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Cambiare la scuola per davvero? Pura fantascienza

Finalmente è passato. Il referendum sulla «Scuola che verrà», intendo, quella del ministro Bertoli, una riforma nata male, poco prima della votazione del 2015 per rinnovare esecutivo e legislativo della Repubblica, e affossata a pieni voti, nell’indifferenza di gran parte della popolazione, a pochi mesi dalle politiche dell’anno prossimo. I politologi nostrani dicono che il voto del 23 settembre si ripercuoterà sulle ripartizioni del Consiglio di stato e del Gran consiglio. Sarebbe come dire che, per una volta, la scuola dell’obbligo ha avuto un’influenza palpabile su un paese normalmente sonnacchioso.

Non ho mai nascosto che la vera riforma sarebbe stata quella presentata nel 2014: quella sì, puntava a una Scuola più giusta; non ci sarebbe neanche stato il referendum, perché, è inutile girarci intorno, sarebbe stata affossata dal parlamento, con una maggioranza bulgara.

Morale della favola: la scuola non si tocca, al massimo la si ritocca, con aggiustamenti di piccolo o medio cabotaggio. A resistere, sotto sotto, sono ancora la scuola maggiore e il ginnasio, teoricamente aboliti quarant’anni fa, ma, in realtà, mimetizzati tra i livelli della scuola media, pronti a balzare sulle prede più deboli e sprovvedute. Ecco perché tanti, ma proprio tanti, vorrebbero dei livelli di selezione più efficaci e tempestivi. Ero già rimasto meravigliato quando, non tanto tempo fa, il francese era stato retrocesso in serie B: da lingua armata della scuola media a semplice comparsa, vaso di terracotta in compagnia di molti vasi di ferro. Il cambiamento era avvenuto talmente in fretta, che mi ero chiesto se non fosse stato perché, magari, tanti docenti di francese erano lì lì per andare in pensione.

Alla fine sono queste le cose che contano. Nella scuola le lobby disciplinari hanno una potenza a cui non si sfugge. Si sa, anche se nessuno lo dice, che certe scelte di politica scolastica devono fare i conti con la tradizione e con una difesa interna assai autoreferenziale. Poniamo, per fare un esempio, che un giorno lo Stato decida di diminuire le ore settimanali di italiano, per far posto alla storia dell’arte o al diritto. Va da sé: calerebbe il fabbisogno di insegnanti di italiano. Quindi? C’è qualcuno che è davvero convinto che la riforma passerebbe, al di là dell’indubbia utilità di questa scelta per l’educazione dei futuri cittadini?

Il presidente dell’UDC, che coi suoi omologhi aveva promosso il referendum, gongola. «I fautori del no alla Scuola che verrà – ha annotato – hanno sempre affermato senza equivoci, che il no non è un no alla riforma scolastica, ma un no a quella proposta». Così, ecco già all’indomani un’iniziativa parlamentare che mette lì la sua rivoluzione copernicana del sistema scolastico: sessantun punti, irrinunciabili ma negoziabili. C’è di tutto. Ma c’è, in particolare, che si vuole una scuola ben diversa da questa, il che, di per sé, non sarebbe un male. È quel che vorrebbero un po’ tutti, anche se alla rinfusa. Però tranquilli, non succederà nulla, perché i gattopardi sono sempre all’erta. Quei medesimi addetti ai lavori che, nelle scorse settimane, erano montati sul pulpito per dire che non si potevano condividere le idee così «ideologiche» del progetto di Bertoli, domani getteranno sul piatto altri cavilli. Lascia stare la mia scuola, insomma. D’accordo, siamo andati sulla Luna, forse andremo addirittura su Marte, e Trump è presidente degli Stati Uniti: cose incredibili. Ma cambiare la scuola è al di là della fantascienza.

Quando la diagnosi è impeccabile, mentre la terapia proposta aggrava la malattia

L’editoriale della Revue des deux mondes del 10 luglio 2018, a firma Valérie Toranian, riprende alcuni dati particolarmente sorprendenti di un’inchiesta nazionale denominata Fractures françaises.

«Il 46% dei giovani tra 18 e 35 anni – scrive la Toranian – è del parere che altri sistemi politici siano altrettanto validi della democrazia.»

«I risultati si possono riassumere così: più alti sono il livello di formazione e l’età, meno si mette in dubbio il valore della democrazia. Minore è il livello di formazione, più si appartiene agli svantaggiati e alle categorie popolari, più si relativizza il valore della democrazia».

