Archivi tag: Finalità della scuola dell’obbligo

L’informatica è straordinaria, ma è il mezzo e non il fine

È da una trentina d’anni che c’è chi invoca un maggiore coinvolgimento della scuola nell’ambito delle TIC, le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione: computer, reti, telefonini, robot… Le TIC sono dappertutto, anche quando non ce ne accorgiamo. Così, di pari passo con la loro vertiginosa evoluzione, si chiede da sempre che la scuola si metta al passo coi tempi: praticamente un ossimoro.

Quando si parla di potenziare la dotazione scolastica TIC, prima del «Cosa» bisognerebbe chiedersi «Per fare cosa». Non è attrezzando le scuole di tutta la mercanzia tecnologica immaginabile che si possono risolvere problemi educativi e formativi nati ben prima del 1984 – che non è solo il titolo del romanzo di Orwell, ma anche l’anno di nascita di Macintosh, la rivoluzionaria famiglia di computer che avrebbe dato il via alla diffusione dei PC nelle nostre case e nei luoghi più inverosimili.

Però, diciamoci la verità: se, da un lato, una percentuale altissima di alunni della scuola dell’obbligo ha imparato a interagire col touch screen prima di imparare a parlare, e anche se la gran parte degli insegnanti possiede uno smartphone e probabilmente usa un computer, il sistema scuola non si è mai chinato seriamente sulla formazione degli insegnanti. In realtà si continua a dare per scontata la capacità degli insegnanti di padroneggiare www e dintorni; nel contempo non si è mai affrontata una riflessione a 360° sulle TIC e su come queste hanno cambiato da così a così l’intero contesto formativo.

Un esempio significativo l’abbiamo sperimentato giusto un anno fa. A metà marzo si sono chiuse le scuole, riaperte in maggio. In quei tre lunghi mesi, a salvare l’anno scolastico ha contribuito la scuola a distanza. Gli ostacoli sono stati tanti e di varia natura. C’era chi, a casa, il computer non l’aveva, o ne aveva uno solo per più di un figlio. Dall’altra parte dello schermo c’erano docenti che riuscivano a fornire prestazioni all’altezza, mentre altri erano del tutto a disagio, con competenze informatiche rudimentali. L’estrema urgenza ha imposto di mantenere quel minimo di contatti, benché virtuali, e di garantire la continuazione dell’attività didattica, per quanto limitata ad alcune discipline. Tuttavia è probabile che le pratiche messe in atto in quei mesi dagli insegnanti non divergessero nella sostanza dagli stili di insegnamento precedenti.

È però dimostrato che quel breve periodo di scuola a singhiozzo, con presenze ridotte e altrettanto ridotta continuazione dei percorsi didattici, abbia danneggiato soprattutto gli allievi delle fasce sociali più disagiate. In tal senso, quindi, si può dire che, almeno in quel frangente, messo in piedi in fretta e furia, gli «ambienti informatici» disponibili hanno mostrato la loro assoluta inadeguatezza pedagogica. Malgrado ciò, c’è già chi afferma che grazie alla pandemia abbiamo scoperto la scuola del futuro prossimo, precorritrice di nuovi e fantastici orizzonti formativi. Di sicuro c’è chi favoleggia una scuola a regime ibrido, un po’ in presenza e un altro po’ davanti a uno schermo, ognuno a casa propria.

Sono convinto che la tecnologia nasconda straordinarie possibilità per contribuire al progetto politico e culturale della scuola obbligatoria. Ma le TIC, di per sé, sono un mezzo, non una finalità. Si cresce e si impara attraverso l’impegno individuale, ma anzitutto lavorando in gruppo e contribuendo alla vita di quella piccola comunità di cui ciascuno è protagonista.

Probabilità e statistica per stimolare lo spirito critico

Come se ce ne fosse stato bisogno, le cronache quotidiane dal mondo della Pandemia ci hanno inondati ancor più di statistiche e di ipotesi di vario tipo. È pressoché impossibile sfuggire a valanghe di numeri, percentuali, medie, variabili con cui politici e uomini di scienza raccomandano, suggeriscono e, a volte, ci rivolgono sfumate minacce. Naturalmente statistiche e calcolo delle probabilità esistono quasi dalla notte dei tempi, ma mai come negli ultimi decenni sono state così tanto presenti e, a volte, talmente invasive da sembrare sempre scientificamente valide e politicamente neutre.

