianza di Daniele Dell’Agnola, docente impegnato a inseguire tenacemente asticelle molto alte per tutti gli allievi. «Allenarsi a pensare – ha scritto pochi giorni fa – è ideologico, è roba per gente libera. I cittadini sono chiamati a pensare. Tutti.» È l’obiettivo più nobile della scuola dell’obbligo, ed è ciò su cui siamo invitati a esprimerci col nostro voto: scegliere di formare cittadini liberi, che pensano con la propria testa; oppure che si fidano delle teste altrui. Tutto lì.

«La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno»

Il testo che segue non è mio. L’ho ripreso da un volumetto che mi aveva regalato uno dei miei Maestri.  Qui, di mio, ci sono solo qualche segno di punteggiatura in più e alcuni termini modificati, per rendere la lettura più scorrevole; e i titoletti, inesistenti nell’originale.

Ho poi messo in rilievo qualche passaggio.

L’attualità di questo articolo è impressionante, soprattutto pensando al contesto www dei tempi nostri e alle riforme scolastiche di questi anni, coi suoi cantieri aperti, i progetti che potrebbero diventare operativi sul breve termine, e agli andazzi politici dell’Occidente globalizzato.

In calce, naturalmente, si trovano tutti i dettagli, compreso il nome dell’autore, quello del Maestro che curò il volume e me lo offrì, la fonte bibliografica e l’anno di pubblicazione.

Mi permetto un consiglio: come in un bel giallo, si ammazza la lettura se si va subito all’ultima pagina per vedere chi è il colpevole, che in questo caso è l’anno di pubblicazione.


Matthew Arnold cita, in qualche parte con consenso, l’affermazione di uno scrittore francese, secondo cui il vantaggio principale dell’educazione sta nella sicurezza che essa dà di non essere ingannati. Un’affermazione più positiva è quella che il beneficio dell’educazione consiste nella capacità che essa conferisce di sceverare, di fare delle distinzioni che penetrano al di sotto della superficie. Può anche darsi che uno non riesca ad afferrare la realtà sotto l’apparenza; ma almeno chi è educato non scambia la seconda con la prima, e sa che c’è una differenza fra suono e significato, fra enfasi e distinzione, fra appariscenza e importanza.

I massmedia e la loro diffusione a buon mercato rendono possibile il controllo delle opinioni

Giudicata con questo criterio l’educazione non è soltanto arretrata, ma è in processo di involuzione. La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno; di questi c’è oggi maggior quantità, circolazione più rapida e incessante, e assorbimento più rapido e indiscriminato, che mai in passato. Naturalmente le ragioni dell’attuale trionfo della ciarlataneria nelle cose umane sono piuttosto esterne, non dovute a un’intrinseca corruzione dell’intelletto e del carattere. Fino all’ultima generazione circa, la maggior parte delle persone s’interessavano soprattutto degli affari locali, delle cose e della gente con cui erano a contatto immediato. I loro convincimenti e i loro pensieri si riferivano per lo più a questioni di cui avevano qualche esperienza diretta. Il loro raggio poteva essere ristretto, ma nel suo ambito esse erano avvedute e giudiziose. È certo che, riguardo alle cose più lontane da loro, esse erano altrettanto credule quanto le persone di oggi. Ma queste cose più lontane non rientravano nella loro sfera d’azione. Importava poco cosa ne pensassero, poiché esse, per loro, non erano che materiale per storielle.