«L’attaccamento alla democrazia si nutre di conoscenza, riferimenti trasmessi dagli anziani. Senza questo ancoraggio fondamentale si passa dal disinteresse alla politica in generale alla relativizzazione della democrazia stessa», osserva ancora la giornalista. Che fare, dunque? L’articolo propone un sunto delle soluzioni della politica, in particolare quelle del presidente Emmanuel Macron, che il 9 luglio si era rivolto al Parlamento francese riunito a congresso a Versailles (si veda, ad esempio, Congrès de Versailles : Macron théorise un social très libéral, su Libération. Si può trovare qui una copia dell’articolo).

Niente di nuovo sotto il sole, si direbbe scorrendo diversi passaggi del suo discorso: «In Francia si sono insediate le disuguaglianze del destino: a seconda di dove si è nati, della famiglia in cui si è cresciuti, della scuola frequentata, la sorte è assai spesso blindata. Queste disuguaglianze del destino, durante gli ultimi 30 anni, nel nostro paese sono progredite , che lo si voglia vedere o no». (Nel sito dell’Élysée si può leggere il discorso integrale di Macron: Discours du Président de la République devant le Parlement réuni en Congrès à Versailles).

Diffido sempre più delle teorie che vogliono essere sociali e, nel contempo, liberali. Addirittura molto liberali, aggettivo che,  da un po’ di anni in qua, nasconde e si mescola con liberista. Di solito si tratta di un’ammucchiata di contraddizioni: qualche intervento strutturale, tanta meritocrazia per docenti e allievi/studenti; è noto che il merito, come il mercato, sistema quasi naturalmente tante faccende. Per restare a Macron, ma non è il solo: tutti hanno «sa jambe gauche», da esibire sui pulpiti della politica. Una volta, almeno, c’erano i Radicali, ma non si sa dove sono finiti. Forse il compito era troppo complicato.

La morale della favola macronienne sembra persino scontata: la diagnosi è ineccepibile. Selon l’endroit où vous êtes né, la famille dans laquelle vous avez grandi, l’école que vous avez fréquentée, votre sort est le plus souvent scellé. La cura proposta predica l’esatto contrario. In effetti il paragrafo successivo recita:

Et pour moi, c’est cela qui m’obsède, le modèle français de notre siècle. Le réel modèle social de notre pays doit choisir de s’attaquer aux racines profondes des inégalités de destin, celles qui sont décidées avant même notre naissance, qui favorisent insidieusement les uns et défavorisent inexorablement les autres sans que cela se voie, sans que cela s’avoue. Le modèle français que je veux défendre exige que ce ne soient plus la naissance, la chance ou les réseaux qui commandent la situation sociale, mais les talents, l’effort, le mérite.

Splendida ossessione, ma se ne può fare a meno.

Facendo il verso a Flaiano (Ho poche idee, ma confuse), siamo davanti a un mucchio di idee, una più confusa dell’altra. Eppure c’è poco da sfottere Monsieur le Président de la République, perché senza le valutazioni reiterate e imprescindibili – tempo sottratto all’insegnamento, diceva Don Milani – la scuola repubblicana, quindi anche la nostra, non è in grado di assolvere i suoi compiti costituzionali.

Lo diceva già uno dei nostri maestri più importanti, John Dewey, che in Democrazia e educazione, un libro del 1916, scriveva:

Sul piano educativo notiamo […] che la realizzazione di una forma di vita sociale nella quale gli interessi si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non abbiano ragione di esserlo le altre comunità in un’educazione deliberata e sistematica. La devozione della democrazia all’educazione è un fatto ben noto. La spiegazione superficiale è che un governo che dipende dal suffragio popolare non può prosperare se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono educati. Poiché una società democratica ripudia il principio dell’autorità esterna, deve trovarle un surrogato nelle disposizioni e nell’interesse volontari; e questi possono essere creati solamente dall’educazione. Ma vi è una spiegazione più profonda. La democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività.

E se la scuola moderna cominciasse finalmente a insegnare?


La citazione di John Dewey (1859-1952) è tratta dalla 4ª ristampa (1972) di Democrazia e educazione, nella traduzione di Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano (Prima edizione italiana, 1949, Firenze: La nuova Italia editrice).


L’inchiesta Fractures françaises 2018 può essere scaricata qui.

