E così anche il Canton Uri ha ceduto all’inglese, dopo aver dapprima abbracciato l’italiano come seconda lingua nella sua scuola elementare: non sono passati molti anni da quando le maestre e i maestri delle terre di Attinghausen e di Intschi calavano nel nostro Cantone nell’ambito di corsi di formazione organizzati dal loro Dipartimento dell’Istruzione. Erano simpatici, restavano a Lugano o a Locarno per qualche settimana, visitavano scuole, conoscevano la nostra realtà e chiacchieravano coi nostri maestri. Ora andranno anche loro a impratichirsi a Cambridge, assieme ai colleghi zurighesi. Non so com’è la tendenza nei cantoni di Svitto e Untervaldo – la Svizzera primigenia e ormai non più vergine – e non ho notizie dai Grigioni, che qualche anno dopo Uri avevano adottato l’italiano come seconda lingua.
Che dire, di fronte a notizie come questa? Di primo acchito che ha ragione Saverio Snider, che dalle colonne del Corriere di sabato scorso ha manifestato senza remore il suo dispiacere: «… rincresce veder naufragare in questo modo un progetto didattico e (soprattutto) culturale che aveva il pregio d’andare controcorrente. […] Il fatto è che sull’altare dell’utilitarismo si stanno compiendo nelle aule scolastiche del Paese riti assai penalizzanti per lo spirito federalista che ci ha condotti sin qui». Ma ha ragione solo di primo acchito, perché a ben guardare il vero problema è l’abbandono della lingua materna in tutte le scuole elvetiche. L’ormai famoso studio comparato Pisa 2000 aveva dimostrato come in tutta la Svizzera la lingua materna stesse andando a ramengo – ed è questo il vero fatto grave, poiché l’utilitarismo e una strana idea della comunicazione tra i popoli ci stanno trascinando, tutti insieme, sulle spiagge dell’incomprensione.
Mio figlio, mentre frequentava la scuola media, ha partecipato con la sua classe a un’attività di scambio con degli allievi del Canton Uri. Dopo l’ultimo incontro, avvenuto quaggiù in Ticino, ha ricevuto, tramite il suo insegnante, una lettera dal suo corrispondente: “Come stai? Io sto bene.” E fin qui tutto a posto: sembra una di quelle lettere degli emigranti ticinesi che dalla California scrivevano all’amata madre. Ma poi prosegue, senza nulla togliere all’immediatezza dell’epistola: “Mi ha piaciuto molto. Che cosa fai nell vacanca.”. Non che uno pretenda, da un nativo di Gurtnellen che sta imparando l’italiano, chissà quale livello letterario; ma la trascrizione, visibilmente non corretta dall’insegnante, la dice lunga sulla serietà dell’operazione, tanto più che il ragazzo proseguiva in tedesco, dopo aver raschiato il fondo del suo italiano: “Es war Scheise das man mit dem Zug 2 Stunden fahren mussten“. Mi scuso, con chi capisce l’idioma di Goethe, per la scatologica leggiadria del testo – certo non accessibile a chiunque – ma mi piace sottolineare come anche il tedesco sia alquanto sciancato.
Naturalmente non si può dire che noi stiamo meglio. Sono un assiduo lettore delle lettere ai giornali, che annoverano opinionisti occasionali accanto a firme ormai cicliche. Così l’estate scorsa mi sono imbattuto nel pistolotto morale di un ragazzo di 22 anni, che va all’università e si reputa carino, incappato in un’ordinaria storia di corna che si è sentito in dovere di raccontare all’intero Paese. Insomma: il nostro universitario – che prima di arrivare lì sarà pur passato da qualche scuola media superiore – stava con la sua ragazza “che non vorrei fare il nome, che ha preso una cotta per un altro ‘uomo’ più grande”. Fortunatamente tutt’è bene ciò che ben finisce, permettendo all’autoctono studente di “rendere partecipe altri ragazzi/e che forse stanno passando questa fase”: naturalmente a mezzo stampa e badando alla sostanza più che alla forma. Mal comune mezzo gaudio! verrebbe da strillare. Invece bisogna pur convenire che l’italiano, nella scuola del nostro Cantone, è stato relegato da tempo al rango di un qualunque gregario, tanto che a nessuno importa se si finisce all’Università (o all’Alta Scuola Pedagogica) con una competenza linguistica approssimativa.
