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La scuola non è il Golgota

A Singapore i giovani pagano un prezzo elevato per un sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi. Ogni anno alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Vogliamo questo anche in Ticino?

La Legge della scuola, votata dal parlamento sul finire del XX secolo, stabilì che i genitori erano a pieno titolo una componente della scuola, con organi e compiti sanciti da leggi, regolamenti, norme e direttive. Era il 1990 e la scuola era già un po’ diversa da quella degli anni in cui questi propositi erano nati, vent’anni prima. Diciamo che sull’arco del mezzo secolo, dall’istituzione della scuola media nel 1974 a oggi, sono cambiate parecchie cose. Il varo della nuova Legge arrivò sei anni dopo che Apple presentò Macintosh e tre mesi dopo il crollo del muro di Berlino: basterebbero queste due date a simboleggiare i frenetici cambiamenti di un’era forse ancora ai suoi inizi.

Anche solo limitandosi alla scuola obbligatoria, sarebbe già eloquente il confronto tra i (vecchi) programmi della scuola elementare e della scuola media con i contenuti del Piano di studio attuale, che copre la scolarizzazione di tutte le persone residenti nel Cantone dai quattro ai quindici anni di età. Dei genitori e dei loro dispositivi formali e informali di collaborazione, invece, è cambiato poco, e di quel poco non si sa bene chi ne usufruisce e se ne giova: ci si chieda quanti frequentano l’assemblea dei genitori e entrano nei loro comitati, e quanti hanno incontri regolari e fruttuosi con i/le docenti dei loro figli.

Nel 2023 la SRF ha realizzato un interessante reportage – Modelli scolastici a confronto – che mostra dove si situa il nostro sistema scolastico rispetto a Singapore e alla Finlandia, due mondi formativi agli antipodi, due scuole da anni al top delle classifiche PISA per i loro risultati in matematica, lettura e scienze. La scuola svizzera si colloca tra questi due modelli. Ho estrapolato qualche passaggio che riguarda Singapore e Finlandia.

I giovani singaporiani pagano un prezzo elevato per questo sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi, che a volte sfociano nel peggio. Ogni anno, alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Centinaia chiedono aiuto all’organizzazione SOS, specializzata nella prevenzione dei suicidi.

Dal sud-est asiatico e tropicale alla Finlandia anche il clima scolastico è assai diverso. Un maggiore riconoscimento è la chiave per avere insegnanti motivati, che dovrebbero insegnare le competenze di cui gli alunni avranno davvero bisogno: le competenze del XXI secolo, ovvero creatività, comunicazione, cooperazione, lavoro di squadra, sulla scorta di un’idea degli obiettivi fondamentali della scuola: formare futuri cittadini muniti di competenze per professioni di cui non conosciamo ancora l’esistenza.

La scuola svizzera è distante dai modelli della Finlandia e di Singapore, riportando comunque risultati sopra la media dei paesi partecipanti e nel gruppo di testa dei paesi europei. Tenuto conto che, di solito, la scuola non insegna ciò che dice, ma insegna ciò che fa, si potrebbe dire che il suo funzionamento ricorda vagamente quello singaporiano, anche se, fortunatamente, siamo ancora lontani da quei tristi finali dell’esasperata competizione scolastica.

Eppure qualche sintomo preoccupante si è già palesato: molti genitori non sanno più da che parte girarsi e accumulano stanchezza, ansia, senso di inadeguatezza. Recentemente, TIO ha riportato di Genitori sempre più in burnout. Tra le diverse testimonianze raccolte – scrive il portale – c’è quella di Sonia, 36 anni. È una mamma single di un figlio di tre anni e mezzo che – racconta – «per sbarcare il lunario faccio due lavori: il primo in un ufficio delle imposte, il secondo come badante». Ammette di essere «costantemente esausta e spesso vorrei essere altrove, anche quando sono a casa. Ogni volta che mi alzo al mattino ho la nausea e penso tra me e me: come farò ad affrontare la giornata? Vorrei solo che fosse di nuovo sera per poter dormire. Mi sembra una lotta costante per la sopravvivenza».

