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La maledizione di Don Chisciotte della Mancia

Mi diverto un sacco a organizzare proposte culturali per le scuole. Sono quasi sempre momenti molto coinvolgenti, per le belle cose che si affrontano, per le persone con le quali si lavora (ci vorrebbero quasi le virgolette, perché è un lavorare delizioso), per le emozioni che si vivono e si fanno vivere ad altri.

Giovedì scorso è andato in scena «Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia», una rilettura del romanzo di Miguel de Cervantes, a quattrocento anni dalla sua morte, curata con Silvia Demartini, mia impagabile e insostituibile complice nell’ambito di «Piazzaparola».

Tanto per riassumere: «Piazzaparola» è una manifestazione letteraria nata dall’associazione «Dante Alighieri» di Lugano che, da sei anni, propone ai primi di settembre L’arte di raccontare: un classico e voci contemporanee. Quanto a me, mi occupo da quattro anni, con Silvia e con l’illustre cappello istituzionale del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, dell’appendice locarnese della manifestazione, che si rivolge agli allievi delle classi terminali della scuola elementare e che «si limita» alla presentazione del Classico di turno.

Così nel 2013 abbiamo affrontato Giovanni Boccaccio e il «Decamerone» («Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo»), nel 2014 siamo passati a Leonardo da Vinci («La cosa immaginata move il senso»), e l’anno scorso è stata la volta di Publio Ovidio Nasone («Metamorfosi – Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone»). Riguardo a quell’edizione rammento, in questo sito, «Perque omnia sæcula vivam!», «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» e «Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein».

Oliviero Giovannoni
Oliviero Giovannoni

Non fraintendiamo: non tutto è filato liscio. Dopo un’estate stupenda che si stava prolungando e che sembrava volesse durare all’infinito (La pagaremm püsee in là), una settimana prima della nostra scadenza Meteo Svizzera ha cominciato a insinuare che giovedì, proprio il nostro giovedì, sarebbe piovuto. Incredibile. Ancora il giorno prima splendevano tre o quattro soli e le temperature invitavano ai bagni e alle spiagge. Noi avevamo pensato di far rivivere Don Chisciotte in alcune evocative piazze locarnesi – il chiostro dell’ex convento dei frati, oggi scuola magistrale; la corte interna del castello visconteo; il mercato di Piazza Grande; il patio della biblioteca cantonale – e invece ci toccava inventare all’ultimo minuto, e immersi nell’incredulità, una nuova versione al coperto, dentro il Teatro di Locarno.

Un amico di Meteo Svizzera, il sabato precedente, 10 settembre!, mi ha scritto che effettivamente avevo scelto male il giorno in cui organizzare la manifestazione e che sicuramente Don Chisciotte avrebbe avuto una qualche colorita espressione in castigliano stretto per definire la fortuna in un caso simile.

Sara Giluvi è Mari, la cameriera dell'investitura
Sara Giluvi è Mari, la cameriera della locanda in cui Don Chisciotte diventò Cavaliere con tutti i crismi e le formule specifiche.

Detto ciò, quel piovoso giovedì 15 mi e ci ha lasciato alcune sensazioni incredibili e incancellabili, malgrado le ansie della vigilia, quando siamo stati costretti, ancora scettici, a inventarci una nuova scaletta, lontana dalle piazze.

Il Teatro di Locarno, stipato in ogni ordine di posti – c’erano 25 classi, provenienti da più parti del cantone, quasi 520 persone tra allievi e insegnanti – ha pulsato per l’intera durata dello spettacolo: un pubblico preparato e attento, capace della massima concentrazione nei momenti difficili, dell’applauso quando ci voleva (con dei momenti da stadio!), del giusto pathos nei passaggi più emozionanti e, diciamolo, intellettuali.

Cristina Zamboni, Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali, Sancho Panza
Cristina Zamboni è Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali è Sancho Panza

Tutto ciò, tutto questo successo, è probabilmente dovuto a una lunga serie di scelte precise e di circostanze per nulla casuali. Metterei al primo posto il grande rispetto che tutti i partecipanti a questa proposta, ma proprio tutti!, hanno riservato al numeroso pubblico di ragazzini di 4ª e 5ª elementare: che non sono dei cretini, ma dei futuri cittadini, che meritano la giusta fiducia e la massima stima. Il secondo gradino del podio, con un distacco di pochi centesimi, è riservato ai loro insegnanti, che hanno scelto di portare le loro classi a condividere la nostra proposta artistica e letteraria, e che li hanno preparati a dovere.