Al di là dell’aspetto scolastico, educativo e formativo di cui ho parlato, il rapporto contiene un’infinità di altri indicatori sulla percezione della situazione della Francia, sui valori dei francesi, sul loro rapporto col sistema politico e sulla loro percezione dell’Unione europea.

Va da sé che ogni riferimento a fatti, percezioni o circostanze che riguardano paesi europei che non siano la Francia non sono per nulla casuali.

Una storia narrata fra quasi 500 anni (o forse oggi, o una trentina di anni fa)…

A mo’ di mia personale chiusura dell’anno scolastico 2017-18, propongo un testo assai ironico che il sociologo Philippe Perrenoud aveva messo come prologo al suo libro La pédagogie à l’école des différences – Fragments d’une sociologie de l’échec, (1995, Paris: ESF). La prima edizione dell’articolo è del 1982.

La traduzione italiana, del 1995, è del mo. Plinio Luconi, insegnante di scuola elementare a Locarno.

Una copia dell’edizione originale dell’articolo è visibile cliccando qui.

Buona estate a tutti.


Il trattamento intensivo delle malattie infantili sul pianeta Kafka | Memorandum all’attenzione dell’Accademia di etnografia extragalattica

di I. Van Hill Hitch, socio-esploratore indipendente

Questo documento eccezionale ci è giunto attraverso una deformazione accidentale del continuum spazio-temporale. Si presume che la proiezione della scuola nel futuro, con una compensazione imprevedibile, abbia inviato frammenti del futuro nel nostro presente (testo apparso in Textes libres Rapsodie, 1982, N° 12, p. 65-72).


Kafka è l’unico pianeta abitato di questo piccolo sistema solare. Innumerevoli specie viventi vi coesistono. La specie dominante conta alcuni miliardi di individui, che formano delle società distinte, spesso in conflitto tra loro.

Nelle società più ricche, tutti i bambini sembrano nascere affetti da una grave malattia. Non è mortale, ma, se non viene trattata per tempo, impedisce all’individuo di diventare un adulto completo.

Il trattamento è piuttosto lungo e complicato, al punto che le famiglie non sono assolutamente in grado di applicarlo per conto loro. Mi è stato riferito che se ogni bambino fosse curato nella sua famiglia da un medico, occorrerebbe un tale numero di medici che la produzione alimentare ne risentirebbe. Per questo motivo i bambini vengono ospedalizzati massicciamente. Allo scopo di non toglierli totalmente alle loro famiglie, vengono ricoverati in piccoli ospedali di giorno, ubicati in prossimità delle loro abitazioni. In queste strutture i bambini passano qualche ora il mattino e qualche altra ora il pomeriggio. A metà giornata interrompono il trattamento per un pasto in famiglia, rito molto importante in queste società.

Un tempo, solo le famiglie che lo desideravano facevano curare i figli. Molte altre non ci pensavano o ritenevano inutile la guarigione. Circa cento anni fa, a causa dell’insistenza dei medici, il trattamento fu reso obbligatorio. Da allora i genitori che rifiutano di far trattare i loro figli incorrono in gravi sanzioni.

Per ragioni che non sono riuscito a chiarire, il trattamento diventa obbligatorio a partire dall’età di sei anni, forse per lasciare i bambini il più possibile con la famiglia, nel momento in cui i genitori sono maggiormente affezionati ai loro figli. Potrebbe anche darsi che l’ospedalizzazione di bambini troppo piccoli possa essere troppo complicata. Non lo so. Le autorità consigliano alle famiglie di cominciare per conto loro il trattamento il più presto possibile. Alle famiglie vengono forniti i consigli che servono ad aiutarle a operare in questo senso. Se hanno a cuore la guarigione del figlio possono consultare un medico o decidere un’ospedalizzazione precoce, già tra i due e i quattro anni. A quest’età il ricovero non è comunque obbligatorio, ma le famiglie che non intraprendono nessun passo in questa direzione entro i sei anni sono sempre più rare, e passano come irresponsabili agli occhi del vicinato.