Nel contempo Pro Juventute parla di queste figlie e di questi figli, che, per gran parte dell’anno, sono allievi e studenti: Bambini e giovani sotto stress e pressione competitiva. Di sicuro non sono le mamme come Sonia a creare problemi alla scuola, a prendere di mira gli insegnanti a loro giudizio inadeguati. Purtroppo, capita di incontrare genitori a volte un po’ squadristi, mai sufficientemente sazi di nozioni, sacrifici, fatiche, competizione per i loro figli. Ha scritto di recente il parlamentare Piezzi del PLR: In campo educativo, e l’ho denunciato più volte, sono troppo assenti valori come il sacrificio, l’allenamento allo sforzo, la capacità di reagire agli insuccessi. Il pulpito ha naturalmente la sua importanza, dato che il deputato è pure maestro. Ma perché mai dovremmo rifarci alla narrazione cattolica, che dalla Via Crucis, disseminata di dolori, sale al Golgota?

Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al Calvario, 1564, olio su tavola, 124×170 cm, Kunsthistorisches Museum Vienna

Alle tante mamme come Sonia, che hanno figli a scuola, non si possono chiedere ulteriori sacrifici oltre alla fatica e al sudore che già affrontano ogni giorno, felici di lasciare i figli a scuola, un po’ meno di essere costrette a far capo al doposcuola o alle colonie, per l’impossibilità di restare con loro. La scuola, per lo meno quella dell’obbligo, dovrebbe darsi una calmata e smettere di piegarsi alle richieste di tutte quelle corporazioni che chiedono sempre più nozioni, «competenze» e selezione.

In Finlandia le giornate scolastiche sono più brevi che in quasi tutti gli altri Paesi: 4-6 ore al giorno con una settimana di 5 giorni. Gli alunni, inoltre, dedicano anche poco tempo ai compiti a casa: 10-20 minuti al giorno. In questo modo si evita di penalizzare i bambini senza un supporto a casa. In questo modo non ne risentono né il sonno né le prestazioni cognitive. Ciò nonostante i livelli di competenza dei loro quindicenni sono simili ai nostri.

 

Scritto per Naufraghi/e

Su temi analoghi segnalo tre articoli di questi giorni:

Gli affanni della scuola liberal sociale, di Fabio Camponovo (Naufraghi 02.09.2024), La scuola tra l’essere e l’avere, di Elda Pianezzi (laRegione 03.09.2024) e Scuola fa rima con idea, di Michela Luraschi (laRegione 03.09.2024). I due articoli pubblicati su laRegione sono visibili anche qui.

 

Scusate, sulla scuola abbiamo cambiato idea (liberale)

La scuola ticinese l’hanno fatta e gestita soprattutto i liberali, ma adesso, ohibò, a loro non piace più

In altre epoche c’era stato uno che aveva promulgato una Legge in dieci articoli, che aveva chiamato Comandamenti. I liberali radicali svizzeri vanno vicini al raddoppio: Diciassette campi d’azione per un’educazione scolastica equilibrata e orientata al futuro. «Il modello di successo liberale radicale presuppone che tutti abbiano l’opportunità di affrancarsi nella scala sociale. Tuttavia, questo è possibile solo con una solida istruzione. La comprensione del modello liberale di società richiede però un’ampia istruzione e, tra le altre cose, la conoscenza dell’Illuminismo»: alla faccia del minimo sindacale della modestia, che i liberali inglesi di un tempo chiamavano understatement, una sintesi di autoironia e sobrietà. Non so cosa sappiano questi novelli liberali dei grandi illuministi della storia della pedagogia – da John Locke a Jean-Jacques Rousseau, Denis Diderot, Voltaire, Johann Heinrich Pestalozzi e Immanuel Kant – senza evocare alcuni filosofi e pedagogisti che, in anni successivi, molto hanno dato alla scuola moderna, penso a John Dewey, Maria Montessori, Jean Piaget, Lev Vygotskij e altri.

Presumo che i liberali radicali ticinesi abbiano aderito all’eptadecalogo nazionale e che lo sottoscrivano senza se e senza ma, tant’è che questa lista della scuola che vorrebbero l’ho trovata nel loro sito. Così non possono dimenticare, o fingere di farlo, che per oltre sessant’anni, dal dopoguerra in qua, i loro predecessori hanno gestito la Pubblica educazione ticinese con i Consiglieri di stato Brenno Galli, Plinio Cioccari, Bixio Celio, Ugo Sadis, Carlo Speziali, Giuseppe Buffi e Gabriele Gendotti, e che in tutti quegli anni hanno proposto e realizzato tante importanti riforme, tra le quali spiccano l’istituzione della Scuola media e l’Università della Svizzera italiana, senza scordare la diffusione dei licei o i grandi sforzi per favorire e concretizzare la democratizzazione degli studi. Come spesso capita, vien da dire che gli originali sono migliori delle copie.