È ovvio che non tutta l’informazione di cui fruisce il grande e indifferenziato pubblico che legge i giornali, guarda la TV, ascolta la radio e segue notizie e commenti sul web è riempita di statistiche. Un esempio perfetto è quello delle previsioni del tempo. Pur essendo un servizio informativo basato sulla scienza, MeteoSvizzera non ci inonda di dati più volte al giorno, e nemmeno pretende di propinare verità assolute. Tanto per dire, leggo ora nel sito dei nostri meteorologi preferiti che tra una settimana potrebbero esserci delle schiarite, anche se – sottolineano – l’evoluzione è incerta e la previsione è poco attendibile.

Le statistiche, anche le più semplici, sono a volte disseminate di insidie. Capita di leggerne tra le più disparate – liste di percentuali e di grafici di varie fogge, che riguardano eventi, pareri, intenzioni, preferenze. Nulla di nuovo sotto il sole, se non la facilità, offerta dall’informatica e da software molto diffusi, di raccogliere dati e di diffondere descrizioni e proiezioni statistiche, con l’intento di fornire numeri, percentuali, correlazioni, pronostici. Non per caso molti media hanno introdotto da qualche anno l’infografica, una modalità di rappresentazione che unisce immagini e grafici, che vorrebbero rappresentare fenomeni complessi in un unico colpo d’occhio.

E la scuola? I programmi della nostra scuola dell’obbligo prevedono già da qualche anno di affrontare, fin dalla scuola elementare, la probabilità e la statistica. L’obiettivo – si legge – è quello «di far vivere esperienze di ragionamento probabilistico che consentano di affrontare con consapevolezza situazioni della vita quotidiana caratterizzate da incertezza». Si tratta dunque di proporre dei percorsi didattici che, in modo molto sensato, non intendono perseguire delle competenze specifiche.

È piuttosto un’educazione alla statistica e al calcolo delle probabilità, un elemento importante per sviluppare lo spirito critico, la curiosità, l’uso consapevole del dubbio. Cosicché di fronte a una statistica, a una previsione, a una tendenza, conviene abituarsi pian piano a non prendere tutto per oro colato, in bilico tra pigrizia di pensiero e atto di fede.

Qual è il tuo frutto preferito? [Tratto da: Bruno D’Amore e Martha Isabel Fandiño Pinilla, «Matematica, come farla amare», Materiali on line, © Giunti Scuola S.r.l. – Firenze]
Va da sé che la didattica ha sviluppato innumerevoli attività che permettono di avvicinare anche i più piccoli a questi temi, che possono educare, far conoscere e appassionare. Un istogramma, per dire, lo si può fare impilando dei cubetti sopra le etichette coi valori (i gusti di gelato preferiti: vaniglia, cioccolato, fragola, limone, …): vincerà la torre più alta. E la previsione di quante volte uscirà testa o croce lanciando una moneta potrà essere verificata lanciandola tante volte, per capire l’importanza della casualità e, soprattutto, il valore dell’incertezza: perché un conto è dire che su dieci, cento o mille lanci le due facce finiranno in parità; ma la realtà si presenterà ben diversa. O no?

Scuola, democrazia, educazione

Il titolo di questo post fa l’occhiolino al fondamentale libro di John Dewey (1859-1952) Democracy and Education: an introduction to the philosophy of education (1916, New York, The Macmillans Company), pubblicato per la prima volta in italiano nel 1949 dalla casa editrice La Nuova Italia, nella traduzione di Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano. Scriveva lo stesso Dewey nella prefazione, datata agosto 1915 (Columbia University, New York):

Le seguenti pagine contengono un tentativo di scoprire ed esporre le idee irnplicite in una società democratica e di applicare queste idee ai problemi del compito educativo. La discussione include un’indicazione degli scopi costruttivi e dei metodi dell’educazione pubblica osservati da questo punto di vista, e una valutazione critica delle teorie della conoscenza e dello sviluppo morale che erano state formulate in precedenti condizioni sociali, ma che ancora agiscono, in società nominalmente democratiche, per ostacolare l’adeguata realizzazione dell’ideale democratico.

Come apparirà dal libro stesso, la filosofia esposta in esso collega lo sviluppo della democrazia con quello del metodo sperimentale nelle scienze, con le idee evoluzionistiche nelle scienze biologiche, e con la riorganizzazione industriale allo scopo di far notare i cambiamenti che questi svolgimenti recano con sé nell’oggetto e nel metodo dell’educazione.

