Archivi tag: Indifferenza alle differenze

Se la sensibilità ecologica non attecchisce a scuola

Settecentrotrentaquattro.

Scritto così, in lettere, fa impressione. Sono i candidati che vorrebbero diventare parlamentari della nostra piccola Repubblica. Solo novanta, sparpagliati in una quindicina di liste, saranno eletti. Gli elettori, nel difficile momento della scelta, non potranno dire che mancavano le alternative. C’è da sperare che, da qui al 7 aprile, non si mettano tutti a scrivere su giornali e portali, tanto già oggi gli autori superano il numero dei lettori, con buona pace del dibattito. Anche nel caso delle elezioni, proprio come a scuola, ci saranno gli ultimi della classe, ma non è detto che siano davvero i peggiori. Gli elettori sono come i maestri, ognuno ha il suo metro per valutare. Così può succedere che gli ultimi siano i primi. E arrivare ultimo non è mai piacevole.

Quest’anno, al di là delle emergenze ambientali, che sono reali, va di moda il verde. Quasi un quarto delle liste si rifanno al verde. C’è l’imbarazzo della scelta: ci sono i verdi liberali e quelli del Ticino, oltre alla lega verde. Verde è il colore della Lega, e varie sfumature di verde attraversano, tanto o poco, i partiti borghesi, oltre ad alcune liste di sinistra in ordine sparso. Capita però che tutta questa sensibilità ecologica si fermi sulla soglia della scuola dell’obbligo. Non sarà un caso che Falò, il settimanale d’informazione della Rsi, si sia occupato recentemente di scuola media: «Pressione, ansia e stress è ciò che subiscono molti ragazzi delle scuole medie ticinesi. La causa? Il sistema dei livelli A e B, i corsi attitudinali e base». Aggiungerei: piani di studio tronfi e ingannevoli. È la logica conseguenza dell’idea che ci si fa oggi della scuola: bisogna premiare il merito sin dalla più tenera età, i migliori avanzino negli studi, gli altri che abbraccino un apprendistato, che – si dice – non è una formazione di serie B. Ancora Falò: «Chi ha una licenza con i livelli B, dopo la scuola dell’obbligo si trova di fronte molte porte chiuse, fra cui anche quelle dell’apprendistato». Non ci sono santi che tengono – strepitano i nuovi fondatori della scuola che verrà – ci si deve abituare sin da piccoli a sopravvivere e a competere, perché, là fuori, il mondo è una giungla. Poi ci si dimentica di aggiungere che nella giungla i predatori sono più dei predati, e i più fragili sono i primi a soccombere.

Da qualche anno c’è il dibattito sul lupo, che sta mettendo su famiglia in Ticino. Ovvio che tutti abbiano la loro idea, soprattutto perché la gran parte di quei tutti ha una conoscenza dei lupi simile a quella in meccanica quantistica o in geometria frattale. Nel contempo nessuno, nei consessi politici e sindacali, si occupa della predazione istituzionale che avviene in troppe aule scolastiche. Perché, citando Edgar Morin, non si è più in grado di resistere alla pressione del pensiero econocratico e tecnocratico, attraverso la difesa e la promozione della cultura, che esige il superamento della separazione fra scienze e cultura umanistica. Chi ha una concezione ecologica del mondo dovrebbe impegnarsi affinché dentro le aule scolastiche ognuno abbia il diritto di sbagliare, o di non capire immediatamente le cose, magari solo perché non ha avuto la fortuna di avere il grado di maturazione previsto dalla scienza statistica in quel preciso momento. O di essere nato senza la camicia. Intanto quei quattro gatti di lupi ticinesi sono degni di lunghi dibattiti, anche se, quando azzannano qualche pecora, lo Stato rimborsa i contadini.


Si può rivedere il servizio del settimanale d’informazione della Rsi: Livelli da stress, di Katia Ranzanici, 21.02.2019


La citazione esatta di Edgar Morin è questa: Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero econocratico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica.