Il trattamento richiede diversi anni, almeno nove. I primi sei anni sono identici per tutti i bambini, a eccezione di quella piccola parte di casi ritenuti più gravi e trattati in cliniche specializzate. Questa prima parte, che i medici chiamano trattamento di base, è suddivisa in sei fasi annuali. Da quando hanno sei anni, i bambini vengono ospedalizzati e viene somministrata loro la prima fase. Al termine del primo anno passano normalmente alla seconda fase, un anno più tardi alla terza, e così di seguito. Se al termine di una delle fasi annuali la malattia non è sufficientemente regredita, il medico, d’accordo con il suo capo clinica, può decidere di ripetere l’applicazione della stessa fase del trattamento. Parrebbe, insomma, che il passaggio diretto alla fase seguente non sarebbe proficuo. Ogni fase è concepita in modo da essere efficace in un preciso stadio della guarigione. Certi aspetti del trattamento sono comuni a tutte le fasi, mentre altri non riguardano che i primi anni – o, al contrario, saranno sviluppati più tardi.

Per ognuna delle fasi del trattamento di base – che dura quindi dai sei agli otto anni, in base all’evoluzione della malattia –, i bambini sono affidati a medici generalisti, formati per applicare tutte le sfaccettature del trattamento. Mi è stato riferito che prima che i trattamenti diventassero obbligatori, succedeva che un solo medico si prendesse a carico più di cento malati, a volte centocinquanta. In questo caso era assistito da una o più infermiere. Grazie al progresso tecnico nella produzione alimentare, è stato possibile destinare alcune persone attive alla medicina. Nella maggior parte degli ospedali di giorno che ho visitato, vengono affidati circa 25 malati a un solo medico, che se ne occupa tutti i giorni per tutto l’anno – insomma, quasi tutti i giorni. Dal momento che il trattamento risulta abbastanza faticoso, lo si interrompe due giorni alla settimana, e a volte anche per una o più settimane consecutive. Ho sentito molti medici lamentarsi di importanti ricadute durante questi periodi. Altri non si lamentano di avere più tempo per mangiare e dormire, o anche per formarsi a nuove terapie.

Parlando con i medici, ho potuto constatare che molti avevano l’impressione di non essere efficaci come avrebbero desiderato. Tutti sono convinti della necessità di un trattamento di lunga durata. Ma certi mettono in causa l’organizzazione ospedaliera. Si rendono conto che i bambini affidati alle loro unità di cura si situano a differenti livelli dal punto di vista della regressione della malattia. In alcuni si nota una specie di guarigione spontanea, per cui ci si potrebbe accontentare di un trattamento leggero. In altri il trattamento è stato iniziato già nella prima infanzia e i progressi sono soddisfacenti. Con altri non è ancora stato intrapreso niente e il loro stato risulta preoccupante. Malgrado ciò questi bambini diversi sono ugualmente assoggettati alla prima fase del trattamento di base non appena compiono i sei anni. Questa prima fase non giova a tutti nello stesso modo; anzi, le differenze aumentano di anno in anno. Esiste la possibilità, per una minoranza, di raddoppiare l’applicazione della stessa fase, ma tutti i medici coi quali ho parlato non hanno nascosto il loro scetticismo a questo proposito:

«Se almeno, dicono, si potesse modulare il trattamento, individualizzarlo! Ma è impossibile. Ogni caso merita una terapia adattata al suo stato, dei medicamenti particolari. Ma l’amministrazione ci assegna gli stessi medicamenti per tutti. All’inizio dell’anno, riceviamo una dotazione proporzionale all’effettivo dei nostri malati. Non esiste possibilità d’ottenere altro. Ci viene imposto un piano di trattamento molto stretto, che occorre rispettare entro la fine dell’anno. Ciò restringe la scelta dei metodi terapeutici. D’altra parte la nostra libertà su questo punto risulta parecchio teorica. I primari e i capi clinica sono ancorati a certi metodi. È a questi metodi che si limita la nostra formazione.

Se ce ne allontaniamo, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Ma ciò che ci manca è soprattutto il tempo. Dedicando due ore al giorno a ogni malato, il trattamento progredirebbe in modo ottimale. Per alcuni un’ora sarebbe largamente sufficiente, per altri occorrerebbero almeno tre ore. La guarigione sarebbe garantita in nove anni o in molto meno. Meglio non pensarci. Immaginate: i bambini più giovani vengono all’ospedale sei ore al giorno, noi dobbiamo trattare collettivamente tutto il gruppo, o per lo meno alcuni sotto gruppi. Alcuni malati sono abbastanza autonomi per curarsi quasi da soli. Altri s’aiutano. Ma succede raramente. Sapete, sono bambini. La maggior parte non si rende conto della gravità del loro stato. Durante l’infanzia e l’adolescenza non soffrono, la malattia non ha delle conseguenze. Non immaginano quanto succederà se non si fa nulla. Alcuni provano con tutti i mezzi a sottrarsi al trattamento! Bisogna riconoscere che non tutti i giorni è divertente…»