Poi, in ordine sparso, c’è un ex aequo molto affollato, che voglio evocare alla rinfusa, senza pedanteria, rifuggendo intenzionalmente dalle stupide classificazioni e classifiche tipiche della scuola, anche quella odierna e anche, purtroppo e probabilmente, quella che verrà, a regime ormai HarmonizzatoS.

Vale a dire:

Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
  • Miguel de Cervantes, l’autore dei due corposi volumi che compongono quel capolavoro della letteratura europea che è «Don Quijote de la Mancha».
  • Silvia Demartini, che ha saputo scegliere i “racconti” più significativi ed emblematici del Don Chisciotte, riscriverli per il nostro pubblico particolare e creare i collegamenti drammaturgici che ne hanno permesso la comprensione, dentro un disegno compatto e finito: perché ai nostri decenni non potevamo, né volevamo, offrire l’ennesima versione dell’ingegnoso nobiluomo un po’ comico e tanto stupidotto.
Giovanni Galfetti
Giovanni Galfetti
  • Un cast di attori e lettori di assoluta bravura. In rigoroso ordine alfabetico, benché ladies first (amen, per certi versi sono un po’ all’antica): Sara Giulivi, che è stata Mari, la cameriera della locanda dove il Cavaliere è diventato cavaliere sul serio, tramite la cerimonia dell’investitura; Tatiana Winteler, un’Aldonza Lorenzo figlia di Lorenzo Corciuelo straordinaria e verosimile, che sembrava sul serio Dulcinea del Toboso, così come l’avevano conosciuta Don Chisciotte e, soprattutto, Sancho Panza; Cristina Zamboni, una credibile, sdegnata e arrabbiatissima Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte; Fabio Doriali, che è stato un integerrimo presentatore – forse lo stesso Cervantes – e ha dato voce e fattezze a un Sancho Panza talmente zotico da sembrare vero (mi verrebbe un paragone con la politica dei giorni nostri: ma transeat).
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
  • Simone Fornara, un attore dilettante, a tal punto preoccupato che, dietro le quinte e in procinto di entrare in scena, si è rivelato il degno e coerente finale della nostra costruzione artistica e anche didattica (un aggettivo che normalmente detesto). Ha detto, stralunato e credibile, rivolto al pubblico: «Quando vi diranno che i libri mettono in testa strane idee e fanno pensare troppo, LEGGETELI, leggeteli a fondo: vi salveranno dalla banalità; quando vi diranno che le vostre battaglie per un mondo migliore e più giusto sono assurde, CREDETECI e combattetele fino in fondo, senza paura di farvi male; quando vi diranno che siete matti per amore, allora AMATE ancora più intensamente: chi dovrà capire capirà; e quando vi diranno che sognate di essere qualcuno e magari vi prenderanno in giro per quello che fate o per come vi vestite, be’, allora FIDATEVI DI VOI senza paura. Solo così il vostro personaggio smetterà di essere solo finzione».
  • Tre musicisti appassionati e immersi nella nostra storia: il fisarmonicista Daniele Dell’Agnola, il pianista Giovanni Galfetti e il percussionista Oliviero Giovannoni.
Simona Maisser
Simona Maisser
  • Simona Meisser, che ha disegnato le storie in diretta. Una maestra mi ha scritto: «Quei bambini che di solito sono un po’ deboli nell’ascolto, sono riusciti a seguire il tutto grazie alla magia delle immagini di Simona».
  • Dietro le quinte, al riparo dall’occhio di bue, ma ognuno con un ruolo importante, una moltitudine di persone: Fiorenza Wiedmann, splendida costumista, scenografa e trovarobe; le amiche e gli amici del DFA della SUPSI, cioè Stephanie Grosslercher, Kata Lucic, Luca Botturi, Dina Leal, Antonio Crupi e Thierry Moro; la città di Locarno e i suoi uomini delle manifestazioni, Mauro Beffa ed Eros Ceccato; la voce di Marco Fasola, per gentile concessione della RSI; Werner Walther, competente tuttofare del Teatro, nonché esperto e fantasioso tecnico delle luci e del suono.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
  • E, infine, chi ci sostiene, ci ha sostenuto e continuerà a sostenerci concretamente: Raffaela Castagnola, ideatrice e motore principale di «Piazzaparola»; Michele Mainardi, direttore del DFA della SUPSI; la SYZ Banque privée di Locarno.