Mi è sembrato un spunto interessante – poco più di una citazione a mo’ di omaggio – per segnalare due libri di recente pubblicazione, dopo che, nel marzo dello scorso anno, avevo già segnalato la traduzione italiana di La Riposte. Écoles alternatives, neurosciences et bonnes vieilles méthodes : pour en finir avec les miroirs aux alouettes (Philippe Meirieu, 2018, Autrement Éditeur).

Nel frattempo sono apparsi due nuovi volumi di grande interesse. Il primo, ancora di Philippe Meirieu, ha per titolo Ce que l’école peut encore pour la démocratie. Deux ou trois choses que je sais (peut-être) de l’éducation et de la pédagogie, (2020, Autrement Éditeur).

Il secondo, di ENRICO BOTTERO, è Pedagogia cooperativa. Le pratiche Freinet per la scuola di oggi (2021, Armando Editore).

Nello stesso solco troviamo pure il seminario online organizzato il 14 aprile scorso dall’editore Armando: Incontro con Philippe Meirieu sul tema Quale educazione per affrontare le sfide del mondo attuale e preparare quello di domani (traduzione online di Enrico Bottero).

La registrazione dell’incontro è in YouTube (Incontro con Philippe Meirieu).

Saper parlare aiuta il rapporto con gli alunni

Dicevo, due settimane fa, dell’urgente bisogno che la scuola dell’obbligo insegni ai suoi allievi a esprimersi oralmente e che l’istituto per la formazione degli insegnanti – quello che tanti anni fa si chiamava scuola magistrale – inizi presto a lavorare su una moderna didattica della lingua parlata. Ci si potrebbe comunque chiedere come mai la scuola dell’obbligo continui a riservare alla scrittura e alla lettura uno spazio privilegiato, quasi che la capacità di esprimersi oralmente fosse un’acquisizione spontanea, che non necessita di particolari percorsi didattici – tutt’al più di correzioni immediate di fronte agli errori più grossolani.

Eppure parlare e scrivere sono due lati della stessa medaglia. È però curioso notare come l’attività di scrittura – penso in particolare ai famosi «temi» da svolgere individualmente – ha solitamente un unico lettore, peraltro più interessato agli aspetti “tecnici” del testo che alla comunicazione dell’allievo/autore, indipendentemente dalla natura del compito svolto: una descrizione, un racconto, un riassunto, un’argomentazione. L’insegnante interverrà dunque puntualmente, per segnalare errori ortografici, punteggiatura, grammatica e sintassi, forse l’uso appropriato del vocabolario.

L’espressione orale, invece, non è mai un esercizio destinato a un unico ascoltatore. Quasi sempre chi parla ha bisogno di qualcuno che ascolta. Si può dunque dire che lo sviluppo delle capacità orali, al contrario della scrittura, non può esistere né crescere senza la collaborazione dei compagni e dell’insegnante – per parlare da soli ci si può anche inventare una lingua.

Ora, per imparare a parlare servirebbe un impianto didattico altrettanto variegato e puntuale. Si sa che, in Europa, vi sono sistemi scolastici in cui l’oralità ha pari dignità della scrittura. Si tratta tuttavia di scelte pedagogiche strettamente legate alla cultura e alla storia di paesi, per citarne solo un paio, come la Danimarca e la Finlandia. Sappiamo però che i funzionamenti delle scuole dei diversi paesi non si possono importare come si importerebbero aringhe o mobili da montare.

Anche da noi ci sono esperienze significative, soprattutto nell’ambito della cosiddetta Scuola attiva, un movimento pedagogico nato nei primi decenni del ’900. Ha annotato Philippe Meirieu, parlando del lavoro di Célestin Freinet (1896-1966, pedagogista e educatore francese): «Talvolta, a scuola, gli alunni si annoiano. Non è perché li si costringe a lavorare, ma perché non li si fa lavorare per davvero: è il maestro che lavora, mentre loro ascoltano. Dunque mettiamoli al lavoro e diamogli dei compiti che abbiano un senso. Freinet ne è convinto: è il lavoro che stimola, il lavoro vero. Perché ha senso. È il lavoro che permette agli studenti di mettersi in gioco».

È proprio nel contesto della scuola attiva che troviamo tante proposte didattiche per insegnare agli allievi a esprimersi oralmente. Si tratta di attività regolari e alle quali tutti devono partecipare; senza contare gli spazi per la comunicazione collettiva, come può essere l’assemblea di classe, per discutere di argomenti grandi e piccoli che coinvolgono quella piccola comunità: una discussione che ha le sue regole, dove ognuno ha diritto a esprimersi e dove si impara ad ascoltare, a condividere, a dibattere.