Di medici scoraggiati ne ho incontrati parecchi. Alcuni pensano che non si può far nulla con un numero così alto di malati. Altri pretendono che si organizzi il trattamento differentemente, così da poter curare tutti in meno tempo. Ma, dicono, l’amministrazione ospedaliera è soprattutto desiderosa di mettere ordine e gestire questo immenso insieme di malati e medici. Parlando in privato, certi amministratori ammettono che la separazione delle fasi di trattamento è discutibile,  e che, in ogni caso, non è vantaggiosa per ogni bambino. Riconoscono pure che certi aspetti del trattamento sono inutili per una parte degli ammalati. Ma preferiscono amministrarli comunque. Ciò evita noie con i genitori, ai quali preme che i loro figli guariscano. Non appena alcuni genitori sentono dire che in un ospedale non si dispensa lo stesso trattamento che negli altri, ne fanno uno scandalo. Alcuni medici, amaramente, pensano che molti loro colleghi approfittino della situazione, applicando i trattamenti standard senza troppo riflettere, redigono periodicamente i loro rapporti e si dicono che, dopotutto, quando una malattia è così generalizzata, non si può pretendere di guarire tutti.

Altri, per contro, pensano che li si tratti da utopisti e sognatori, pretendono che adattando veramente i trattamenti ai malati, sarebbe possibile guarire tutti, e in ogni caso evitare, dopo i sei anni di trattamento di base, di indirizzare i malati verso le varie trafile di cure differenti.

Bisogna sapere, in effetti, che alla fine del trattamento di base si procede all’esame dello stato di ogni giovane malato, stabilendo un pronostico. Per alcuni, si è già persa ogni speranza di guarirli completamente. Li si orienta quindi verso qualche anno di trattamento finale, che permetterà loro di sopravvivere nella società, con uno statuto inferiore e un minimo accesso ai beni alimentari o quant’altro. Per gli altri la guarigione sembra possibile o addirittura certa, e la società, in questi casi, fa uno sforzo speciale per loro. Sei anni di trattamento post «obbligatorio» – quindi al di là del trattamento base – garantiranno a coloro che ne sono degni lo status più invidiabile e il più ampio accesso al consumo.

Non tutti si rassegnano a questa gerarchia sociale ed economica, basata sul grado di guarigione; così il sistema ospedaliero è al centro di continui dibattiti. Questa società interamente medicalizzata, dove tutta l’organizzazione è retta dalla necessità di curare una malattia generalizzata, non è che una delle strane strutture che il viaggiatore interstellare incontra quando si interessa alle civiltà primitive identificate in galassie lontane. Sulla malattia stessa non posso dire molto. Non ha nulla in comune con le poche malattie rare che rimangono sul nostro pianeta.

Le poche osservazioni che ho fatto mi hanno piuttosto ricordato alcune caratteristiche dell’organizzazione della nostra società quattro o cinquecento anni fa. Mi sembra che nel XIX e XX secolo non si disponesse ancora dei mezzi d’apprendimento istantanei. L’istruzione dei bambini preoccupava gli adulti, e l’avevano organizzata un po’ alla maniera della medicina sul pianeta Kafka. Un amico storico me lo ha confermato. Quando gli ho fatto notare che guarire una malattia e educare i bambini erano delle attività decisamente poco comparabili, mi ha ricordato che i filantropi della fine del XIX secolo solevano dire: «La malattia più grave, che tocca ognuno e che bisogna curare prioritariamente, è l’ignoranza!» Beninteso, non è che un modo di dire. Nondimeno mi rifiuto di credere che, anche diversi secoli fa, sulla Terra potesse esistere un sistema così assurdo per l’educazione dei bambini! Eppure, negli ultimi cento anni in cui ho viaggiato nell’universo, ne ho viste di società bizzarre!

1° aprile 2482


Philippe Perrenoud, sociologo, dal 2009 professore onorario dell’Università di Ginevra.