EDGAR MORIN, Insegnare a vivere – Manifesto per cambiare l’educazione, 2015, Milano: Raffaello Cortina Editore | Titolo originale: «Enseigner à vivre», 2014

L’unico e fondamentale senso della scuola dell’obbligo

Ci sono espressioni che, ogni tanto, conviene circostanziare e rammentare, sennò si rischia di chiacchierare a vanvera: io ti dico A e tu interpreti Z, benché l’espressione sia sempre quella. È un po’ come l’aggettivo «solare», che va molto di moda da qualche tempo nei curriculum vitae: «Sono una ragazza solare», e vattelapesca cosa significa. Da circa un ventennio si è scoperto che «La scuola è un’istituzione» (continuazione: e non un servizio), un’affermazione che si incontra abbastanza di frequente, una specie di monito: «Attento a te, guarda che la scuola è un’istituzione!». Allora ci riprovo, alla partenza della campagna elettorale che rinnoverà gli organi politici della Repubblica, con la certezza che se ne sentiranno delle belle.

La scuola, infatti, non è un servizio, come lo sono la distribuzione dell’elettricità, la raccolta dei rifiuti, la gestione della rete viaria, la posta o la ferrovia. Molti godono del marchio di «servizio pubblico» – e un qualcuno, una volta, lo era per davvero, benché poi sia stato messo sul mercato, e buona notte al secchio. Ci sono invece dei compiti che oltrepassano la semplice funzione di offrire un servizio, sotto forma di prestazione a pagamento diretto. Le votazioni su La scuola che verrà, il Salmo svizzero o l’educazione alla cittadinanza hanno mostrato due cose: che anche ai supposti «addetti ai lavori» ogni tanto manca l’ABC dei processi che fanno funzionare l’apprendimento (e, conseguentemente, l’insegnamento); e che si vuole una scuola che istruisca e che svolga compiti di selezione precoce.

Se la scuola che oggi prevale nelle idee della maggioranza è questa, allora siamo di fronte a un servizio, vale a dire a un organismo che fornisce un prodotto o una prestazione. È seccante doverlo ripetere, ma la scuola dell’obbligo dovrebbe avere lo stesso valore politico e culturale della giustizia e dell’esercito, vale a dire istituzioni che non possono perseguire interessi individuali. L’educazione non può ubbidire a leggi di mercato, così come i giudici non devono soggiacere alla soddisfazione dei condannati; deve invece rispondere a principi specifici, definiti dai primi articoli della legge della scuola. La scuola dell’obbligo è diversa dalle scuole che vengono dopo. Essa non deve formare medici e idraulici, architetti e falegnami, maestri e bancari, tutti, possibilmente, di alto livello; ma ha un obiettivo diverso e più nobile, quello di gettare le basi per educare i cittadini di domani.

L’educazione non è disgiunta dalla conoscenza e dall’istruzione. È incomprensibile che ci si ostini a sostenere che senza la meritocrazia, applicata coi voti scolastici, sia impossibile «fare scuola» senza diminuirne il livello. Quando lo Stato decide che tutte le persone tra i quattro e i quindici anni devono – devono! – andare a scuola, non può limitarsi a inseguire la selezione delle menti scolasticamente più leste. Il suo compito è invece quello di fare in modo che ogni ragazzo possa raggiungere il massimo delle sue possibilità culturali e intellettive entro i quindici anni, nel contesto sociale, famigliare, economico e culturale in cui sta crescendo. Se lo Stato non è in grado di garantire ciò e sceglie invece, per mezzo della scuola pubblica e obbligatoria, di ridursi a sancire la rapidità e i picchi più alti dei successi scolastici, tanto vale metterla sul mercato: costa meno, non crea illusioni né recriminazioni antipatiche ed egoiste, e si può sempre cambiare. Insomma: soddisfatti o rimborsati.

Serenità, tempo, diritto: le parole perdute della scuola

Non è, di per sé, che mi spiaccia fare gli auguri, e nemmeno lo sento come un dovere più o meno conveniente. Però ci sono date con un sapore simbolico più gradevole di altre. Il passaggio da un anno al successivo è una di queste.


Nei giorni sotto Natale è circolata nei media l’originale iniziativa didattica di un’insegnante di lettere di una scuola secondaria dalle parti di Lodi. Per i suoi allievi ha avuto un’idea insolita: la rubrica delle parole perdute. Gli ultimi cinque minuti di lezione – racconta – ho deciso di impiegarli ricordando termini di scrittori del passato (da Dante ad Alessandro Manzoni) o andati ormai in disuso. Chiedo loro di memorizzarli e contestualizzarli. Il massimo per i miei alunni era citare i versi dei rapper del momento; io, invece, batto sull’antico. All’inizio erano perplessi, poi hanno iniziato a incuriosirsi, a divertirsi e a creare frasi, fino a quando una mattina un alunno si è “dichiarato” a una sua compagna affermando: “La tua presenza è alcinesca”. L’aggettivo alcinesco vuol dire attraente. In quel momento ho capito che la mia iniziativa stava funzionando.

