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Quando la scuola non sa più che pesci pigliare

Il Gran Consiglio zurighese ha recentemente modificato la sua legge scolastica: chiamato ad esprimersi sulle sanzioni da adottare nei confronti degli scolari più indisciplinati, il parlamento ha inasprito le norme sull’espulsione, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. «L’associazione dei docenti zurighesi, categoria alle prese con un numero crescente di casi difficili, ha accolto la riforma favorevolmente». Fin qui la notizia. Stupisce l’amplificazione della sanzione, che suggerisce come il limite precedente di un mesetto scarso aveva manifestato tutta la sua inefficacia. Durante un’interessante serata proposta recentemente a Locarno dall’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale, sul tema degli insegnanti in difficoltà, l’illustre pedagogista francese Philippe Meirieu ha osservato, con una certa arguzia, che a scuola non è mai mancata l’occasione per annoiarsi. Solo che una volta ci si annoiava educatamente, mentre oggi è facile che il tedio si manifesti con comportamenti aggressivi contro l’insegnante, i compagni e le cose. È però chiaro che una sanzione, come l’allontanamento, perde tutto il suo potere dissuasivo nel momento in cui il colpevole non riconosce più come importante il fatto di frequentare la scuola, e magari di imparare e riuscire nello studio. Vi sono senz’altro delle cause interne alla scuola stessa; ma è anche abbastanza evidente che al giorno d’oggi il sapere, la cultura, la riuscita negli studi non sono più valori socialmente spendibili e riconosciuti. Per affermarsi come cittadino adulto sono altri i valori veicolati dalla società: la furbizia, la disinvoltura, l’aggressività, la faccia tosta, un bel corpo. Ci sono professioni che rendono ricchi senza bisogno di far capo agli inutili orpelli della conoscenza e della cultura. Come se non bastasse, ci si potrebbe chiedere se la scuola di oggi, così utilitaristica e sempre più votata a rispondere alle esigenze del mondo economico, sia ancora in grado di produrre cultura. Eppure è questo che la scuola dovrebbe fare: produrre cultura, che è una combinazione straordinaria di nozioni e competenze.
La tradizionale punizione, che si manifesta con una gamma che va dal rimbrotto all’espulsione, è utile solo se il «colpevole» riconosce il progetto della scuola e vi aderisce. Paradossalmente il fatto di allontanare un allievo dalla scuola perché la prende a calci finisce col rendergli un favore e magari creargli l’aura di eroe di fronte ai suoi pari. Certo, la classe ritroverà un po’ di tranquillità; nel contempo l’espulso dedurrà che la frequenza non è poi così importante e costruirà egli stesso la sua scuola: quella dell’arte di arrangiarsi che, in condizioni estreme di esclusione sociale (e assai spesso, in questi casi, familiare), può facilmente spianare la strada verso la criminalità. E allora? Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se il rimedio non potrebbe risiedere in un intelligente supplemento di scuola, proprio per evidenziarne l’importanza. Rompi le scatole durante la lezione di scienze, ti dai al turpiloquio e fai lo scemo, insulti l’insegnante e, perché no?, lo aggredisci fisicamente? Va bene. Ti condanno a seguire un corso parallelo di filosofia, di letteratura, di storia, di diritto e di storia dell’arte. Non ti farò esami e non ti darò note, non sarà un corso che avrà ricadute dirette sulla pagella. Però, ragazzo mio, ti obbligherò a stare un po’ di ore sui libri, ti farò scrivere e pensare, discuterò con te, cercherò di capire da dove vengono la tua avversione e il tuo odio. Il tutto potrebbe durare anche più dei tre mesi della sospensione; ma, come minimo, non sarai stato in giro a oziare e a delinquere. Insomma: se la scuola è una cosa seria, tanto vale essere conseguenti e credere fermamente che nessuno possa essere condannato prima del tempo a restare una bestia. La scuola pubblica deve educare e integrare, invece di decretare l’emarginazione di chi, solitamente, emarginato lo è già.