I «padri» della scuola ticinese dal dopoguerra, tutti liberali: Brenno Galli (1946-1959), Plinio Cioccari (1959-1965), Ugo Sadis (1971-1979), Carlo Speziali (1979-1986), Giuseppe Buffi (1986-2000) e Gabriele Gendotti (2000-2011). Manca Bixio Celio (1965-1971).

Certo, non tutto e non sempre è stato immune da errori e critiche, e non lo è neanche oggi, perché ogni legge è frutto di compromessi e scambi politici, così come la realizzazione dei suoi principi deve fare i conti con chi, nelle scuole e nelle aule, deve tradurre i principi in pratica, magari a volte dissentendo; e perché i tempi cambiano in fretta, gli impianti normativi resistono e i tempi della politica li conosciamo.

Forse non rammentano, i liberali odierni, che nel 1974 i liberali radicali ticinesi, coi socialisti, avevano istituito la scuola media, che avrà pure tanti difetti, ma che continua a rappresentare una grande conquista politica e sociale. La scuola maggiore era certamente un’ottima scuola, mentre azzerare il ginnasio fu una decisione davvero liberale e radicale, benché la scuola media, col passare degli anni, somigliò più al secondo che alla prima. Tra l’altro il relatore di maggioranza in Gran consiglio era stato il liberale radicale Diego Scacchi. E, a proposito di amnesie vere o di comodo, anche la Legge della scuola del 1° febbraio 1990 era nata con il sostegno convinto dei liberali radicali e del Consigliere di stato Giuseppe Buffi. E comincia con ben altre finalità rispetto allo slogan di oggi, La scuola dell’obbligo annaspa: torniamo alla missione principale.

Quale sarebbe allora la missione principale della scuola? Quella delle Competenze di base, competenze di base, competenze di base? Quella che Gli allievi alloglotti dovrebbero ricevere lezioni intensive nella lingua d’insegnamento prima di entrare in una classe tradizionale? Quella che Le note scolastiche devono essere mantenute e i tentativi ideologici di abolire le note devono essere respinti? Quella che Più Svizzera in classe e Tolleranza zero per i fondamentalisti? Suvvia: se davvero si vuole così pacchianamente abbandonare quell’ideologia che tanto ha prodotto in anni neanche troppo lontani, si abbia almeno l’audacia di manifestare a chiare lettere che si è cambiato idea, perché quell’idea del secolo scorso, secondo loro, ha prodotto riforme ormai alla canna del gas.

E allora se l’ideologia – oh che brutta parola! – non c’è più andate in parlamento e combattete come leoncelli per aggiustare quel che si può, mandate a gambe all’aria tutto quanto e restaurate secondo il vostro millantato «metodo liberale» (neutro, neh!). Gli alleati politici, quelli ideologicamente vicini a voi, non mancheranno.

 

Scritto per Naufraghi/e

La rete che pesca nella nostra infanzia e adolescenza

Da anni si lanciano anatemi o si predica il libero accesso dei più piccoli a internet e smartphone; ma il mondo della scuola non ha affrontato seriamente il rapporto fra educazione e rivoluzione tecnologica

È sotto gli occhi di tutti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno cambiato il nostro modo di vivere. Il ’900 è stato il secolo di due guerre mondiali, ma anche un periodo di mutamenti inimmaginabili. Avevo otto anni quando Jurij Gagarin volò nel cosmo, un’orbita completa attorno alla Terra. Ne avevo sedici l’anno del primo allunaggio. Poco più che trentenne misi per la prima volta le mani sulla tastiera di un Macintosh 128K. La memoria media di uno smartphone, che oggi ci accompagna dappertutto come un ipertecnologico coltellino svizzero, è di decine di milioni di volte più grande.

