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Le difficoltà di imparare tra ricerca e azione didattica

Una premessa doverosa

Da almeno un paio di decenni, se non di più, la nostra scuola dell’obbligo si china con attenzione su alcuni disturbi dell’apprendimento allo scopo di saperli riconoscere e proporre delle soluzione didattiche per tentare di affrontarli positivamente: penso, in particolare, a disturbi di origine neurobiologica, quali la dislessia o la discalculia.

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento – noti in italiano con l’acronimo DSA – sono naturalmente molti e, per certi versi, le loro definizioni dipendono anche da tradizioni culturali e accademiche dei contesti scolastici nazionali e/o dalle aeree linguistiche; in tal senso la definizione generica di DSA può variare più o meno sostanzialmente da un paese all’altro. A questo proposito è curioso dare un’occhiata alle definizioni che ne dà Wikipedia nelle molteplici versioni: Disturbi specifici di apprendimento (DSA), Learning disability, Trouble d’apprentissage, Lernbehinderung, …

Al di là, tuttavia, delle definizioni, delle cause, delle ricerche, degli studi e dei riconoscimenti giuridici, è fondamentale il fatto che si tratta assai spesso di problemi di apprendimento che possono manifestarsi sin dall’età più tenera: così la scuola si accorgerà della difficoltà, senza necessariamente saperla riconoscere e, di conseguenza, trovandosi nell’imbarazzante situazione di non sapere quali strategie adottare per aiutare l’allievo a superarla – considerando pure che molti DSA si svelano proprio nell’ambito della lettura, della scrittura o dell’aritmetica, ciò che fa scattare, in un gran numero di casi, i malefici meccanismi dell’insuccesso scolastico.

Fatta questa premessa molto generica, segnalo un articolo molto interessante apparso sull’ultimo numero della rivista Scuola Ticinese, periodico della Divisione della scuola del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport: Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?, di cui sono autori Sara Giulivi, docente-ricercatore presso il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI (DFA), Claudia Cappa, ricercatrice presso l’Istituto di Fisiologia Clinica (CNR) di Pisa, e Marcello Ferro, ricercatore presso l’Istituto di Linguistica Computazionale (CNR) di Pisa.

Un dato allarmante

Gli autori partono da una constatazione: I risultati dell’ultima indagine internazionale OCSE-PISA sulle abilità di lettura e comprensione del testo restituiscono un quadro complessivamente allarmante, da cui la Svizzera, di fatto, non si discosta. Le prestazioni degli allievi ticinesi si collocano al di sopra della media nazionale; tuttavia il 17% dei ragazzi di 15 anni si colloca al di sotto del cosiddetto Livello 2 della scala OCSE-PISA, che corrisponde alle competenze di base considerate indispensabili per affrontare la vita di tutti i giorni e conseguentemente per garantire una partecipazione attiva nella società e future opportunità accademiche e professionali. Evidentemente è necessario agire in fretta, e a partire dalle fasi precedenti della scolarizzazione.

Per poi chiedersi: Da dove derivano le difficoltà che gli adolescenti incontrano quando si avvicinano a un testo scritto? Cosa si frappone, in maniera così significativa, al loro accesso al testo, alle loro possibilità di coglierne gli scopi, interpretarne i significati, metterne i contenuti in relazione con le conoscenze che già possiedono sul mondo?

Un protocollo formativo

I ricercatori hanno così messo a punto uno strumento per una valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo che ha un triplice obiettivo:

  • attuare una valutazione accurata delle abilità di lettura del bambino;
  • comprendere se può contare oppure no su una lettura efficiente;
  • in caso di difficoltà, progettare un sostegno mirato.

Il protocollo di valutazione, che è stato messo a punto e testato anche grazie alla partecipazione di alcune scuole elementari e medie nella Svizzera italiana e in Italia, permette di raccogliere abbastanza facilmente una grande quantità di dati da parte degli stessi insegnanti, attraverso una piattaforma informatica, offerta per la prima volta in italiano. I test che compongono il protocollo – sottolineano i ricercatori – sono da svolgere su tablet e valutano la decodifica, la comprensione del testo in lettura silente, la comprensione del testo tramite ascolto.

Siamo, a pieno titolo, dentro una delle scelte pedagogiche fondamentali per una scuola dell’obbligo coerente con le proprie finalità: dapprima una valutazione delle abilità (in questo caso di lettura), poi la differenziazione dell’insegnamento, per poter aiutare ogni alunno ad affrontare il percorso che porta ad essere un lettore adeguato.