Philippe Perrenoud, sociologo, è nato nel 1944 e ha conseguito il dottorato in sociologia e in antropologia. Dal 1984 al 2009 è stato chargé de cours all’Università di Ginevra; in seguito, dal 1994, è stato professore ordinario, occupandosi di curricolo, di pratiche pedagogiche e di istituti di formazione. Con Monica Gather Thurler ha fondato e animato il Laboratoire de recherche sur L’innovation en Formation et en Éducation (LIFE).

I suoi lavori sulla fabbricazione delle disuguaglianze e dell’insuccesso scolastico l’hanno portato a interessarsi del «mestiere» di allievo, delle pratiche pedagogiche, della formazione degli insegnanti, del curricolo, del funzionamento degli istituti scolastici, delle trasformazioni del sistema educativo e delle politiche dell’educazione.

[Tratto dal sito della Facoltà di Psicologia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Ginevra. La traduzione italiana è mia].

Se la scuola non detta più i ritmi quasi a nessuno

Un ex collega e amico, col quale, da un po’, non si va più molto d’accordo sulle cose scolastiche, mi ha apostrofato via posta elettronica: «Sei sicuro che la scuola sia davvero obbligatoria? Negli ultimi anni che insegnavo ho notato che, con scuse varie, c’è chi parte per le vacanze prima del termine, chi torna dopo, chi ha appuntamenti dal medico o dal dentista: l’obbligatorietà è sempre più teorica». Be’, se si guarda la scuola da questo punto di vista, ha naturalmente ragione lui. Confermo, la situazione, oggi, è quella. Questo considerare il calendario scolastico come un’indicazione generica e non come un dovere è iniziato una trentina di anni fa, dapprima nelle settimane a cavallo del Natale, complice la presenza di immigrati da posti lontani, che qua non avevano radici. Così partivano o tornavano in accordo coi loro datori di lavoro, non sempre con la scuola. Poi, piano piano, il fenomeno si è allargato e oggi, ove più ove meno, questo calendario prêt-à-porter riguarda tutto l’anno scolastico – e tante famiglie indigene.

Mio padre, che lavorava nell’edilizia, raccontava di molti muratori così iellati che, all’avvicinarsi del Natale, dovevano partire improvvisamente per il sud Italia, per stare vicini a genitori e nonni pronti a imbarcarsi per l’aldilà. Erano figli senza essere padri. È un fenomeno che, tempo dopo, ho conosciuto anch’io, da direttore di scuola. Tante famiglie provenienti dai quattro angoli del pianeta avevano i parenti più cari molto lontani, e anche loro, ogni tanto, sembravano lì lì per salpare, proprio sotto Natale. Naturalmente c’erano anche famiglie più sincere, che sfruttavano questa o quell’altra festività per organizzare una vacanza extra, e chiedevano il permesso.

Insomma, sono finiti i tempi in cui la scuola dettava i ritmi urbi et orbi. Per quasi tutto il secolo scorso il rispetto del calendario scolastico è stato totale. Il primo giorno di scuola erano tutti lì, puntuali, emozionati e lustri; e fino a metà giugno, fosse pure tra uno sbadiglio e l’altro, nessuno si sognava di inventare giustificazioni intricate per scappar via qualche giorno dalla scuola – neanche il sabato mattina, che era ancora giorno di lezioni. Ma era visibilmente un altro mondo, con una diversa organizzazione del lavoro.

È sotto gli occhi di tutti qualche evidente incongruenza. In molte località, ad esempio, una percentuale significativa di padri e madri è impiegata nell’industria turistica. La scuola, però, a metà giugno abbassa le saracinesche. Così schiere di bimbi e ragazzi trascorreranno la lunga estate in colonia e nei doposcuola, oppure in paesi a diverse ore da noi, ospiti di nonni e parenti vari. Alla riapertura della scuola torneranno in aula, stanchi ma felici di ritrovare la loro quotidianità. Poi i maestri diranno che non ricordano più nulla di quel che avevano imparato entro giugno, magari con tanta fatica. Diranno, i maestri, che i ragazzi di oggi non sanno più fissare nel tempo quel che hanno appreso. Daranno la colpa alle famiglie, che se ne infischiano, e a smartphone e tablet, che mandano alla svelta il cervello (degli altri) in pappa.

I tempi della scuola sono un altro immobilismo istituzionale che è difficile da capire, se non alla luce di un conservatorismo fine a sé stesso: si è fatto così sin dal paleolitico della scuola repubblicana; e, tra alti e bassi, eccoci qua, noi ricchi occidentali, cittadini del mondo, interconnessi l’un l’altro grazie al web. Cosa c’è che non va, dunque?