Ne ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 23 dicembre (“Le parole che fanno crescere”):

In un tempo in cui il vocabolario viene sfregiato dalle volgarità e dalle sciatterie di politici cialtroni e volgari nonché dall’esibizionismo anglofilo, quello della prof. De Luca è un gesto quasi eroico. Proporre ai ragazzi di aggiungere al loro repertorio lessicale parole inconsuete e strane, significa opporsi a quella che Pasolini, sin dagli anni 70, intravedeva profeticamente come omologazione culturale da civiltà totalitaria. E non è facile, visto che spessò l’educazione «sentimentale» giovanile è improntata al turpiloquio finto trasgressivo e finto maledetto di tanto rap o trap commerciale […]. La lingua ha un’infinità di risorse: è un deposito di storie (le etimologie sono intrecci straordinari come i migliori romanzi), un patrimonio di potenzialità creative con cui si può anche giocare, ed è il più ricco arsenale di armi (non da fuoco!) con cui farsi valere. La Prof. De Luca ha capito, probabilmente, che con l’aria che tira la prima educazione civica è quella linguistica.

ALFRED SISLEY – «Le Chemin de Montbuisson à Louveciennes», 1875, Huile sur toile (cm 46 x 61), Paris: Musée de l’Orangerie

Anche la scuola ha il suo elenco di parole perdute. Di alcune non si sente la mancanza, anche se il mondo è pieno di nostalgici – Si stava meglio quando si stava peggio!, e quattro scapaccioni erano più pedagogici di tante manfrine. No, grazie.

Ci sono invece parole che si dovrebbero recuperare, parole che arrivano da tanto tempo fa. Una, ad esempio, è tempo, una parola che ci riporta a Jean-Jacques Rousseau.

Émile ou de l’éducation, par Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, 1762: Amsterdam, chez Lean Néaulme, Libraire | Tome premier, Livre second, pp. 191-2

Così la filosofa Lina Bertola:

(…) se l’educarsi è un divenire ciò che si è, un viaggio verso sé stessi, la scuola per educare deve anche saper resistere. Resistere alle esigenze sempre più pressanti di un mercato che richiede prestazioni, inducendo a sacrificare la pienezza dell’essere allo sviluppo delle capacità di funzionare bene. Ma per educarsi occorre tempo (…). Nell’educazione di Emilio bisogna in un certo senso perdere tempo, non essere impazienti di vedere nel fanciullo l’uomo. Grande idea: perdere tempo, lasciarlo scorrere il tempo, attraversarlo con calma, come richiede l’ascolto di un sentimento, il filo di un ragionamento, la trama di un pensiero e di un racconto che sappia diventare esperienza di sé nell’ordine del senso. Bella idea per contrastare una scuola che senza il tempo non può educare. Per contrastare una scuola frettolosa e un po’ disorientata che rincorrendo performances di ogni genere arriva perfino a pensare di anticipare le scelte per migliorare la sua qualità.[Rousseau e l’educazione, RSI Rete 2, giugno 2012].

Sì, tempo è una parola da togliere dalla soffitta, perché suggerisce altre parole da rimettere in piena forma, come serenità, affinché la scuola sia un ambiente protetto, dove si possa crescere e imparare perché si percepiscono la fiducia e il rispetto. O come diritto, altra parola che ha radici millenarie, perché la vita nell’aula deve offrire a tutti la certezza del diritto, al riparo da ogni vessazione, contro l’indifferenza alle differenze, e con la scelta precisa di «passare dal mito delle pari opportunità al diritto all’educazione per tutti».

Anche nella scuola ci sono le parole perdute e sarebbe bello se qualcuno cominciasse a riportarle in vita, dentro le aule della scuola dell’obbligo e negli spazi di formazione degli insegnanti.

È il mio augurio per il 2019.

Cambiare la scuola per davvero? Pura fantascienza

Finalmente è passato. Il referendum sulla «Scuola che verrà», intendo, quella del ministro Bertoli, una riforma nata male, poco prima della votazione del 2015 per rinnovare esecutivo e legislativo della Repubblica, e affossata a pieni voti, nell’indifferenza di gran parte della popolazione, a pochi mesi dalle politiche dell’anno prossimo. I politologi nostrani dicono che il voto del 23 settembre si ripercuoterà sulle ripartizioni del Consiglio di stato e del Gran consiglio. Sarebbe come dire che, per una volta, la scuola dell’obbligo ha avuto un’influenza palpabile su un paese normalmente sonnacchioso.