Scrivono i ricercatori nella conclusione che Oltre alle difficoltà, lo strumento consente di mettere in evidenza anche le prestazioni eccellenti, grazie alla struttura dei test e alle caratteristiche dei testi e delle domande che li accompagnano. Capire a fondo come ‘funzionano’ gli allievi è indispensabile per poterli sostenere al meglio negli apprendimenti. Gli insegnanti hanno in questo senso una grande responsabilità. Uno strumento come quello che è stato elaborato può aiutarli in quella che forse è la loro principale sfida quotidiana: fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.

Nondimeno, una conclusione importante della ricerca appare già nella parte introduttiva dell’articolo. Scrivono gli autori che i docenti sono sempre più sensibili, informati e aggiornati sul tema delle difficoltà e dei disturbi della lettura. Ciò che ancora sfugge – proseguono – è l’estrema eterogeneità dei profili dei “piccoli lettori”, e la reale natura delle difficoltà che possono manifestarsi in età scolare. Consideriamo, per esempio, una delle cause di tali difficoltà: la dislessia, il disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) che impedisce l’automatizzazione della decodifica del testo scritto. Si tratta di un disturbo di origine neurobiologica; ciò non significa, tuttavia, che si manifesti in modi sempre uguali o costanti nel tempo.

Dalla ricerca alla pratica

È soprattutto con l’istituzione dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP, 2002) e il successivo passaggio dell’ASP alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), con l’acronimo DFA (Dipartimento Formazione e Apprendimento, 2009), che il ruolo della ricerca in educazione si è imposto come ambito di formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia, elementare e media: difficile dire con quali risultati concreti, anche solo tenendo conto della grande e mutevole complessità di ogni sistema scolastico.

Nel caso specifico della ricerca, riassunta nell’articolo di Scuola Ticinese, siamo di fronte a uno strumento che è serve ai ricercatori per rilevare e mettere in relazione le tante variabili che differenziano le cinque grandi tipologie di lettori:

Nel contempo il medesimo strumento può diventare un utile strumento per gli insegnanti, perché fornisce un quadro complessivo che dovrebbe guidare l’organizzazione dell’insegnamento, affinché ogni allievo prosegua il suo percorso di apprendimento mirando al traguardo più alto, quello caratterizzato dall’ottima comprensione del testo e dall’ottima velocità di lettura.

In mezzo c’è tutto il resto, vale a dire, per prima cosa, la determinazione degli elementi che intralciano l’apprendimento. Del resto gli stessi ricercatori ci mettono in guardia.

Ogni dislessia […] è diversa da ogni altra e ogni dislessia evolve nel tempo insieme all’allievo. […] I DSA possono cambiare per una molteplicità di fattori, che spaziano dalle caratteristiche cognitive ed emotive del singolo, a quelle dei contesti in cui vive, agisce, apprende: la scuola, la famiglia, gli spazi di svago e socializzazione. Riuscire a gestire a scuola questo genere di complessità significa creare le condizioni per trasformare potenziali barriere in trampolini di lancio; significa permettere a tutti gli allievi, anche a coloro che devono fare i conti con un disturbo o una difficoltà di lettura, di trarre il massimo dal luogo primariamente preposto agli apprendimenti e all’educazione. [Il grassetto è mio].

Siamo quindi confrontati con una prima necessità per colmare il divario tra la teoria e la pratica: l’insegnante dovrà essere in grado di leggere i risultati per declinarli dal punto di vista dell’insegnamento e dell’eventuale efficacia che si riscontra nell’apprendimento, affinché il protocollo, che è stato messo a punto e fornito su una piattaforma “tecnicamente” facile da usare (cioè il tablet), serva a stabilire quali siano le competenze didattiche a disposizione e/o a indicare la necessità di coinvolgere altri specialisti (lo psicologo, il logopedista, il pediatra, il docente di sostegno pedagogico…). C’è quindi una prima necessità, che tocca in particolare la didattica, per affrontare adeguatamente una difficoltà o per ampliare una capacità.

Non si può dare per scontato che lo strumento per la valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo messo a punto dai tre ricercatori passi dal livello scientifico a quello didattico e pedagogico come un semplice automatismo. Un conto, per fare un esempio, è registrare l’incapacità dell’allievo di rintracciare il significato generale del testo o di individuare relazioni temporali (ho pescato un po’ a caso due capacità/incapacità tra la decina elencata nell’articolo); un altro conto è sapere come intervenire con gli strumenti della didattica di fronte al risultato dell’applicazione de protocollo. Se non si agisce puntualmente per annullare il divario tra l’impianto teorico (che precede per forza di cose la messa a punta del protocollo) e l’uso pratico dei suoi risultati, si rischia che quest’ultimi si trasformino da informazioni per programmare la migliore azione educativa in sterile lista delle incapacità: ciò di cui, sul piano della selezione scolastica, non si sente proprio il bisogno.