In fondo dell’italiano ce ne siamo sbarazzati noi, prima di Uri.
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E se insegnassimo sul serio l’italiano?
Ecco un bel tema per dare inizio come si conviene al nuovo anno. Come si sa ormai da diverso tempo, l’indagine internazionale PISA ha detto che i quindicenni svizzeri non sono dei lettori particolarmente capaci (eufemismo); nella scorsa primavera sono stati divulgati anche i dati ticinesi, che non solo dimostrano come siamo legittimi figli di mamma Elvezia, ma rivelano che qui al sud la situazione è anche peggiore. Tra il mal comune e il mezzo gaudio, c’è per fortuna chi si preoccupa e – banditi autocommiserazione e fatalismo – prende metaforicamente carta e penna per illustrare la situazione e proporre delle possibili soluzioni.
È ciò che hanno fatto a metà giugno gli esperti per l’insegnamento dell’italiano nella scuola media, che sono intervenuti su “La Regione” per spiegare quelle che, secondo loro, sono le due principali cause del fiasco. La prima risiederebbe nel fatto che la nota d’italiano, a differenza di quelle di matematica e delle attuali due lingue obbligatorie (francese e tedesco), conta meno del due di picche nell’ambito dei meccanismi di passaggio facilitato alla scuola media superiore. La seconda ragione, abbarbicata alla prima, è che l’italiano è sempre insegnato a classe completa, mentre le altre tre materie godono di un insegnamento con classi più piccole, in virtù della separazione tra corsi attitudinali (per i più “bravi” che dovranno frequentare le medie superiori) e corsi di base (per i futuri apprendisti).
Non me ne vorranno gli esperti se quest’analisi mi convince solo in parte. Ad esempio, non concordo sull’ineluttabilità del parametro “numero di allievi per classe” come elemento immediato di successo o insuccesso scolastico. Per restare all’italiano nella scuola media, sono d’accordo che un laboratorio di scrittura deve poter funzionare con gruppi medio-piccoli allo scopo di ottimizzare l’intervento mediatore dell’insegnante, mentre è almeno dubbio che un elevato numero di allievi possa peggiorare l’insegnamento della lettura, dell’ascolto o dell’oralità (e senza dimenticare che vi sono pur sempre forme di funzionamento pedagogico che superano l’insegnamento cattedratico, tanto vituperato ma tutt’ora in testa all’hit parade del modo di agire di molti docenti).
È vero che in un contesto di regole del gioco basato essenzialmente sulle note, quella di italiano dovrà per forza di cose assumere un peso maggiore rispetto alla sua quotazione odierna. Per quanto mi concerne, arriverei addirittura a dire che una buona nota in italiano dev’essere la condizione irrinunciabile per entrare nella scuola media superiore (come ragionamento è l’esatto contrario di quant’era successo nei primi anni ’70 alla scuola magistrale, dove per regolamento si poteva diventare maestri anche col 3 in italiano). Ma il paradigma può reggersi in piedi solo alla condizione che l’importanza dell’italiano come lingua di cultura sussista anche dopo la scuola media, con una tensione che impregni tutto il settore post-obbligatorio (il che potrebbe anche produrre interessanti ricadute sulla scuola elementare).
Per terminare, però, non si può sorvolare con malagrazia su ‘cosa’ succede durante le ore di italiano e con quale grado di intensità. È sempre difficile generalizzare, ma l’impressione è che il poco che sarebbe possibile fare lo si faccia male e senza troppo impegno: quali letture sono proposte ai nostri allievi? Quali autori incontrano durante i quattro anni della scuola media? Leggono ancora qualche romanzo e qualche poesia oppure si fa capo ai soliti articoli di giornale e ai testi delle canzonette? Quante volte all’anno devono cimentarsi con quel meraviglioso esercizio che è la scrittura? E cosa devono scrivere? E dove: a scuola o a casa? E l’ascolto? Come si insegna a parlare, se lo si insegna? Oppure – come sempre – parla solo chi ne è già capace?
In fondo non si tratta solo di “migliorare l’immagine dell’italiano” – come scrivono i quattro esperti – bensì di insegnarlo sul serio e di riportarlo al centro delle preoccupazioni di noi tutti, al di là di “tante inutili dichiarazioni di pura facciata o di tante vaghe conclamazioni sulla difesa dell’«italianità» ticinese”.