Per il 2017 staremo a vedere cosa succederà, cosa ci sarà proposto. A volte è bello poter scegliere. Ma, lo confesso, saltare in groppa alle sfide che ci sono state proposte in questi anni è stato comunque sempre utile e divertente: penso a Boccaccio, Ovidio e de Cervantes, ma anche a Leonardo, non certo famoso per l’opera letteraria: mica facile, né evidente, riuscire a presentarli a ragazzini di dieci anni, non è esattamente come rifilare i fratelli Grimm o Hans Christian Andersen.

Daniele Dell'Agnola
Daniele Dell’Agnola

Poi, per dirla tutta (chi segue il mio sito sa bene cosa ne penso), le arti hanno bisogno di spazi nella scuola – spazi qualificati, non semplici alibi culturali – sebbene i posti a disposizione siano sempre più scarsi e i biglietti d’entrata discriminatori e costosi. Continuo a credere che la scuola, soprattutto quella pubblica e obbligatoria, dovrebbe creare tante e tante occasioni di incontro con le arti, senza scopi più o meno occulti per far strada a chi si avvierà a diventare uno scienziato, un notabile della Repubblica o un semplice galoppino.

Come ho scritto recentemente, in relazione alla riapertura dell’anno scolastico dopo un’estate di terrorismi e di crimini, «ascoltare le inquietudini e gli interrogativi degli allievi, servirsi della mediazione di una poesia o di un romanzo, prendere esempi dalla storia (…) può essere utile per contribuire a far indietreggiare la barbarie».

Ma anche a rendere migliore la vita di ognuno di noi.

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Le foto sono del REC (Risorse didattiche, eventi e comunicazione) del DFA/SUPSI.

«Andare a scuola è un atto di civiltà»

Ho ricevuto oggi una riflessione assai profonda a commento dell’articolo «Insieme a scuola per sconfiggere la barbarie», che ho pubblicato domenica scorsa. Me l’ha inviato Andrea Fazioli, un amico che conosco e che apprezzo, come uomo e come scrittore, uno che coltiva un blog accattivante settimana dopo settimana. Ha scritto:

Sono riflessioni molto interessanti. Dal mio punto di vista di scrittore prestato (anche) all’insegnamento, mi aiutano a partire con il piede giusto, per quanto riguarda sia i corsi di scrittura creativa, sia soprattutto i laboratori al liceo. Non voglio ripetere nulla di quanto già detto; mi limito ad aggiungere una cosa che mi ha colpito: anche solo il gesto di andarci, a scuola, è un atto di civiltà di cui spesso ci sfugge la portata. Qualcuno potrebbe obiettare: ma non staremo esagerando? La scuola può davvero aiutare ad arginare la negatività che ci assedia? Tutto dipende dal nostro desiderio, starei per dire dalla “fame” con cui affrontiamo la giornata di lavoro (come insegnanti o come allievi). Mi ricordo quel capo terrorista che diceva: “Noi vinceremo perché amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita”. Ecco, la scuola può essere la dimostrazione del contrario. Be’, almeno sarebbe bello provarci…

Tanto per capirci: il capo terrorista citato, stando al web, era il portavoce di Osāma bin Lāden, e la frase era contenuta nel comunicato di rivendicazione dell’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid.

Fazioli dice una cosa talmente vera da sembrare scontata: anche solo il gesto di andarci, a scuola, è un atto di civiltà.

Ha scritto ancora Meirieu citando il filosofo Olivier Reboul: «Face à la montée de l’islamiste djihadiste comme des réactions de repli identitaire qu’il suscite, la réponse qu’Olivier Reboul faisait, il y a quarante ans, à la question “Qu’est-ce qui doit fonder l’éducation?” reste, plus que jamais d’actualité: “Ce qui unit et ce qui libère”. Nous avons en effet, tout à la fois, besoin d’unité – de commun sans communautarisme – comme nous avons besoin de liberté – d’individus sans individualisme. Nous avons besoin de nous redécouvrir semblables et de trouver la force de nous affirmer différents».