Secondo lo  psicologo sociale Jonathan Haidt, che Naufraghi/e ha ripreso da un articolo pubblicato dal portale Infosperber, dopo il 2010 è iniziata la fine dell’infanzia: «Le persone nate dopo il 1995 vivono un’infanzia completamente diversa perché varie invenzioni risalenti al 2010 hanno cambiato radicalmente le nostre vite. Soprattutto le piattaforme di social media e l’accesso costante tramite smartphone, che finirebbero per modificare il cervello dei bambini e dei giovani. A differenza di alcuni suoi colleghi – prosegue l’articolista –, Haidt vede una connessione diretta tra la diffusa introduzione di queste applicazioni e i crescenti problemi psicologici dei bambini e dei giovani in tutto il mondo».

I fattori che entrano in gioco sono chiaramente tanti. Nasciamo con alcune capacità innate, alcune delle quali si svilupperanno nel tempo, grazie all’esperienza concreta delle relazioni sociali e dell’apprendimento. Imparare a camminare è un processo difficile, così come non si impara a parlare e a comunicare se non si è esposti a stimoli e modelli adeguati. Tuttavia la maturazione dei cuccioli di Homo sapiens non terminerà a dieci anni:  ben altri cambiamenti aspettano ragazzine e ragazzini, che, attraverso quel complicato percorso che si chiama adolescenza, diverranno adulti. Va da sé che, già a partire dalla venuta al mondo, saranno indispensabili tutte le esperienze sociali, biologiche e culturali da affrontare con la più grande serenità possibile, nel mondo reale e non certo in quello virtuale.

Bambini, ragazzi e adolescenti devono avere il tempo per crescere, anche con la mediazione di genitori e maestri, senza che questi adulti colonizzino ogni minuto delle loro giornate. L’ozio è un diritto, come giocare a biglie improvvisandone le regole, costruire castelli con dei cubetti di legno, sfogliare un libro illustrato, fare scorrere le biglie colorate del pallottoliere, sognare di dirigere un circo, ascoltare le storie della nonna e avere paura pur sapendo come andrà a finire, giocare la finale dei mondiali di calcio in due, con discussioni accese a sapere se il pallone era passato sopra o sotto un’asta inesistente: Svizzera-Italia nel cortile di casa.

Invece, già da qualche anno, siamo alla dipendenza dagli schermi, indipendentemente dai contenuti che si trovano sul web, dalle enciclopedie alle botteghe, da blog di alto valore scientifico e culturale alla marea di pornografia (da cui bisognerebbe “non farsi fottere”, per citare la giornalista Lilli Gruber), dalle arti alla scienza, dai giochi interattivi al di tutto di più.

Basti citare pochi dati proposti dalla Fondazione Dipendenze | Svizzera: l’88% della popolazione dai 15 anni in su utilizza internet almeno una volta alla settimana; tra i 6 e i 13 anni la percentuale è già del 63%, e il 43% possiede un telefono cellulare; tra 12 e 19 anni il 99% ne fa uso più di una volta a settimana. Tra gli 11 e i 15 anni il tempo medio trascorso davanti allo schermo durante una giornata scolastica è di 4 ore e mezza, ma diventa di 8 ore durante i weekend.

E i bambini dove sono? La risposta è: su TikTok!

Ora c’è chi vuole porre dei limiti. A fine aprile una commissione di esperti, incaricati dal presidente francese Emmanuel Macron di determinare il corretto utilizzo degli schermi da parte dei nostri figli, ha rassegnato il suo rapporto, che ha messo in evidenza diverse criticità e formulato alcune raccomandazioni: nessuna esposizione agli schermi per i bambini di età inferiore ai tre anni; uso sconsigliato fino a sei anni, o limitato, occasionale, privilegiando i contenuti educativi con la presenza di un adulto; esposizione moderata e controllata a partire dai sei anni; nessun telefono cellulare prima degli undici anni; nessuno smartphone prima dei tredici anni; nessun accesso ai social network prima dei quindici anni; accesso solo ai social network “etici” dopo i quindici anni. La République intende legiferare in quella direzione e già altri Stati stanno battendo vie analoghe.

L’unica cosa fin qui certa è che siamo di fronte a un disastro delle istanze educative, che non sono solo la scuola, ma comprendono i media e la politica, per finire dentro le famiglie, indipendentemente dal livello socio-economico. Da anni si disquisisce, si minaccia, si lanciano anatemi, ognuno con la sua soluzione, spaziando tra l’incondizionato laissez faire e il più rigoroso e totale controllo censorio. Basti pensare che sono gli stessi genitori, di solito, a finanziare con orgoglio l’acquisto di smartphone, computer e tablet ai pargoli, ma non li si può incolpare di nulla. Sin dalla comparsa dei primi computer, la scuola ha cominciato a rincorrere il presente e a introdurre macchine e applicazioni nelle sue dottrine, fino a farsi travolgere. In nessun momento il mondo della pedagogia ha scelto di affrontare una riflessione epistemologica sul rapporto tra la formazione, l’educazione e l’allora imminente rivoluzione digitale: a partire dalla sua rilevanza pedagogica e al suo contributo alla costruzione di una conoscenza solida e pertinente.

