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Come dare parola al pensiero

La scuola insegna fin dall’età più tenera a strutturare un testo. Ancor prima di cominciare a scriverlo – più o meno in seconda elementare – il testo richiede un senso e un’organizzazione. Quando l’insegnante della scuola dell’infanzia chiede ai suoi piccoli allievi di reagire dopo aver ascoltato una fiaba, li aiuta, con stimoli mirati e opportuni, a organizzare ciò che vogliono esprimere, passando da qualche parola-chiave a frasi semplici di senso compiuto. Bisogna cioè imparare a dare delle parole a un pensiero, a un’idea.

Negli anni successivi proseguirà un cammino di formazione lungo, difficile e appassionante. Per insegnare a raccontare un’idea, un parere o una storia non ci si può limitare a dire o scrivere le prime cose che vengono in mente, in maniera disordinata e sconclusionata. La scrittura, in proporzione col proprio grado di sviluppo cognitivo e culturale, deve mirare a un senso. Ma per avvicinarsi sempre più a questo traguardo – un traguardo che potrebbe durare per tutta la vita – è necessario che la scuola affronti il percorso col massimo degli sforzi, perché la strutturazione del pensiero ha bisogno di competenze linguistiche – l’ortografia, la grammatica, la sintassi, il lessico – e di competenze culturali, vale a dire di conoscenze e di relazioni interdisciplinari. È quindi un impegno che coinvolge tutta la scuola, non solo i docenti di italiano.

Il compito della scuola non è quello di formare scrittori, giornalisti o poeti. Ma è possibile e doveroso adoperarsi affinché a quindici anni ognuno sia in grado di esprimersi con chiarezza e rispetto delle regole linguistiche. Tutti devono raggiungere la capacità di dare valore e profondità a ciò che si vuole raccontare, descrivere, esporre, argomentare o riassumere. L’obiettivo è alto e nobile. Nondimeno, per parlare di qualcosa, occorre conoscere l’argomento. Sarà, da adulti, una responsabilità individuale. Ma la scuola deve educare alla responsabilità e all’impegno, affinché nessuno si esprima a vanvera, in modo sciatto, camuffando le proprie inettitudini o millantando conoscenze inesistenti. C’è un galateo della comunicazione, orale o scritta che sia, e ci deve essere un bon ton pedagogico.

Ad esempio, non si può accettare che gli allievi debbano svolgere dei temi a freddo, raccattando le prime idee che vengono in mente. Prima di affrontare il foglio bianco, per contro, bisogna chinarsi insieme sul tema dato o scelto: con la lettura, la discussione, il dialogo; e occorre recuperare i saperi appresi in altre discipline – la storia, le geografia, le scienze, la matematica, le arti.

Pian piano, dunque, si dovrà passare da frasi semplici a testi più complessi e strutturati, imparando a padroneggiare con la giusta misura gli strumenti espressivi e gli artifici della lingua, e a scegliere il registro linguistico più adeguato al contesto.

C’è il tempo per farlo, ma il tempo non bisogna sprecarlo. E, soprattutto in questo campo, bisogna rifiutare la logica della competizione e del posto in classifica. Bisogna aiutare gli allievi a scrivere e a pensare. Si impara con la pratica, con lo studio e con l’aiuto dei docenti. Ha scritto don Lorenzo Milani: Durante i compiti in classe [la professoressa] passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. Ora invece siamo a scuola. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro.


La citazione di Don Milani è tratta da SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina, pp. 127-8

Per scegliere in libertà cosa fare da grande

Fino a cinquant’anni fa, e da più di un secolo, in Ticino esistevano solo tre scuole medie superiori: il liceo a Lugano, la scuola magistrale a Locarno e la scuola di commercio a Bellinzona. È negli anni ’70 che accade la rivoluzione, che renderà concreta la democratizzazione degli studi attraverso l’istituzione della scuola media unica e la creazione dei licei di Bellinzona, Locarno e Mendrisio. È curioso constatare che, nel frattempo, la scuola magistrale è sparita e che la formazione degli insegnanti, diventata post-liceale, è ora affidata alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI).