Ma c’è un secondo elemento fondamentale, di natura più pedagogica, che si potrebbe definire come la capacità concreta di organizzare il lavoro in classe attraverso la differenziazione dell’insegnamento.

È in questo contesto che si colloca la formazione di base e continua degli insegnanti della scuola dell’obbligo. Il maestro della scuola primaria e il professore della scuola media non possono diventare degli specialisti di ogni singolo Disturbo Specifico dell’Apprendimento – e in questa accezione gli apprendimenti coinvolgono tutte le discipline. Come ha affermato Jean Piaget l’insegnamento è arte altrettanto quanto scienza; gli insegnanti sono dunque i professionisti dell’insegnamento, un po’ artisti e un po’ artigiani, che conoscono bene ciò che insegnano, ma che sono soprattutto capaci – per citare nuovamente i nostri ricercatori – di fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.

Il nodo gordiano della formazione degli insegnanti è proprio nella capacità di trasformare i limiti in soglie da spostare sempre più in là; in altre parole si tratta di capire perché, eticamente e istituzionalmente, sia importante differenziare l’insegnamento, come e con quali strumenti.

Un’immagine, da un’ottica inconsueta, della sede del Dipartimento Formazione e Apprendimento (DFA) della SUPSI. È dal 1878 che questo luogo è il principale istituto di formazione dei docenti in Ticino. Nei secoli – se ne hanno tracce già nel 1316 – l’ex convento di San Francesco ha ospitato il governo cantonale, il ginnasio, la scuola magistrale seminariale e la post-liceale, l’Alta Scuola Pedagogica e, appunto, il DFA.

SARA GIULIVI, CLAUDIA CAPPA, MARCELLO FERRO, «Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?», in Scuola Ticinese, Periodico della Divisione della scuola Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, N° 339: Anno L, Serie IV, 1/2021, pp. 31-37

Quando il libro diventa una tortura

Parlavo, l’ultima volta, dell’importanza di essere un lettore efficace e di cosa dovrebbe fare la scuola per valorizzare l’apprendimento della lettura e per accompagnare, guidare e sostenere ogni alunno affinché impari bene a leggere, perché la lettura è un mezzo essenziale per districarsi a scuola e nella vita, e leggere può pure diventare fonte di grande piacere.

Gianni Rodari, prolifico creatore di filastrocche, romanzi, favole, novelle, storie e racconti, è stato anche maestro di scuola e pedagogista, tanto che dopo aver lasciato l’insegnamento ha continuato a lavorare con il mondo dell’educazione, cioè con tanti insegnanti, allievi e genitori. La «Grammatica della fantasia» è sicuramente il suo capolavoro pedagogico, ma anche la ricca produzione giornalistica, iniziata negli anni ’50 e continuata sino alla sua scomparsa improvvisa, nel 1980, a soli sessant’anni, è piena di idee per una scuola più attiva ed equa, mi verrebbe da dire «più educativa».

È proprio Rodari che mi ha ricordato quante volte lui stesso ha parlato e scritto della lettura a scuola. Nel 1964, ad esempio, elencò sul Giornale dei genitori i «9 modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura», tra i quali spicca il libro usato come strumento di fatica e di tortura, attraverso le varie fasi del riassumere, del mandare a memoria, del descrivere le illustrazioni, eccetera. Tutti questi esercizi moltiplicano le difficoltà della lettura, anziché agevolarle, fanno del libro un pretesto togliendogli ogni capacità di divertire [1].

Immagine e titolo principale dell’articolo pubblicato su Il Caffè dell’11 aprile 2021 (Anno XXIII, n. 12), pag. 35 – La foto è stata scattata il 3 marzo 1977, in occasione di un’affollata conferenza che Rodari tenne a Locarno.