Non ho mai nascosto che la vera riforma sarebbe stata quella presentata nel 2014: quella sì, puntava a una Scuola più giusta; non ci sarebbe neanche stato il referendum, perché, è inutile girarci intorno, sarebbe stata affossata dal parlamento, con una maggioranza bulgara.

Morale della favola: la scuola non si tocca, al massimo la si ritocca, con aggiustamenti di piccolo o medio cabotaggio. A resistere, sotto sotto, sono ancora la scuola maggiore e il ginnasio, teoricamente aboliti quarant’anni fa, ma, in realtà, mimetizzati tra i livelli della scuola media, pronti a balzare sulle prede più deboli e sprovvedute. Ecco perché tanti, ma proprio tanti, vorrebbero dei livelli di selezione più efficaci e tempestivi. Ero già rimasto meravigliato quando, non tanto tempo fa, il francese era stato retrocesso in serie B: da lingua armata della scuola media a semplice comparsa, vaso di terracotta in compagnia di molti vasi di ferro. Il cambiamento era avvenuto talmente in fretta, che mi ero chiesto se non fosse stato perché, magari, tanti docenti di francese erano lì lì per andare in pensione.

Alla fine sono queste le cose che contano. Nella scuola le lobby disciplinari hanno una potenza a cui non si sfugge. Si sa, anche se nessuno lo dice, che certe scelte di politica scolastica devono fare i conti con la tradizione e con una difesa interna assai autoreferenziale. Poniamo, per fare un esempio, che un giorno lo Stato decida di diminuire le ore settimanali di italiano, per far posto alla storia dell’arte o al diritto. Va da sé: calerebbe il fabbisogno di insegnanti di italiano. Quindi? C’è qualcuno che è davvero convinto che la riforma passerebbe, al di là dell’indubbia utilità di questa scelta per l’educazione dei futuri cittadini?

Il presidente dell’UDC, che coi suoi omologhi aveva promosso il referendum, gongola. «I fautori del no alla Scuola che verrà – ha annotato – hanno sempre affermato senza equivoci, che il no non è un no alla riforma scolastica, ma un no a quella proposta». Così, ecco già all’indomani un’iniziativa parlamentare che mette lì la sua rivoluzione copernicana del sistema scolastico: sessantun punti, irrinunciabili ma negoziabili. C’è di tutto. Ma c’è, in particolare, che si vuole una scuola ben diversa da questa, il che, di per sé, non sarebbe un male. È quel che vorrebbero un po’ tutti, anche se alla rinfusa. Però tranquilli, non succederà nulla, perché i gattopardi sono sempre all’erta. Quei medesimi addetti ai lavori che, nelle scorse settimane, erano montati sul pulpito per dire che non si potevano condividere le idee così «ideologiche» del progetto di Bertoli, domani getteranno sul piatto altri cavilli. Lascia stare la mia scuola, insomma. D’accordo, siamo andati sulla Luna, forse andremo addirittura su Marte, e Trump è presidente degli Stati Uniti: cose incredibili. Ma cambiare la scuola è al di là della fantascienza.

Quando la diagnosi è impeccabile, mentre la terapia proposta aggrava la malattia

L’editoriale della Revue des deux mondes del 10 luglio 2018, a firma Valérie Toranian, riprende alcuni dati particolarmente sorprendenti di un’inchiesta nazionale denominata Fractures françaises.

«Il 46% dei giovani tra 18 e 35 anni – scrive la Toranian – è del parere che altri sistemi politici siano altrettanto validi della democrazia.»

«I risultati si possono riassumere così: più alti sono il livello di formazione e l’età, meno si mette in dubbio il valore della democrazia. Minore è il livello di formazione, più si appartiene agli svantaggiati e alle categorie popolari, più si relativizza il valore della democrazia».

«L’attaccamento alla democrazia si nutre di conoscenza, riferimenti trasmessi dagli anziani. Senza questo ancoraggio fondamentale si passa dal disinteresse alla politica in generale alla relativizzazione della democrazia stessa», osserva ancora la giornalista. Che fare, dunque? L’articolo propone un sunto delle soluzioni della politica, in particolare quelle del presidente Emmanuel Macron, che il 9 luglio si era rivolto al Parlamento francese riunito a congresso a Versailles (si veda, ad esempio, Congrès de Versailles : Macron théorise un social très libéral, su Libération. Si può trovare qui una copia dell’articolo).