Tra l’altro: sono i primi esercizi di democrazia, che hanno anche benefici effetti sulla competenza linguistica di ognuno.


La citazione è tratta da dall’opuscolo Célestin Freinet – Comment susciter le désir d’apprendre di Philippe Meirieu. Fa parte di una serie di 26 opuscoli che accompagnano 26 film che erano stati trasmessi tra il 1999 e il 2001 dal canale televisivo France 5. Ogni film della serie, intitolata «L’éducation en question», presenta i contributi di una grande figura dell’educazione con le domande che i professionisti del nostro tempo si pongono quotidianamente. Si possono vedere tutte le puntate (di 13 minuti l’una) nel sito di Philippe Meirieu (L’éducation en question).

Serve una nuova didattica per l’oralità

Chissà se la scuola insegna a parlare? Nell’immaginario è più rinomata per il silenzio, perché a scuola si sta zitti e si ascolta con attenzione l’insegnante: che spiega, puntualizza, espone. A volte rimprovera, ad esempio quando si chiacchiera. Ci sono pure situazioni ambigue, come quando pone una domanda a tutta la classe. C’è chi fa scattare la mano alzata e l’accompagna con «Io! Io!». E c’è chi, se potesse, si nasconderebbe, e fa il possibile per non farsi notare: perché è insicuro o timido. Spesso, quando poi arriva la risposta, lui si pente, perché la sapeva. Ma stando zitto rischia poco. Di solito, però, gli allievi fanno silenzio. Ascoltano, sembrano attenti. Saranno stuzzicati dall’argomento e lo capiranno? Chissà, a volte sì. Alcuni sì. Ma quando le cose vanno per le lunghe è quasi certo che ci sia chi si distrae, libera la fantasia, cercando di non darlo a vedere.

Secondo il nostro piano di studi, leggere, parlare, ascoltare e scrivere sono le essenze dell’espressione linguistica, le quattro abilità che «si combinano tra loro, vengono acquisite contestualmente e si rafforzano l’una con l’altra». Tuttavia la scuola è molto più centrata sulla scrittura, quella da produrre e quella da leggere. La didattica dell’italiano è prodiga di proposte interessanti in questi campi, ma è difficile trovare delle proposte strutturate e avvincenti dedicate all’espressione orale (o all’ascolto).

Non è ragionevole limitarsi al solo parlato informale, con interventi di revisione più o meno casuali e forse limitati agli errori più grossolani. Anche in quest’ambito, per contro, sarebbe più che appropriato far sì che l’allievo diventi protagonista attivo del suo apprendimento, così come si impara a scrivere scrivendo e a leggere leggendo. Oltre a ciò si consideri che l’oralità coinvolge un pubblico, grande o piccolo che sia: perché si può dialogare, presentare, discutere. Serve dunque un progetto didattico con i suoi tempi, le sue regole, i suoi contesti specifici.

Parlare bene è difficile come scrivere bene, ma non è la stessa cosa. Esprimersi davanti a un gruppo di compagni è un po’ come affrontare il foglio bianco. Prima di parlare o di scrivere è necessario prepararsi, strutturare il proprio pensiero, sapere cosa si vuole raccontare, descrivere o argomentare. Tra queste due produzioni linguistiche vi sono analogie e diversità. C’è che il testo lo puoi rivedere e cambiare prima affidarlo al lettore; mentre quando parli, se ti parte la cretinata corri un serio pericolo. Senza una didattica dell’oralità, regolare e bene articolata, è alta la possibilità che a parlare sia solo chi porta in dote quel tanto che ha imparato prima di entrare a scuola.

Serve insomma, con una certa urgenza, un nuovo impegno didattico, affinché l’espressione orale diventi un apprendimento fondamentale durante tutta la scuola obbligatoria, perché imparare a parlare in modo appropriato significa anche saper ascoltare e discutere con rispetto.

Dovrà essere una didattica che per forza di cose coinvolgerà anche l’educazione di chi ascolta. Ad esempio, l’esercizio di presentare un libro, un’immagine o un evento dovrà avere regole sue: un tempo prestabilito per la preparazione e per la presentazione, una scaletta chiara, un finale critico e formativo. Il ruolo dell’insegnante, in tutto ciò, sarà come sempre essenziale, perché toccherà a lui garantire lo svolgimento sereno dell’intervento e proporre una correzione utile al relatore e al suo pubblico.


L’articolo è stato pubblicato col titolo Lo studente protagonista con la didattica dell’oralità.