La ferrovia, il telegrafo, il telefono e la stampa a basso costo hanno trasformato tutto questo. I trasporti rapidi e le rapide comunicazioni hanno costretto gli uomini a vivere come membri di una società estesa e in gran parte invisibile. La località chiusa in sé è stata invasa e in gran parte distrutta. Gli uomini devono agire in vista di condizioni economiche e politiche lontane da loro e devono avere su queste delle conoscenze su cui fondare le proprie azioni. E poiché le loro conoscenze influenzano la loro condotta, le credenze sono ora qualcosa di più che fantasie e passatempi, ed è cosa di grande rilievo che esse siano giuste. Al tempo stesso alcune persone si sono assunte l’obiettivo di influenzare le opinioni delle masse, poiché è su queste, e non su annose consuetudini, che si fonda la possibilità di dominarle. Se si ha il controllo delle opinioni, si ha in mano, almeno per il momento, la direzione dell’attività sociale. La stampa e la sua diffusione a buon mercato rendono possibile di realizzare questo controllo delle opinioni. Con la nuova curiosità e il nuovo bisogno di conoscenza di cose lontane, da un lato, e con l’interesse a controllarne il soddisfacimento, dall’altro, si annuncia l’era del vaniloquio, dell’inganno sistematico, dei sentimenti e delle credenze alla cieca.

Come si crea una fake new

Carlyle non era un amico della democrazia. Ma un giorno, in un momento di lucidità, egli dichiarò che una volta inventata la stampa la democrazia era inevitabile. La stampa a basso costo rese necessario di chiamare il pubblico a collaborare agli affari del governo e aumentò la popolazione e l’area geografica inclusa in una determinata società politica. Essa trasformò in una realtà la teoria del governo come fondato sul consenso dei governanti. Ma tale trasformazione non dette garanzia della validità della realtà a cui veniva dato il consenso; non garantì, come Walter Lippmann mise in rilievo con tanta giustezza, che la politica a cui si dava il consenso fosse nel fatto quello che era nella forma, che cioè corrispondesse alla realtà della situazione.

La rivoluzione industriale rese necessarie le forme della consultazione della “voce del popolo”. Ma la stampa e la sua diffusione resero anche più facile indurre il popolo a esprimersi forte su questioni irreali, e nascondere i fatti e stornare l’attenzione con la grandezza stessa dello strepito. È ozioso perciò sia attaccare che esaltare la democrazia in generale. Come forma attuale di governo essa non scaturisce da desiderio o opinione personali; essa nacque in virtù di forze esterne, che mutarono le condizioni dei contatti e dei rapporti fra gli uomini. Quel che occorre considerare e sottoporre a critica è la qualità del governo popolare, non il fatto della sua esistenza. La sua qualità è legata inseparabilmente alla qualità delle idee e delle notizie, che sono messe in circolazione e alle quali si presta fede.

Senza dubbio il sistema di propaganda promosso dalla guerra ha avuto molta responsabilità nell’imporci il riconoscimento della funzione dominante, che ha nella direzione sociale il materiale messo in circolazione dalla stampa. La massa e l’organizzazione accurata della propaganda attestano due fatti preminenti: la necessità nuova, da parte dei governi, di catturare l’interesse e i sentimenti del popolo, e la possibilità di suscitare e dirigere un tale interesse mediante una somministrazione di “notizie” sottoposta a vaglio accurato. Ma la voga della propaganda ha più importanza nel richiamare l’attenzione sul fatto fondamentale, che nel determinarlo. Di fronte a una notizia messa in circolazione, che rappresenta un fatto deliberatamente inventato o coscientemente colorito, ve ne sono una dozzina che rappresentano il pregiudizio e l’ignoranza dovuti a pigrizia, a inerzia di abitudini e a preesistenti abiti mentali causati da cattiva educazione.

L’informazione atterra sempre sull’educazione anteriore e più profonda

La psicologia umana è tale che noi attribuiamo a un disegno consapevole e a un proposito deliberato la maggior parte delle cattive conseguenze sulle quali improvvisamente viene richiamata l’attenzione. Questa è una delle ragioni principali del frequente insuccesso dei riformatori. Le cause reali dei mali contro i quali essi combattono sono per solito molto più profonde delle intenzioni consapevoli e dei piani volontari degli individui contro i quali essi rivolgono i loro sforzi. Perciò essi trattano coi sintomi piuttosto che con le forze. Quelli che Lippmann ha chiamato così bene “stereotipi” sono più responsabili della confusione e dell’errore della mentalità del pubblico, che delle notizie deliberatamente inventate e deformate. Coloro i quali sono più intenti a introdurre nel movimento e nella circolazione sociale il materiale che acceca e induce in errore il pubblico, credono essi stessi nella maggior parte della sostanza di ciò che viene propagato; essi condividono la confusione intellettuale e l’ignoranza che propagano. Agendo nella persuasione che il fine giustifica i mezzi, è facile per essi aggiungere il sapore, l’enfasi, l’esagerazione e i suggerimenti che essi stessi ritengono fondamentalmente veri.