L’ineffabile indifferenza alle differenze

Checché ne dicano i tanti darwinisti dell’educazione, diffusi anche da noi, uno dei problemi principali della scuola dell’obbligo resta quello della lotta all’insuccesso scolastico. Com’è noto ai più, fallire la scuola elementare o media non è solo una questione di materia grigia: lo si sa quasi da sempre che più si scende la scala sociale, più ci si avvicina alla possibile bocciatura, indipendentemente dal quoziente intellettivo. Non tutti nascono con la camicia, e già quella è scalogna. Ma al tracollo possono contribuire cattivi insegnanti, maestri particolarmente selettivi e insensibili alle necessità dei singoli; oppure ancora motivi strutturali, tra i quali si citano, non sempre a proposito, il numero di allievi per classe o la presenza di insegnanti speciali, come il docente d’appoggio o quello di sostegno pedagogico. Onestamente, però, non è lecito individuare un unico aspetto attorno al quale erigere tutta l’impalcatura per sconfiggere l’insuccesso scolastico. Un maestro incapace e/o pelandrone resterà tale con quindici o con venticinque allievi. Eppure la tendenza generale continua a dividersi in due fazioni distinte: di qua vi sono coloro che auspicano un bel salto nel passato, quando il figlio dell’avvocato poteva solo avere successo, mentre quello dello spazzino stava lì a boccheggiare, senza riuscire a colmare il distacco. Di là, invece, c’è la schiera di quelli che, incuranti delle tante variabili in gioco, risolverebbero tutto con misure strutturali: la diminuzione del numero di allievi per classe, il potenziamento del sostegno pedagogico, la lotta alle pluriclassi e via elencando.
A partire dagli anni ’70 il Canton Ginevra si era mosso proprio nella direzione che molti vorrebbero imboccare anche in Ticino. Forte di un consenso diffuso tra operatori scolastici, uomini politici e genitori, Ginevra aveva avviato un’importante riforma delle sue scuole elementari, caratterizzata da una significativa diminuzione del numero di allievi per classe e da un altrettanto notevole potenziamento del servizio di sostegno pedagogico. Vent’anni dopo, tuttavia, il Servizio della ricerca sociologica aveva constatato che l’insuccesso scolastico era diminuito solo in maniera molto parziale e che, inoltre, la percentuale dei bocciati socialmente fragili era addirittura aumentata. La ricerca è del 1993 e il suo direttore, Walo Hutmacher, l’aveva pubblicata con un titolo emblematico: «Quand la réalité résiste à la lutte contre l’échec scolaire». È un problema di indifferenza alle differenze, come aveva già notato il sociologo Pierre Bourdieu nel 1966, che si insinua come un sassolino tra gli ingranaggi delle pari opportunità e li blocca: fingendo che non esistano delle eredità sociali e che, di conseguenza, tutti abbiano diritto al medesimo insegnamento, la scuola fabbrica riuscite e fallimenti scolastici senza la capacità di correggere le disparità preesistenti sin dalla nascita. Già avevo scritto dell’iniqua richiesta di diminuzione generalizzata del numero di allievi per classe, pretesa dall’iniziativa popolare «Aiutiamo le scuole comunali» (CdT del 7.10.09). Lo stesso discorso vale per il potenziamento, essenzialmente quantitativo, del sostegno pedagogico, una riforma su cui sta lavorando il Dipartimento e che, con buona probabilità, sarà una realtà in tempi brevi. Credere che questa ristrutturazione accrescerà in modo sostanziale la qualità della nostra scuola è come minimo un’ingenuità: nelle scuole che non ne hanno bisogno aumenterà la segnalazione di allievi in (presunta) difficoltà, mentre in altre si continuerà a fare quel che si può. Si tratta, ancora una volta, di un mal inteso senso dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Insomma, siamo di nuovo all’inveterata indifferenza alle differenze, che porterà oneri finanziari in più, aumenterà le disparità sociali e lascerà immutato il problema originario, quello della lotta all’insuccesso scolastico: che non bastona quasi mai a caso e che continuerà a generare costi di ogni tipo.


L’articolo è stato pubblicato sul Corriere del Ticino col titolo Un mal inteso senso delle pari opportunità.