Niente di nuovo sotto il sole, si direbbe scorrendo diversi passaggi del suo discorso: «In Francia si sono insediate le disuguaglianze del destino: a seconda di dove si è nati, della famiglia in cui si è cresciuti, della scuola frequentata, la sorte è assai spesso blindata. Queste disuguaglianze del destino, durante gli ultimi 30 anni, nel nostro paese sono progredite , che lo si voglia vedere o no». (Nel sito dell’Élysée si può leggere il discorso integrale di Macron: Discours du Président de la République devant le Parlement réuni en Congrès à Versailles).

Diffido sempre più delle teorie che vogliono essere sociali e, nel contempo, liberali. Addirittura molto liberali, aggettivo che,  da un po’ di anni in qua, nasconde e si mescola con liberista. Di solito si tratta di un’ammucchiata di contraddizioni: qualche intervento strutturale, tanta meritocrazia per docenti e allievi/studenti; è noto che il merito, come il mercato, sistema quasi naturalmente tante faccende. Per restare a Macron, ma non è il solo: tutti hanno «sa jambe gauche», da esibire sui pulpiti della politica. Una volta, almeno, c’erano i Radicali, ma non si sa dove sono finiti. Forse il compito era troppo complicato.

La morale della favola macronienne sembra persino scontata: la diagnosi è ineccepibile. Selon l’endroit où vous êtes né, la famille dans laquelle vous avez grandi, l’école que vous avez fréquentée, votre sort est le plus souvent scellé. La cura proposta predica l’esatto contrario. In effetti il paragrafo successivo recita:

Et pour moi, c’est cela qui m’obsède, le modèle français de notre siècle. Le réel modèle social de notre pays doit choisir de s’attaquer aux racines profondes des inégalités de destin, celles qui sont décidées avant même notre naissance, qui favorisent insidieusement les uns et défavorisent inexorablement les autres sans que cela se voie, sans que cela s’avoue. Le modèle français que je veux défendre exige que ce ne soient plus la naissance, la chance ou les réseaux qui commandent la situation sociale, mais les talents, l’effort, le mérite.

Splendida ossessione, ma se ne può fare a meno.

Facendo il verso a Flaiano (Ho poche idee, ma confuse), siamo davanti a un mucchio di idee, una più confusa dell’altra. Eppure c’è poco da sfottere Monsieur le Président de la République, perché senza le valutazioni reiterate e imprescindibili – tempo sottratto all’insegnamento, diceva Don Milani – la scuola repubblicana, quindi anche la nostra, non è in grado di assolvere i suoi compiti costituzionali.

Lo diceva già uno dei nostri maestri più importanti, John Dewey, che in Democrazia e educazione, un libro del 1916, scriveva:

Sul piano educativo notiamo […] che la realizzazione di una forma di vita sociale nella quale gli interessi si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non abbiano ragione di esserlo le altre comunità in un’educazione deliberata e sistematica. La devozione della democrazia all’educazione è un fatto ben noto. La spiegazione superficiale è che un governo che dipende dal suffragio popolare non può prosperare se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono educati. Poiché una società democratica ripudia il principio dell’autorità esterna, deve trovarle un surrogato nelle disposizioni e nell’interesse volontari; e questi possono essere creati solamente dall’educazione. Ma vi è una spiegazione più profonda. La democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività.

E se la scuola moderna cominciasse finalmente a insegnare?


La citazione di John Dewey (1859-1952) è tratta dalla 4ª ristampa (1972) di Democrazia e educazione, nella traduzione di Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano (Prima edizione italiana, 1949, Firenze: La nuova Italia editrice).


L’inchiesta Fractures françaises 2018 può essere scaricata qui.

Al di là dell’aspetto scolastico, educativo e formativo di cui ho parlato, il rapporto contiene un’infinità di altri indicatori sulla percezione della situazione della Francia, sui valori dei francesi, sul loro rapporto col sistema politico e sulla loro percezione dell’Unione europea.

Va da sé che ogni riferimento a fatti, percezioni o circostanze che riguardano paesi europei che non siano la Francia non sono per nulla casuali.