Gli obbligati scacciati, un ossimoro della scuola dell’obbligo

L’art. 6 della Legge della scuola ticinese, che risale all’ormai lontano 1990, recita, al primo paragrafo, che La frequenza della scuola è obbligatoria per tutte le persone residenti nel Cantone, dai quattro ai quindici anni di età.

La regola ha radici lontane, tanto che il Parlamento che varò la prima scuola obbligatoria di questo cantone – 4 giugno 1804 – la limitò a quattro articoli, che insistevano proprio sulla decisione di renderla obbligatoria.

Sono passati due secoli e un po’. La scuola dell’obbligo, ormai, fa parte delle consuetudini, come la grippe. Si noti il preambolo di quella legge: «… la felicità di una Repubblica ben costituita deriva principalmente dalle savie istituzioni, e da una buona educazione; mentre da uomini bene educati si può sperare ogni bene, e dalla ignoranza nascono tutt’i vizj, e disordini».

Erano le preoccupazioni di 200 anni fa.

Di quell’epoca la scuola contemporanea rammenta e tiene saldo il calendario scolastico, anche se sugli alpi e nei campi finiscono solitamente lavoratori stranieri.

Nel maggio 2011 avevo pubblicato in Fuori dall’aula, la mia rubrica sul Corriere del Ticino, un articolo che aveva preso spunto da una decisione del Parlamento zurighese, che aveva inasprito le norme sull’espulsione da adottare per gli scolari più indisciplinati, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Il titolo era un po’ sciocco – Quando la scuola non sa più che pesci pigliare – non così, mi pare, il contenuto.

Quell’invito alla riflessione mi è venuto in mente davanti al progetto La scuola che verrà. È probabile che la sperimentazione slitterà di un anno: non è ancora certo, ma è stato lanciato un referendum, si vedrà a giorni se riuscito (v. Ecco perché «La scuola che verrà» è un progetto progressista).

Stavo per scrivere che il referendum è stato lanciato da partiti e movimenti di destra e centro-destra, che ora la menano nel dire che tanti docenti hanno contribuito a raccogliere le 7’000 firme necessarie per demandare alle urne il verdetto finale. Purtroppo è vero. Ma non erano tutti progressisti, i docenti?

Ho letto, nei giorni scorsi,  l’ultimo romanzo di Petros Markaris, L’università del crimine (2018, Milano: La nave di Teseo). Mi ha colpito un ironico dialogo, a pagina 265, tipico di quest’autore non certamente di destra:

Ho fatto una scommessa con me stesso: cerco di trovare una manifestazione che non abbia come obiettivo una semplice protesta, che non venga indetta per la difesa di diritti acquisiti, ma abbia un carattere costruttivo. […] Ai miei tempi, le manifestazioni si facevano per cambiare il regime, per abbattere lo stato di polizia, per avere maggiore democrazia… Oggi le manifestazioni e i cortei si fanno perché nulla sia cambiato. Ecco quindi che vengo a vedere, con la speranza vana di trovare una manifestazione o un corteo che abbia, come obiettivo, il cambiamento.

Da un comunicato del Sindacato dei servizi pubblici e sociosanitari: I docenti VPOD danno il loro sostegno alla sperimentazione del modello dipartimentale La Scuola che Verrà. «Questo modello – scrivono in una nota stampa del 30 marzo – è il frutto di una lunga consultazione tra il Dipartimento DECS e le componenti della scuola, tra cui i sindacati. Dopo una prima stesura, che conteneva forti criticità, il DECS è stato capace di porvi rimedio, ascoltando le critiche e apportando i grossi correttivi richiesti dai docenti».

Mettere le valutazioni e la selezione in secondo piano è una criticità anche a sinistra. Chissà perché? Vattelapesca.

Siamo ancora a quel che diceva Don Milani: «Una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani».


P. S.: se poi qualcuno, giunto a questo punto, avesse ancora qualche minuto, consiglio di leggere un altro mio articolo del 2011, sempre nella stessa rubrica del medesimo quotidiano: «Pestalozzi! Chi era costui?», ruminava tra sé il giovane maestro. È un articolo correlato col primo, quello sull’espulsione degli allievi, dove si parla di Johann Heinrich Pestalozzi, quell’allievo di Jean-Jacques Rousseau che l’inclusione la sperimentò sul serio (senza dare le note).