Lo storico palazzo che accoglie ancor oggi il Liceo cantonale di Lugano 1 (immagine tratta da La storia del liceo cantonale).

Ma lo sviluppo più straordinario è avvenuto a livello di formazione professionale, che conta oggi una varietà di specializzazioni altissima, da quelle più tradizionali a tante altre di più recente creazione. Ciò mette in risalto una grande capacità di adattamento alla realtà professionale e di reattività alle sfide di un mondo del lavoro in rapida e continua evoluzione. Il settore della formazione professionale, insomma, è l’assioma di chi ci avverte che fra vent’anni i neonati del 2020 faranno un mestiere che non esiste ancora – senza scordare che lo si diceva già trent’anni fa. A ciò si aggiunga che molte di queste formazioni specializzate possono portare al conseguimento della maturità professionale, che consente l’accesso a un’ulteriore qualifica in istituti formativi di livello universitario. Il settore della formazione professionale è ormai diventato una costellazione scintillante, vivace, curiosa e rigorosa, che non ha proprio nulla da invidiare al più blasonato liceo.

Non è una novità che da diverso tempo c’è chi segnala una percezione fuorviante delle formazioni possibili al termine della scolarità obbligatoria. Il consigliere di stato Gabriele Gendotti, già nel 2003, si chiedeva se non occorresse «sostenere maggiormente la via di una formazione professionale ancora troppo spesso (e a torto!) ritenuta di serie B». E il parlamentare Nicola Pini, nel 2014, rimarcava come «La conoscenza è una virtù fondamentale e una premessa di libertà, un bene che è a prova di furto. Ma i percorsi formativi sono percorribili e di qualità anche in campo professionale».

È il settimanale della RSI «Falò» che, nel 2019, aveva messo qualche puntino sulle i, affermando senza giri di parole che «Chi ha una licenza con i livelli B, dopo la scuola dell’obbligo si trova di fronte molte porte chiuse, fra cui anche quelle dell’apprendistato. A essere colpiti maggiormente – continuava il servizio – sono i giovani con origine sociale bassa» oltre a quelle centinaia «che sono a casa “a far nulla”, che hanno smesso di studiare e di cercare un impiego».

In effetti il nodo centrale è lì, nella scuola media, che funziona come se fosse il vecchio ginnasio, quasi che fossero ancora vive le intenzioni dei suoi fondatori di metà ’800: preparare e selezionare chi avrebbe frequentato il liceo, per diventare avvocato, medico, architetto, ingegnere.

Purtroppo i meccanismi di selezione della scuola dell’obbligo continuano imperterriti a tenere in vita un’idea obsoleta. Invece, e più correttamente, oggi servirebbe una scuola capace di dare a tutti la più solida base culturale che chiunque possa ragionevolmente raggiungere a quell’età. Solo così ognuno sarà in grado di scegliere la formazione post-obbligatoria che riterrà più idonea e vicina ai suoi interessi e alle competenza fin lì acquisite. Una scelta che sarebbe vantaggiosa per tutto il paese.

L’équipe contro la solitudine

Ricordiamo bene l’impatto violento che la pandemia, in primavera, aveva avuto anche sulla scuola. L’inattesa calamità aveva messo in luce il valore della presenza di allievi e docenti negli spazi scolastici, ricordandoci la centralità educativa della convivenza e della comunicazione, un’essenza che supera la capacità di raggiungere gli obiettivi dettati dai programmi. A chi vagheggia una selezione sempre più precoce, conviene chiarire che la scuola dell’obbligo non ha tra i suoi tanti e difficili compiti quello di preparare gli allievi alla scuola che «viene dopo», attraverso una gerarchia che dalle scuole di maturità scende fino al certificato di formazione pratica.