E così terminava: «C’est dire que la démocratie est assignée à faire de l’éducation sa priorité. Elle est assignée à la pédagogie. À revisiter son histoire et ses apports, à faire preuve, dans ce domaine, d’inventivité inlassable. Il faudra y penser en cette rentrée. Pour que nos enfants apprennent patiemment la vertu du débat démocratique. Et pour que les croyances haineuses et les réactions identitaires ne viennent pas balayer tout espoir. À l’École comme ailleurs».

Certo, dobbiamo provarci, ad amare pienamente la vita, dimenticando all’istante le false promesse sulle spendibilità e provando invece a chinarci tutti insieme sulle cose essenziali, alle fondamenta del mondo e del nostro esistere, attraverso la Cultura e le Arti.

Insieme a scuola per sconfiggere la barbarie

Alcuni giorni fa, commentando le misure di sicurezza che hanno caratterizzato la 69ª edizione del Festival del Film di Locarno, avevo chiuso le mie brevi note con un’inquietudine (Non c’è nulla di semplice in quel che sta succedendo attorno a noi. E si rischiano le psicosi e la xenofobia al rialzo) e la speranza che, al rientro a scuola dopo le vacanze estive, nelle nostre aule ci sia chi offrirà ai suoi allievi l’opportunità di parlare della brutale attualità che distingue questi tempi e che ha affollato le cronache delle ultime settimane [Il festival del film di Locarno, l’attualità brutale e la forza educativa del dubbio].

L’edizione odierna del quotidiano francese «Le Monde» ha pubblicato un intrigante contributo di Philippe Meirieu, pedagogista e professore emerito in scienze dell’educazione all’università Lumière di Lione: «La démocratie est assignée à faire de l’éducation sa priorité». [Nel sito di Le Monde l’accesso all’articolo è protetto; lo si può tuttavia recuperare integralmente nel sito di Philippe Meirieu, oppure lo si può scaricare qui].

Meirieu inizia con un amaro riscontro: «I riti commerciali e i cliché mediatici che segnano tradizionalmente l’apertura di un nuovo anno scolastico rischiano, quest’anno, di sembrare particolarmente sfasati. In effetti non potremo fare a meno di una riflessione educativa sugli attentati dell’estate e sulla situazione del nostro paese».

Sono naturalmente d’accordo, perché invece, nel nostro di un paese, c’è una buona possibilità che si parli solo di HarmoS e dei nuovi piani di studio, quasi che non ci trovassimo al crocevia non solo geografico dell’Europa, e che alle nostre frontiere e nei nostri centri di accoglienza non fossero palpabili le tensioni alle quali non possiamo sfuggire: perché sinora non siamo stati al centro di attacchi terroristici, ma una giovane donna di Agno è comunque morta a Nizza, senza dimenticare i tre giovani ticinesi vittime di un attentato a Marrakech nell’aprile del 2011.

Ma forse c’è poco da fare, perché ci piace crogiolarci nel nostro essere un Sonderfall, almeno quando ci fa comodo.

Meirieu prosegue sulla necessità che nelle scuole, da settimana prossima, sia possibile «ascoltare le inquietudini e gli interrogativi degli allievi, permettere di esprimere a parole le loro domande, di confrontarsi serenamente, tra loro e con gli adulti: a questo scopo bisognerà realizzare dei rituali che permettano la nascita di parole rincuoranti, senza esitare a passare attraverso l’espressione scritta o grafica individuale, a servirsi della mediazione di una poesia o di un romanzo, a prendere esempi dalla storia (…). A sollecitare l’immaginazione degli allievi chiedendo loro di descrivere in che modo ognuno di loro e tutti insieme possono contribuire a far indietreggiare la barbarie».

A ben vedere c’è, in queste riflessioni per il rientro in aula dopo un’estate speciale, la visione di una scuola che persegue fino in fondo la sua capacità di educare i cittadini, ben oltre le tante spendibilità immediate e gli orpelli tecnocratici che stanno tramutando l’Istituzione scolastica in un volgare supermercato.

Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830
Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830

È davvero tutto da leggere, questo contributo di Philippe Meirieu, che invita la Scuola a «diventare deliberatamente uno spazio di decelerazione. Lungi dal premiare la risposta immediata, essa deve promuovere la riflessone critica. Deve imporre la distanza dalla pulsione e il distacco dalla reazione immediata, per sfruttare questo tempo per anticipare, scambiare, documentarsi, riflettere… in breve, per imparare a pensare. Ne siamo lontani, noi che corriamo sempre nei corridoi e talloniamo i programmi, che fuggiamo il silenzio come la peste, che correggiamo un compito per sempre, senza lasciare all’allievo la possibilità di approfittare dei nostri consigli per migliorare. Di fronte all’immediatezza del “tutto e subito” promosso sistematicamente dal macchinario pubblicitario e tecnologico, la Scuola deve svolgere intenzionalmente un ruolo termostatico. Né rifiuto brutale della reazione dell’allievo, né consenso demagogico della sua opinione: “Prendiamoci il tempo per pensarci”. È solo così che la Scuola contribuirà a insegnare a ragazzi e adolescenti a resistere a ogni sorta di seduzione».

Il festival del film di Locarno, l’attualità brutale e la forza educativa del dubbio

Durante i giorni del suo Festival del Film, Locarno, la cittadina in cui vivo e sono nato, è bellissima. Anche se non lo seguo più, colpevolmente!, da troppi anni mi piace gironzolare nei luoghi del Festival. Quand’ero un bambino e si svolgeva nel parco del Grand Hôtel, ne sentivo parlare, credo per il glamour e l’attrattività turistica.

Per quel che posso ricordare, penso di aver visto il primo film nel 1969, al cinema Rex: Tres tristes tigres, del regista cileno Raúl Ruiz. Leggo ora in Wikipedia che quell’anno Ruiz vinse il pardo d’oro. Io avevo sedici anni, ricordo il titolo e nulla più.

Il festival l’ho seguito molto intensamente per quasi un decennio, forse a partire dal 1973, quando vinse Illuminacja di Krzysztof Zanussi.

Quando si teneva in autunno e al chiuso delle sale, i locarnesi lo guardavano di sbieco, lo consideravano uno spreco di soldi pubblici per sinistrorsi un po’ pallidi. Poi arrivò sulla Piazza Grande in piena estate, ma coi residenti non andò meglio: fosse stato per gran parte di loro, il più piccolo dei grandi festival avrebbe potuto chiudere i battenti, senza troppi rimpianti.

Manifestino locarno2016

Per fortuna c’è stato chi ha continuato a crederci, e oggi è una realtà incantevole.

Stamattina ho fatto un giro dalle parti di Piazza Grande. Che tristezza: gente coi trolley al seguito diretti alla stazione dei treni, gli studi RSI in via di smontaggio, qua e là pulmini e auto pardate, pronte a trasportare i nostri ospiti alla Malpensa o chissà dove. Come se non fosse abbastanza, tra due settimane riapriranno le scuole, e già domenica ritroveremo nelle cassette i settimanali gratuiti. Il Ticino di sempre.

L’edizione che si è chiusa ieri sera sarà ricordata per la presenza palpabile di un fitto servizio di sicurezza. Ha detto il presidente, Marco Solari: «Sulle misure di sicurezza a mio modo di vedere è stato emblematico quanto accaduto in piazza Grande durante la serata inaugurale. Dopo aver ringraziato la politica, che ci dà fiducia senza travalicare la linea rossa dell’ingerenza nei contenuti, l’economia privata, per la quale sostenere il Festival non significa solo firmare uno chèque ma offrire anche qualcosa in più a livello di servizi, per la prima volta, in modo spontaneo, ho ringraziato anche la polizia e le forze dell’ordine. E l’applauso che è partito dal pubblico ha dimostrato che i tempi sono cambiati, che la gente non solo non è infastidita dalle misure di sicurezza ma è grata per le misure che sono state prese, anche grazie a una precisa volontà politica» (Corriere del Ticino del 13 agosto, pag. 29).

Solari spiega, in un’intervista al Giornale del Popolo: «All’inizio del festival c’era un’atmosfera di tensione, il ricordo di quello che era successo a Nizza, a Monaco, in Germania e a Padre Hameg – che mi ha colpito moltissimo – si percepiva».