Nel 1974, a un congresso di studi su Collodi, disse di ricordare ancora la voce della sua maestra che ci leggeva Pinocchio, alla fine della mattinata come premio, se eravamo stati buoni. Era un’ora molto bella. La maestra leggeva bene, eravamo disponibili e distesi, di voti buoni o cattivi non c’era più rischio. Era un bel modo di stare insieme. Poi aggiungeva di conoscere maestri d’oggi che leggono invece Pinocchio non alla fine, ma all’inizio della mattinata, non come un momento di riposo, ma, al contrario, per mettere in movimento le energie della mente e della fantasia [2]: prima di passare alle cose serie…

Qualche anno più tardi tornò per l’ennesima volta su questi temi, per affermare l’urgenza di rimuovere gli ostacoli più grossolani al piacere, al gusto della lettura, che lui ravvisava nell’uso che vien fatto spesso, purtroppo, di pagine destinate a destare ed educare quel gusto, trasformate invece in strumenti di tortura individuale e collettiva: analisi grammaticale, analisi logica, copiatura, riassunto, eccetera.  Anche la pagina più poetica diventa così esercizio burocratico, il cui fine non è l’animo del ragazzo, ma un voto sul registro e, domani, sulla pagella. Le difficoltà inseparabili dalla lettura vengono così accresciute e moltiplicate. Il libro si allontana, è chiuso in una gabbia di artifici. Non è più, come dovrebbe essere, “un momento della vita” o almeno, perché no?, un bel gioco, forse il più bello di tutti [3].

Da allora è passato mezzo secolo, molte cose sono cambiate, ma ancor oggi tanti allievi potrebbero dire, con Pinocchio, che a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Quasi tutto sembrerebbe ruotare attorno ai test, alle note, alle medie. Ma le note, specialmente quelle brutte, sono un po’ come l’araba fenice: son lì da vedere, ma non è sempre chiara la causa. Magari è solo perché uno non è portato, per l’italiano o per la matematica…


Note

[1] Gianni Rodari, 9 Modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura, in «Il giornale dei genitori», n. 10, ottobre 1964.

[2] Gianni Rodari, Pinocchio nella letteratura per l’infanzia, in Studi collodiani. Atti del Convegno Internazionale Pescia, 5-7 Ottobre 1974, 1976, Edito a Pesca dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.

Le note [1] e [2] sono tratte dal volume di Pino Boero Una storia, tante storie. Guida all’opera di Gianni Rodari, 2020, Edizione aggiornata, Einaudi Ragazzi.

La citazione [3] mi è stata fornita da Pino Boero, che ringrazio di cuore. È tratta dall’articolo Pinocchio non è più solo, apparso sul settimanale «Rinascita», n. 49, 15 dicembre 1978.

Leggere libri non può essere solo un noioso compito a casa

Com’è un lettore efficace e competente? E, soprattutto, come lo si diventa? A scuola capita di sentirsi dire che bisogna leggere – tanto, anzi di più – per migliorare le proprie capacità di scrittura.  Il bravo lettore non si confronta solo con la letteratura e coi suoi classici – quei libri che, secondo Italo Calvino, continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Ma il lettore è efficace quando ha automatizzato la comprensione dei codici linguistici e competente quando padroneggia la lingua, sa distinguere un romanzo da un saggio, un articolo di cronaca da un commento editoriale, un testo di divulgazione da un libercolo pubblicitario. Così quel lettore sarà facilitato sull’arco della scolarità e della vita, perché capace di studiare, di risolvere nuovi problemi e imparare altre lingue. Significherà pure poter leggere per il puro piacere di farlo.

Lo ha detto di recente anche il ministro francese dell’economia e delle finanze, Bruno Le Maire, che si è rivolto ai liceali della République con un messaggio sul web, ripreso subito da diverse testate: «Leggete, staccatevi dagli schermi. Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza. La letteratura e i libri vi permetteranno di scoprire quanto siete unici e fino a che punto non assomigliate a nessun altro. È quello che fa l’umanità. Ogni persona è unica. Ed è la letteratura che ce lo insegna».

Bisogna capire se la scuola è in grado di puntare a simili traguardi, sapendo che la crescita rigogliosa della nostra lingua non dipende solamente da ciò che si riesce a fare nelle aule scolastiche, in cui confluiscono allievi abituati sin da piccoli a maneggiare, guardare e leggere libri, e allievi che crescono a stento su terreni del tutto aridi. Per prima cosa occorre creare gli spazi e i tempi per favorire lo sviluppo linguistico di ognuno. Come ha annotato su queste pagine Renato Martinoni giusto una settimana fa, «complice la mancanza di letture, l’abuso dei “sòscial”, e soprattutto la pigrizia e un peso troppo limitato dato, nelle scuole, alla lingua madre, stiamo formando generazioni di gente che si illude di possedere una lingua senza purtroppo averla per davvero. Regaliamo pertanto all’italiano più ore a scuola. Non solo in quelle di italiano, ma anche in tutte le materie. Perché abbiamo urgente bisogno di una lingua. Di una lingua davvero solida».