Il nostro ministro dell’educazione, intervenuto proprio una settimana fa su queste pagine, a proposito di scuola dell’obbligo ha scritto che servono dei provvedimenti «che migliorino la personalizzazione dell’insegnamento e le possibilità per i docenti di differenziarlo in base alle diverse capacità degli allievi». Non si può fingere che le differenze prodotte dall’origine sociale, economica e culturale, dalla lingua, dalla religione e dalla propria storia siano solo fatalità.

Fin qui i tentativi per mirare a condizioni migliori per differenziare l’insegnamento ruotano attorno alla diminuzione del numero di allievi per classe e alla presenza di figure specializzate. A seconda del bisogno, nelle aule della scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico e di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che è il vero regista di ciò che succede nella sua aula. È piuttosto difficile capire i motivi che conducono la maggior parte dei sistemi scolastici a puntare tutto sul deus ex machina. Oggi non si parla più di vocazione, come s’usava in altri tempi, anche se la figura del maestro di scuola elementare o del professore della media ricordano per tanti versi i preti che, per primi, si occuparono dell’istruzione di bambini e ragazzi.

Forse bisognerebbe cominciare a pensare a una diversa organizzazione dell’insegnamento obbligatorio; per esempio l’insegnamento in équipe, vale a dire un gruppo di insegnanti che gestisce in comune l’equivalente di un numero di allievi che, normalmente, sarebbero ripartiti in due, tre o più classi. Lavorare insieme – come già succede in molti altri ambiti – offre alternative interessanti per gli insegnanti stessi, che potrebbero sviluppare dinamiche generatrici di successo educativo: nella relazione coi loro allievi e con le famiglie, e con originali possibilità di elaborazione e di sperimentazione della didattica e della valutazione.

Insegnare in équipe non è una soluzione magica; laddove è già una realtà segue logiche diverse l’una dall’altra. Ma ha l’indubbio pregio di mettere insieme docenti con bravure diverse, affinché la qualità del gruppo sia maggiore della somma delle capacità individuali. Lavorare con colleghi che hanno capacità, esperienze e passioni eterogenee diversifica i contributi, ma non toglie nulla ai singoli.

Eppure è un’impostazione di cui non parla nessuno. È legittimo sperare che prima o poi l’istituto che forma, abilita e aggiorna i nostri insegnanti cominci a guardare oltre la famosa siepe cantata dal poeta, per tornare a essere un luogo di riflessione e di stimolo anche al di là dei contenuti, delle didattiche e delle tecnologie.

Proposte a bizzeffe ma raramente divergono dalla vecchia idea di scuola

L’istruzione | La formazione scolastica alla prova del tempo. Ambito per ambito. Materia per materia. Così l’insegnamento si rinnova. O dovrebbe rinnovarsi. Da questo numero, e per alcune edizioni, le idee sul futuro di una istituzione fondamentale per la crescita della società.

È con questo lancio che IL CAFFÈ inaugura una nuova serie di riflessioni, dopo quella denominata L’ANALISI – Verso la ripresa delle lezioni (cinque puntate, dal 12 luglio al 30 agosto 2020, durante l’estate della pandemia Covid-19).



Forse il dibattito sulla scuola è un po’ confuso e prevedibile.

Prendiamo il discorso sui famigerati livelli della scuola media. Già nel 2012 i Verdi avevano proposto di ridiscuterne. Dopo tanti silenzi e il pollice verso alla «Scuola che verrà», ora si comincia a dire che sì, insomma, magari… Per un noto imprenditore era «l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà a ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro. Ma soprattutto saranno guai per coloro che vorranno continuare a studiare». Un altro maggiorente locale aveva ritenuto fondamentale ristabilire (sic) la meritocrazia. E il Movimento della scuola, guidato da uomini di scuola, mica dagli ultimi proletari del sistema-scuola, si era messo di traverso: «In certe riforme [ci sono] troppi scienziati dell’educazione», che, detto da «guidatori» della scuola, dovrebbe far riflettere. Non che la «Scuola che verrà» fosse chissà quale rivoluzione, sicché siamo ancora qui, quasi mezzo secolo dopo, a parlare dei livelli della scuola media.