Alla faccia di quella scuola che dovrebbe promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà.

 

Scritto per Naufraghi/e

Un’educazione del sentimento civico

Per non confondere, nella scuola, una pretesa educazione civica con una più appropriata educazione alla cittadinanza e alla democrazia

La pensata comune tende a ridurre l’educazione civica a quelle quattro nozioni in croce. «A livello di scuola media – ha detto Greta Gysin in un’intervista a Enrico Lombardi (Tre domande a Greta Gysin) – si impara ancora quante persone siedono in Consiglio nazionale e quante ce ne sono agli Stati: questi, in fondo, sono dei dettagli che non importano poi così tanto». Invece, continua, «bisogna far crescere la passione per la politica, quindi far capire come si discutono le cose, andare a palazzo federale, andare a palazzo delle Orsoline. Far sentire quella che è la politica, ma proprio sulla pelle, e forse così si riuscirebbe, almeno nelle persone giovani, a risvegliare un po’ di interesse, e così, in definitiva, aumentare un po’ la partecipazione».

Che bello. Ho sott’occhio l’introduzione di un testo di educazione civica di quasi cent’anni fa. «Mentre altri testi hanno cercato di procurare agli allievi molte nozioni esatte intorno all’organizzazione dei pubblici poteri e di fornire al docente un prontuario delle cose che il programma a lui richiede – sono le parole di Brenno Bertoni, autore di uno storico testo di educazione civica – io mi sono sforzato di eliminare tutti i particolari, tutte le singolarità che oggi sono e domani non sono, e forse saranno murate quando lo scolaro sarà fatto uomo. Per contro ho cercato di conseguire l’educazione del sentimento civico, coltivando nel cuore dell’allievo il naturale amore al suo paese, la naturale inclinazione al bene, il naturale aborrimento del male. Mi sono ingegnato di inspirare nell’animo del giovinetto un ideale semplice ma bello di ciò che dev’essere il suo comune, la sua valle, lo stato di cui sarà il futuro cittadino e difensore».

In realtà già l’educazione alla cittadinanza è un proposito piuttosto complesso da definire; se poi si vogliono anche raggiungere obiettivi inequivocabili, il rischio è di creare illusioni, per nascondere la solita figura da cioccolataio. Far crescere la passione per la politica, realizzare il sentimento civico, l’amore per il paese, l’inclinazione al bene e il disprezzo del male, sono fondamenti etici propri di ogni educatore che si muove nell’ambito di una società democratica. Da qui al declinare il desiderio in un percorso pedagogico con le migliori scelte didattiche il passo è sicuramente più lungo della gamba, e forse lo è sempre stato sin dai tempi del “Frassineto”.

Il Piano di studio della scuola dell’obbligo dedica ampio spazio al tema dell’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia, con il lodevole tentativo di precisarne il significato e i traguardi formativi, il modello e i traguardi di competenza, le indicazioni metodologiche e didattiche. È possibile che questo sforzo sia scaturito, almeno in parte, dalle diverse pressioni giunte allo Stato attraverso iniziative che si sono inseguite per almeno vent’anni, da quella dei giovani liberali per l’introduzione dell’ora di civica, all’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», al beneplacito del parlamento per una nuova disciplina nelle scuole medie e medio-superiori e, infine, il verdetto popolare del 24 settembre 2017: 44% di votanti, 63% di voti favorevoli. 56% da educare, per farli andare appassionatamente alle urne.