Le-Ciel-attendra
Le Ciel attendra

Oltre a ciò l’8 agosto la Piazza Grande ha accolto Le Ciel attendra, film francese sul tema del reclutamento dei giovanissimi da parte degli integralisti dell’Isis. «Il festival del film di Locarno – chiarisce ancora Solari – non sceglie un determinato film perché tocca un certo argomento, pur attuale. A Locarno si accetta un film perché è fatto alla perfezione: è il film che suscita il dibattito, non il dibattito che precede il film. Le ciel attendra è stato scelto perché adempiva a tutti i criteri. E vi posso dire che, in 16 anni, è stato uno dei pochi momenti in cui io, come presidente, sono stato coinvolto, perché altrimenti la libertà del direttore artistico è quasi totale. Ho visto il film e sono arrivato alla conclusione che se non avessimo mostrato la pellicola per paura, Locarno avrebbe perso il suo senso più profondo, la sua ragion d’essere. Ed eravamo tutti d’accordo» (Corriere del Ticino del 13 agosto, pag. 29).

Già. Viviamo tempi complessi e violenti. All’indomani dell’attentato terroristico sulla Promenade des Anglais ho inviato un messaggio di solidarietà a un amico di Nizza, che mi ha risposto quasi subito: «Je n’arrive pas à mettre des mots devant une telle horreur. Je suis historien et je ne comprends pas au nom de qui ou de quoi, hier à Nice ou chaque jour dans le monde, une telle atrocité peut être commise. Et contrairement à ce que disent les politiques, il ne s’agit pas d’une guerre, mais de crimes contre l’humanité – ou alors nous basculons dans l’indicible et “la terre serait une cage splendide pour des animaux qui n’auraient rien d’humain”, comme l’écrivait Albert Camus dans ses Carnets».

Magari la presenza per dieci giorni, nella nostra tranquilla cittadina, di poliziotti armati a ogni angolo di strada ci ha fatto capire che la realtà che ci circonda non si risolve con le semplificazioni, i muri, i proclami, le petizioni. Non c’è nulla di semplice in quel che sta succedendo attorno a noi. E si rischiano le psicosi e la xenofobia al rialzo.

A fine agosto migliaia di allievi, studenti e insegnanti torneranno al loro tran tran scolastico. Chissà se, oltre ai rimpianti per le vacanze concluse e per l’estate che si sfilaccerà in tempi brevi, ci sarà pure un posto privilegiato per riflettere su questi temi, che toccano tutti noi? C’è da augurarsi che nelle nostre aule ci sia chi offrirà ai suoi allievi l’opportunità di parlare della Francia e della Germania, della Siria e della Libia, e di tanto altro che si ascolta e si legge giorno dopo giorno: non per creare certezze o sciocche sicurezze (anzi: meglio sgretolarle subito!), ma per capire che la Storia è complicata e che i dubbi sono preziosi, molto preziosi.

Sarebbe bellissimo.

Cinema a scuola, per l’etica e l’estetica

«La scuola che non si occupa di cinema perde il contatto con la realtà».

È un’affermazione forte, questa di Gino Buscaglia, presidente di Castellinaria, il Festival internazionale del cinema giovane, che giungerà alla XXIX edizione in novembre.

Castellinaria_logo

La dichiarazione, riportata dal Giornale del Popolo, rinvia alla tradizionale conferenza stampa organizzata nell’ambito del Festival del Film di Locarno per presentare la prossima edizione di Castellinaria, che propone quest’anno una novità di grande interesse: una giornata di studio per i docenti della Svizzera italiana di ogni ordine di scuola, che prevede, dopo alcune relazioni introduttive, l’esposizione di diverse esperienze di educazione all’immagine – e al linguaggio cinematografico in particolare – già vissute o attualmente in corso nelle nostre scuole.

«L’obiettivo – ha spiegato il presidente di Castellinaria – è quello di riflettere, con gli insegnanti, sull’opportunità di incrementare nel mondo della scuola gli spazi/tempo da dedicare a questo genere di attività e di esperienze educative».

Buscaglia batte ’sti chiodi con ostinazione e passione da almeno mezzo secolo. Sotto la sua presidenza, e con la direzione di Giancarlo Zappoli, Castellinaria si è evoluto qualitativamente e quantitativamente, tanto che oggi è una bella e radicata manifestazione che caratterizza l’autunno culturale e pedagogico del Cantone.