Manca almeno un pizzico di fantasia: perché di idee e proposte se ne sentono a bizzeffe, ma raramente divergono granché da quell’idea di scuola che ci accompagna tutti da più di un secolo. Forse toglieranno i livelli della scuola media. Chissà cosa si inventeranno dopo, sperando che la soluzione non diventi l’Hiroshima della scuola dell’obbligo.

Poi, come si ripete spesso, sono i buoni maestri a fare una buona scuola, quelli che incantano i loro studenti, trasformano un complicato problema matematico in un’opera d’arte – al contrario di quegli altri, capaci di inaridire Leopardi. Va da sé che il medesimo ragionamento vale per tutti gli altri mestieri, perché pretendiamo di poterci fidare del pizzaiolo e dell’autista del bus, di chi fa i nostri giornali preferiti, dei professionisti e degli artigiani ai quali ci capita di affidarci. La differenza principale è che se non sono contento dell’elettricista, o del giornale, lo cambio. L’altra differenza è che la scuola, come la giustizia e l’esercito, è un’istituzione dello stato, ancorata alla costituzione, mica un servizio. Tutti sono obbligati a frequentarla, e non è solo questione di imparare a leggere, scrivere e far di conto.

Tutti siamo andati a scuola. C’è chi si è appassionato e chi è stato malissimo. C’è chi ricorda i suoi maestri, perché erano il meglio o il peggio. Sia come sia, magari non avremo imparato bene la matematica, l’italiano o tutta quell’abbondanza di nozioni, tecniche, lingue e competenze che si usa infilare nei programmi: ma siamo tutti esperti di scuola, ognuno con la sua soluzione, magica e quasi banale.

È da riflessioni come queste che vorrei ripartire, non per rincorrere chissà che rivoluzione copernicana, perché tanto la Realpolitik viaggia con prudenza e il piede sul freno, e con l’illusionismo non si va distante. Però esistono delle idee che arrivano molto più in là dei livelli e della media del 4.65 per andare al liceo a farsi massacrare una volta su tre. Ci sono problemi politici, sociali e culturali enormi, da affrontare con spirito critico, curiosità, piacere del dubbio e della speculazione intellettuale: attitudini che non possono nascere in una scuola ingessata e inutilmente selettiva. Per imparare a difendersi dalle fake news e dai tanti imbonitori della politica e dell’economia serve una scuola diversa: perché educare non è sinonimo di addomesticare, né di intrattenere o divertire.

Sarebbe poco civile augurarsi che la scuola non riapra per il virus, ristabiliamo un diritto

Domani si tornerà a scuola in modalità standard. Cassandre e chiudizionisti prego astenersi, perché la scuola ha bisogno di serenità e ottimismo. La scuola non è la vita vera, ma un luogo protetto, una specie di parco naturale da custodire gelosamente. Enos Bernasconi, responsabile malattie infettive dell’EOC, ha scritto: «È probabile che dei casi positivi in ambito scolastico si verificheranno anche da noi, è praticamente inevitabile. Ma le scuole andavano riaperte in presenza, perché l’istruzione è una necessità. La via delle lezioni a distanza è stata proficua, ma ha dei limiti. L’aspetto della socializzazione è fondamentale. Sarebbe stato sbagliato lanciare il messaggio che, per eccesso di prudenza, non si sarebbero riaperte le scuole. Fare i catastrofisti non serve, bisogna accettare il rischio. Un rischio gestibile».