In breve, al di qua dell’educazione fornita dalla stampa e dalle notizie c’è quell’educazione anteriore e più profonda che influenza del pari coloro che propalano le notizie e quelli che le accolgono. Siamo così riportati alla nostra affermazione prima. La nostra istruzione scolastica non educa, se per educazione si intende un abito vigile di indagine e di convinzione, penetrato di discernimento, la capacità di guardare al di sotto della fluttuante superficie per scoprire le condizioni che determinano il contorno della superficie stessa e le forze che danno origine alle sue onde e alle sue correnti. Noi inganniamo noi stessi e gli altri, perché non abbiamo quell’interna difesa contro sensazioni, eccitamenti, credulità e opinioni convenzionalmente stereotipate che si trova soltanto in una mente addestrata.

La scuola fa poco per creare un’intelligenza che sa distinguere…

Questo fatto determina la critica fondamentale che va rivolta alla scuola attuale, a quel che passa per un sistema educativo. Essa non soltanto fa poco per creare in una intelligenza che sa distinguere una garanzia contro l’abbandono all’invasione della ciarlataneria, specialmente nella sua forma più pericolosa, quella sociale e politica; ma anzi fa molto per creare lo stato d’animo favorevole al suo accoglimento favorevole. Due sembrano essere le cause principali di tale incapacità. L’una è data dal persistere, nel contenuto dell’insegnamento, di un materiale tradizionale, che non ha rapporto con la situazione attuale, di una materia d’insegnamento che, benché pregevole in un periodo trascorso, è così lontana dalle perplessità e dai problemi della vita presente, che il suo padroneggiamento, anche se abbastanza adeguato, non fornisce possibilità di penetrazione intelligente, né protezione contro gli inganni a cui si espone chi fronteggia le eccezionali circostanze presenti. Dal punto di vista di questo criterio d’istruzione, una gran parte dell’attuale materiale educativo è semplicemente sfocato. Lo specialista di qualsiasi ramo tradizionale corre il rischio di cadere preda della ciarlataneria sociale, anche nelle sue forme estreme della propaganda economica e nazionalistica, allo stesso modo della persona non istruita. E invero la sua credulità è tanto più pericolosa quanto più egli è eloquente e dogmatico nell’affermazione delle sue credenze. Le nostre scuole producono persone che vanno incontro alle esigenze della vita contemporanea serrate nell’armatura dell’antichità e che si vantano della goffaggine dei loro movimenti come di prove di convinzioni frutto di lungo travaglio e vagliate dal tempo.

L’altro modo in cui la scuola favorisce un abito mentale di ingestione indiscriminata, che si presta bene all’inganno, ha un carattere positivo. Esso consiste nell’evitare sistematicamente e quasi deliberatamente lo spirito critico in rapporto alla storia, alla politica e all’economia. Si crede implicitamente che tale esclusione rappresenti la sola maniera di produrre dei buoni cittadini. Quanto più la storia e le istituzioni della propria nazione vengono idealizzate senza discriminazione, tanto più si ritiene probabile che il prodotto della scuola sia un patriota fedele e un buon cittadino, fornito di una solida preparazione. Se il giovane medio potesse essere premunito contro tutte le idee e le notizie sulle questioni sociali, eccettuate quelle ottenute a scuola, esso si affaccerebbe alla responsabilità della partecipazione sociale ignorando completamente che esistano dei problemi sociali, dei mali politici e delle deficienze industriali. Esso andrebbe avanti con l’assoluta fiducia che le strade sono aperte a tutti e che la sola causa degli insuccessi negli affari, nella vita familiare e in quella civile risiede in qualche personale deficienza di carattere. La scuola, anche più del pulpito, è immunizzata contro un franco riconoscimento delle malattie sociali, ciò che è un bel dire. E come il pulpito, essa trova un compenso alla sua ostilità a discutere le difficoltà sociali indugiando sentimentalmente sui vizi individuali.