Come capita spesso, un conto è raccogliere firme e marcare il territorio mandando il popolo alle urne; un altro, invece, credere per davvero che la scuola sia in grado, da sola, di raggiungere obiettivi educativi di questa portata. Che poi, a ben guardare, non c’è bisogno di una nuova disciplina scolastica con le sue brave note – brave nel senso manzoniano del termine. La Legge della scuola, per tanti versi vecchiotta e incerottata, dice tutto già col suo art. 2 dedicato alle finalità. Bisogna leggerlo bene, ricordarselo e fare sempre il possibile per realizzare pienamente quel grande progetto educativo, che si sviluppa attraverso la scuola, la famiglia e – dice la legge – le altre istituzioni educative, vale a dire quella realtà sociale e culturale in cui tutti i cittadini sono immersi: i mass media, i luoghi di studio e di lavoro, i contesti artistici, sportivi, del divertimento.

La scuola di Atene (Raffaello Sanzio, 1509-1511)

 

È lì che avviene la vera educazione civica e alla cittadinanza, e lo è soprattutto nella società di oggi, che ha caratteristiche ben diverse dalla Svizzera e dal Ticino del secolo passato: basta pensare alla moltitudine di culture che vivono e danno vita alla nostra quotidianità, svizzeri o stranieri che siano. La vera sfida di cittadinanza, semmai, è quella di riuscire a rafforzare una convivenza che non sia solo tollerante, rispettosa e laboriosa, ma che sia anche partecipativa nel senso più largo ed empatico del termine. Proprio lì, forse, ci potrebbe essere il vero punto di forza della scuola, già a partire da quella dell’infanzia. Perché è a scuola che si incontrano, convivono e devono imparare a cooperare persone che provengono dalle più diverse situazioni religiose, economiche, storiche, etniche.

Già a quattro anni si possono (e si dovrebbero!) creare dei contesti di cittadinanza, che col passare degli anni – dalla prima infanzia all’adolescenza all’età adulta – diverranno via via più consapevoli della centralità del Diritto in una società democratica. E sarà nel momento della seppur parziale consapevolezza del Diritto che si potrà cominciare a spiegare il perché di talune scelte politiche, di consessi diversi dal comune alla confederazione, di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari.

Quell’altra educazione civica che si continua a evocare è solo un insieme di nozioni più o meno vuote o incomprensibili, che non possono lottare contro l’assenteismo alle urne.

Scritto per Naufraghi/e

I docenti non vendono scarpe

Le ingerenze e le pressioni delle famiglie sugli insegnanti sono frutto di un’idea mercantile di scuola fatta di concorrenza fra istituti e fra allievi. Ma la scuola pubblica è un’altra cosa

Pochi giorni fa mi è saltato all’occhio un titolo incredibile su un giornale francese: À Neuilly-sur-Seine, les profs ont le sentiment d’être «les employés des parents d’élèves». Anticipa l’occhiello: Nell’opulenta città dell’Hauts-de-Seine, le famiglie hanno preso l’abitudine di richiedere molto al team pedagogico e di intromettersi negli affari della scuola. A volte, anche in modo eccessivo.

Racconta Julie, insegnante di scuola elementare: «Ciò che all’inizio sembra voglia di collaborare si rivela poi un’ingerenza. A Neuilly i genitori sono molto invadenti. Si permettono di suggerirmi idee per le lezioni, di richiedere servizi o di commentare l’avanzamento del programma in un modo che mi fa sentire la loro domestica». Aggiunge Léa: «Dobbiamo costantemente giustificarci con i genitori, tranquillizzarli se la classe accanto non è allo stesso punto del programma. Non hanno fiducia e alcuni si comportano come se tutto fosse dovuto. Ho l’impressione di lavorare per loro più che per i miei alunni. È spossante».

«Quando sono arrivata a Neuilly, la prima cosa che mi hanno detto è stata: ‘Fai attenzione ai genitori, perché metà di loro conosce il sindaco e l’altra metà conosce l’ispettrice», ricorda Léa. Insomma, si può immaginare la situazione, che genera un clima di lavoro energivoro e frustrante.

Non conosco direttamente situazioni simili nel nostro Cantone, ma qualche episodio l’ho pur percepito già qualche anno fa, così come in tempi più recenti ho sentito insegnanti che citano proprio il comportamento arrogante di alcuni genitori come fattore di stress. So di chi ha gettato la spugna e ha cambiato aria, proprio nel senso di abbandonare la scuola e fare altro. E sono numerosi i docenti impazienti di andare in pensione il prima possibile.