Da metà luglio, in queste pagine, ho proposto alcune riflessioni attorno a temi importanti emersi nelle tante settimane dall’improvvisa chiusura delle scuole a oggi, con l’obiettivo di rimarcare che certe parole non possono restar lì come banali slogan. Ho parlato della riscoperta di quanto sia importante andare a scuola, anche fisicamente e non solo intellettualmente. Ho accennato alla scelta dello stato di obbligare la frequenza scolastica di tutte le persone dai quattro ai quindici anni che abitano nel nostro paese.

Ho cercato di spiegare perché siamo tutti così diversi, mentre a volte la scuola vorrebbe che fossimo tutti uguali – e in troppi sono convinti che se qualcuno è più uguale di altri è perché è più intelligente, si impegna di più, lavora sodo. A quel punto ho pure espresso l’idea che la classe non può essere una copia della famiglia, magari un po’ più numerosa della conformazione alla quale siamo oggi abituati; e del perché la formazione e l’educazione di tutti è importante e non può essere lasciata al caso, che ti fa nascere con la camicia o nudo come un verme. Una scuola indifferente alle differenze è come un sistema sanitario che si occupa solo dei sani.

Tra i quattro e i quindici anni un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore, senza contare i compiti a casa. Ha scritto un sociologo che se la medicina, per obbligo statale, potesse occuparsi della popolazione anche solo per una porzione infinitesimale di questo tempo, non le si perdonerebbe nemmeno un raffreddore. Ogni allievo, entro i quindici anni, ha il diritto di acquisire il bagaglio di conoscenze linguistiche, umanistiche e scientifiche che gli permetta di scegliere consapevolmente cosa vuol fare da grande. Garantire questo diritto è il dovere della scuola dello stato.

In ogni modo ora si torna a scuola, con gli auguri che da domani in poi si faccia tesoro di ciò che si è scoperto nei mesi scorsi. Tra i tanti pensieri positivi c’è la speranza che a nessuno venga in mente di inventarsi qualche ballottaggio per scegliere, ancor prima delle vacanze autunnali, chi parteciperà al girone finale e chi, in giugno, sarà retrocesso. La contingenza sanitaria che l’anno passato ha fatto diminuire la statistica delle bocciature non può essere l’alibi per pareggiare i conti quest’anno: perché sarebbe come chiudere bottega prima ancora che ricompaia la minaccia.

A differenza di altri contesti, la scuola riapre i battenti per una questione di principi superiori e fondatori del nostro paese e non per una legittima urgenza economica. Gufare sarebbe incivile.


Note

L’affermazione del Prof. Enos Bernasconi è tratta dall’intervista di Giona Carcano pubblicata nel Corriere del Ticino del 24 agosto («Bisogna fare attenzione alla tendenza dei numeri», p. 2).

Il richiamo a un sistema sanitario che si occupa solo dei sani riporta a Don Lorenzo Milani (Lettera a una professoressa, 1976, Libreria Editrice Fiorentina, p. 20): «Ma se si perde loro [gli ultimi, quelli che restano indietro], la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile».

Il sociologo citato è Philippe Perrenoud (La pédagogie a l’école des différences, 1995, Paris: ESF éditeur): «La responsabilité du système scolaire est mille fois plus engagée, puisque nul enfant n’y échappe et que chacun est livré 25 à 35 heures par semaine, pendant une dizaine d’années au moins, à l’action pédagogique de l’école. Si la médecine préventive pouvait prendre en charge les personnes de façon aussi autoritaire et continue, on ne lui pardonnerait aucune maladie!»


Termina con questo articolo la serie di contributi denominata L’ANALISI – Verso la ripresa delle lezioni. Le puntate precedenti sono state pubblicate domenica 12 luglio (L’istruzione è un valore aggiunto per la crescita economica e sociale), 9 agosto (Dopo un’estate di dubbi e domande, per la scuola arriva l’ora delle scelte), 16 agosto (L’insegnamento in équipe aiuterà i docenti) e 23 agosto (Le aule restino un luogo privilegiato dove sbagliare ma senza farsi male).