L’indifferenza al cinismo sempre più diffuso

La conseguenza di tutto questo è che gli studenti vengono immessi nella vita effettiva in una condizione di innocenza acquisita e artificiale. La percezione che essi possono avere della realtà delle lotte e dei problemi sociali l’hanno conseguita per caso, per via facendo, e senza la salvaguardia che deriva da una conoscenza intelligente dei fatti e della discussione condotta imparzialmente. Non fa perciò meraviglia se essi sono maturi per essere ingannati e se il loro atteggiamento è tale che perpetua semplicemente la confusione, l’ignoranza, il pregiudizio, e la credulità esistenti. La reazione contro questa impossibile idealizzazione ingenua delle istituzioni, nel loro aspetto presente, produce indifferenza e cinismo. È stupefacente come coloro che per professione foggiano in senso conservatore l’opinione pubblica si curano così poco del cinismo che attualmente è tanto diffuso tra i più. Essi sono più creduli di quelli che all’apparenza sembra che essi ingannino. Questo atteggiamento di indifferenza e di opposizione è ora passivo e disorganizzato. Ma esso esiste come una conseguenza diretta della delusione causata dal contrasto fra le cose come stanno di fatto e le cose come sono state insegnate loro a scuola. Un avvenimento più o meno accidentale cristallizzerà un giorno, in una forma attiva, l’indifferenza e il malcontento sparsi qua e là; e tutti i baluardi della reazione sociale accuratamente eretti verranno spazzati via. Ma, sfortunatamente, c’è poca probabilità che la reazione contro la reazione sarà più intelligente dello stato precedente delle cose. Anch’essa sarà cieca, credula, fatalista e confusa.

Il compito più nobile della politica: la direzione intelligente delle faccende sociali

Sembra pressoché disperato nominare il rimedio, perché esso consiste solo in una maggiore fiducia dell’intelligenza e nel metodo scientifico. Ma questa parola – “Solo” – indica qualcosa che è infinitamente difficile realizzare. Cosa avverrà se gli insegnanti diverranno abbastanza coraggiosi da insistere che educare significa creare menti che sanno distinguere, che preferiscono non essere ingannate da sé stesse o da altri? È chiaro che essi dovranno coltivare l’abito della sospensione del giudizio, dello scetticismo, del desiderio delle prove; del ricorso all’osservazione piuttosto che al sentimento; della discussione piuttosto che del preconcetto; dell’indagine piuttosto che delle idealizzazioni convenzionali. Quando questo accadrà, le scuole saranno gli avamposti pericolosi di una civiltà umana, ma cominceranno anche a essere luoghi interessanti al massimo. Poiché sarà allora accaduto che l’educazione e la politica si saranno identificate, giacché la politica dovrà essere di fatto quel che ora pretende di essere, la direzione intelligente delle faccende sociali.


Rimando bibliografico

Questo articolo di John Dewey (1859-1952) è tratto dal volume John Dewey e la pedagogia dell’interesse, a cura di Antonio Spadafora, 1979, Bellinzona: Edizioni Casagrande, Collana Paideia – Pubblicazioni della Scuola magistrale di Locarno, p. 128 e sgg.

La copia del testo originale può essere scaricata qui.

Il testo fa parte di una selezione di scritti deweyani che completa il volume. In entrata il curatore aggiunge una precisazione relativa a questi scritti. «In particolare – annota Spadafora – la traduzione (…) di “L’educazione come politica” (“The New Republic”, 4 ottobre 1922) è, per gentile concessione dell’Editore, quella […] di JOHN DEWEY, L’educazione di oggi, trad. it. di L. Borghi, La Nuova Italia, 1950, p. 197 e sgg.»