Per evitare sciocche sviolinate, meglio dire senza attardarsi che Gino Buscaglia, genovese cresciuto in riva a quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, l’ho conosciuto nei primi anni ’70 del secolo scorso, durante un’edizione del Festival del film di Locarno, lui inviato del Giornale del Popolo (e, mi pare, del mensile Sipario), io improbabile fotoreporter e impiegato del Festival, forse come “caposala” al cinema Pax…

Locarno 1976
Una testimonianza archeologica: è il Festival del film di Locarno del 1976, quando il vodese Francis Reusser si aggiudicò il pardo d’oro (e noi lo fischiammo), passò Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000 di Alain Tanner e la giuria FIPRESCI conferì un premio speciale a Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, ammazzato neanche un anno prima. Io sono quello di spalle. L’autore dello scatto è ignoto.

Siamo diventati amici, e più volte l’ho coinvolto professionalmente, proprio perché credevo e continuo a credere che la settima arte dovrebbe trovare nella scuola, a partire da quella dell’obbligo, un suo ruolo sostanziale e autorevole, al pari di tante altre arti più celebrate: penso al teatro e alla letteratura, alla pittura e alla poesia, alla musica e alla scultura…

Chiusa la parentesi nostalgico-biografica (ebbene sì, nel ’76 avevo 23 anni), torniamo alla recente dichiarazione del presidente di Castellinaria: «La scuola che non si occupa di cinema perde il contatto con la realtà». Concordo col Gino.

Solo che la scuola il contatto con la realtà l’ha perso da tempo ormai immemore. Ho scritto nel maggio scorso (La scuola per il Paese di domani tra il progresso e i gattopardi) che «La scuola obbligatoria è forse quella che, tra tante istituzioni pubbliche, si è riprodotta negli anni infinitamente uguale a sé stessa (…), aggrappata a consuetudini ormai secolari».

Proviamo a dare un’occhiata alla realtà: che ne è stato della letteratura e della poesia, per restare a due arti intimamente legate alla tradizione della scuola?

Senza pensare alla musica, che pure ha un posto nelle griglie orarie settimanali, altre forme artistiche sono confinate nelle pause tra un test e un consiglio di classe, sebbene allievi e studenti si emozionino di fronte a proposte culturali che esulano dai percorsi un po’ tecnocratici della scuola contemporanea: penso, per indugiare su mie esperienze recenti, ai ragazzi della scuola elementare a contatto con Ovidio (A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?), ai liceali locarnesi che hanno assistito allo spettacolo teatrale «Donna non rieducabile – Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja» (Esercizi di cultura nella scuola) o, ancora, alle proposte musicali dei «Concerti per le scuole», che hanno già superato le cinquanta edizioni (Dalla Russia con passione: un’altra avventura con la musica per le scuole).

La storia dell’educazione al cinema e ai mass-media è disseminata di ideologismi e forzature, e dura da oltre mezzo secolo. Fanno bene a insistere Castellinaria, i suoi dirigenti, il DFA (Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI) e il DECS (Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport), che  sostengono questo festival del cinema giovane.

«Cinema e Scuola: quali sinergie?», la giornata di studio per gli insegnanti organizzata e voluta da Castellinaria, è un nuovo e importante contributo a questa causa. Il rischio, come spesso accade, è che parteciperanno solo quelli che hanno già le loro convinzioni al proposito: plauso a loro e a chi ha voluto incontrarli per riflettere insieme. Ma è giusto, e nel contempo inutile, farsi troppe illusioni.

Senza le discipline scolastiche ingabbiate nelle griglie settimanali, con tanto di certificazioni al seguito, la scuola si sente svuotata della propria identità e assolutamente incapace di funzionare.

Sicuro!, la scuola dovrebbe occuparsi anche del cinema, per tante ragioni. Il celebre aforisma di Umberto Eco – Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro – si applica naturalmente anche al cinema. Occuparsi di cinema a scuola, come di letteratura pittura o poesia, significa pure imparare a confrontarsi con i canoni dell’etica e dell’estetica: che è Educazione vera.

Sarebbe però una sciagura se il Cinema diventasse una disciplina scolastica, coi test e le note.