Se ne parla poco, se non tra colleghi e nei corridoi. Eppure, per dirne una, la difficoltà nel trovare insegnanti è evidente. Ne avevo scritto poco tempo fa (La scuola come istituzione, non come servizio), e già in quell’articolo si intravedevano comportamenti prepotenti che ritroviamo oggi nel servizio sulla scuola di Neuilly-sur-Seine, cittadina di 60 mila abitanti alle porte di Parigi, «uno dei luoghi di residenza preferiti dall’affermata e ricca borghesia francese», come la descrive la solita Wikipedia. Ed è proprio con l’ostilità di alcune famiglie che si confrontano sempre più spesso i docenti della scuola dell’obbligo.

Ancorché in altri anni, la scuola, da parte di chi ci lavora, godeva di un’ottima reputazione; oggi sono probabilmente tante le cause della disaffezione, o peggio. Sullo sfondo c’è sicuramente la forte pressione sulla scuola affinché risponda alle più fantasiose richieste formative a un alto livello di competenza, ciò che fa a pugni con la preminenza del principio, nella scuola dell’obbligo, di non occuparsi solo dei suoi allievi più fortunati. Per la scuola e per i suoi insegnanti ci sono così il piano di studio della scuola dell’obbligo, oltre 200 pagine fitte; il percorso formativo richiesto a maestri e professori, sempre più in bilico tra le promesse del DFA e le tante realtà che si incontrano in classe; la situazione socio-geografica in cui operano gli insegnanti, quasi 150 sedi di scuola comunale e 36 istituti di scuola media; la marea di compiti che fa parte del loro cahier des charges, non sempre del tutto pertinenti con la pedagogia e la didattica.

Insomma, mi pare che sia sempre più indifferibile la necessità di mettere mano a tutto l’impianto che regge la pubblica educazione – sì, uso volutamente questo bel sostantivo, Educazione, benché sempre più spesso, già nell’aula del parlamento, si sottintenda che la scuola deve “limitarsi” a istruire – si veda al proposito anche la recente querelle sull’agenda.

Invece ai piani alti della politica scolastica si mette in scena, anno dopo anno, l’obsoleto teatrino delle riforme-cerotto e del numero di allievi per classe: e pensare che la legge-quadro della scuola ticinese risale al 1990, e per certi versi è figlia di una legge settoriale, quella della scuola media, che l’anno prossimo compirà giusto giusto mezzo secolo.

«Gli anni 2000 ­– ha dichiarato il pedagogista francese Philippe Meirieu agli autori dell’articolo su Neuilly-sur-Seine – hanno segnato l’arrivo delle prime indagini comparative internazionali, delle classifiche e del Programma internazionale per la valutazione degli studenti (PISA). Progressivamente, il paradigma democratico che regolava il servizio pubblico scolastico e che richiedeva che tutti fossero trattati allo stesso modo, è stato sostituito da un paradigma mercantile che promuove la competizione tra istituzioni e individui. La scuola è diventata un mercato e l’obbligo di fornire mezzi è diventato l’obbligo di ottenere risultati. Questo ha portato alcune famiglie a pensare che i docenti dovessero essere sottoposti alla stessa concorrenza dei venditori di scarpe e che l’istituzione scolastica dovesse rendere conto molto accuratamente del trattamento individuale riservato ai loro figli».

Nelle laiche Tavole della legge della nostra scuola si stabilisce che essa mira a crescere persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà, in collaborazione con le famiglie – c’è scritto proprio collaborazione, non collaborazionismo. Si specifica poi che le famiglie sono un organo consultivo – cioè non sono le famiglie che fanno e disfano. Sembrerebbe invece che più nessuno se ne ricordi, tanto da chiedersi se siano ancora in molti a pensarle così, le finalità della scuola, e se questi principi abbiano ancora un posto speciale nella cassetta degli attrezzi dei nuovi insegnanti.

Continuo a credere, ed è una delle certezze che conservo da prima di avere il diritto di voto, che la scuola pubblica e obbligatoria sia un cardine della democrazia.

 

Scritto per Naufraghi/e

Philippe Meirieu, in collaborazione con Daniel Hameline, aveva pubblicato curato e pubblicato nel 2010 un’interessante contributo dedicato Aux parents d’élèves qui ne liront jamais ce livre. À leurs enfants: L’École et les parents: la grande explication. Per certi versi è obsoleto, ma vi si possono ancora trovare diverse ottime spiegazioni. Il libro è esaurito, ma nel sito del prof. Meirieu si trova una versione scaricabile gratuitamente.