Quando leggere diventa un noioso compito a casa o un riempitivo tra due cose reputate più importanti, si sparge l’idea di qualcosa di scarso valore. La lettura, in primo luogo, deve ritrovare il suo peso specifico dentro la scuola, nelle ore in cui l’allievo è lì. Toccherà poi all’insegnante accompagnare, guidare e sostenere le scelte di lettura,  in modo congruo alle capacità di ognuno. Anche il lavoro sui libri dovrà essere rilevante e sensato: ad esempio favorendo la condivisione, la creazione di schede critiche, la presentazione ai compagni, la discussione e il commento critico.

Museo Plantin-Moretus, Anversa (2019)

Capita invece che, avanzando nella scolarità, il tempo per la lettura e per i libri anneghi nei troppi impegni extrascolastici, che sono dominati dallo studio supplementare per far fronte alle reiterate valutazioni di materie ritenute più utili o spendibili, soprattutto in termini di valutazioni scolastiche: le lingue due e tre, la matematica, le scienze. Mentre la lettura di un libro può attendere.


Citazioni

Le parole del ministro francese dell’Economia, delle Finanze e della Ripresa Bruno Le Mair sono tratte dal sito di Repubblica del 7 febbraio 2021. Il messaggio del ministro è in YouTube: Arrachez-vous de vos écrans ! Lisez !

L’articolo di Renato Martinoni è invece apparso sul Caffè del 14 marzo 2021, nella sua rubrica settimanale «Fogli in libertà»: Più ore di italiano per imparare l’italiano.

Saper parlare aiuta il rapporto con gli alunni

Dicevo, due settimane fa, dell’urgente bisogno che la scuola dell’obbligo insegni ai suoi allievi a esprimersi oralmente e che l’istituto per la formazione degli insegnanti – quello che tanti anni fa si chiamava scuola magistrale – inizi presto a lavorare su una moderna didattica della lingua parlata. Ci si potrebbe comunque chiedere come mai la scuola dell’obbligo continui a riservare alla scrittura e alla lettura uno spazio privilegiato, quasi che la capacità di esprimersi oralmente fosse un’acquisizione spontanea, che non necessita di particolari percorsi didattici – tutt’al più di correzioni immediate di fronte agli errori più grossolani.

Eppure parlare e scrivere sono due lati della stessa medaglia. È però curioso notare come l’attività di scrittura – penso in particolare ai famosi «temi» da svolgere individualmente – ha solitamente un unico lettore, peraltro più interessato agli aspetti “tecnici” del testo che alla comunicazione dell’allievo/autore, indipendentemente dalla natura del compito svolto: una descrizione, un racconto, un riassunto, un’argomentazione. L’insegnante interverrà dunque puntualmente, per segnalare errori ortografici, punteggiatura, grammatica e sintassi, forse l’uso appropriato del vocabolario.

L’espressione orale, invece, non è mai un esercizio destinato a un unico ascoltatore. Quasi sempre chi parla ha bisogno di qualcuno che ascolta. Si può dunque dire che lo sviluppo delle capacità orali, al contrario della scrittura, non può esistere né crescere senza la collaborazione dei compagni e dell’insegnante – per parlare da soli ci si può anche inventare una lingua.

Ora, per imparare a parlare servirebbe un impianto didattico altrettanto variegato e puntuale. Si sa che, in Europa, vi sono sistemi scolastici in cui l’oralità ha pari dignità della scrittura. Si tratta tuttavia di scelte pedagogiche strettamente legate alla cultura e alla storia di paesi, per citarne solo un paio, come la Danimarca e la Finlandia. Sappiamo però che i funzionamenti delle scuole dei diversi paesi non si possono importare come si importerebbero aringhe o mobili da montare.

Anche da noi ci sono esperienze significative, soprattutto nell’ambito della cosiddetta Scuola attiva, un movimento pedagogico nato nei primi decenni del ’900. Ha annotato Philippe Meirieu, parlando del lavoro di Célestin Freinet (1896-1966, pedagogista e educatore francese): «Talvolta, a scuola, gli alunni si annoiano. Non è perché li si costringe a lavorare, ma perché non li si fa lavorare per davvero: è il maestro che lavora, mentre loro ascoltano. Dunque mettiamoli al lavoro e diamogli dei compiti che abbiano un senso. Freinet ne è convinto: è il lavoro che stimola, il lavoro vero. Perché ha senso. È il lavoro che permette agli studenti di mettersi in gioco».

È proprio nel contesto della scuola attiva che troviamo tante proposte didattiche per insegnare agli allievi a esprimersi oralmente. Si tratta di attività regolari e alle quali tutti devono partecipare; senza contare gli spazi per la comunicazione collettiva, come può essere l’assemblea di classe, per discutere di argomenti grandi e piccoli che coinvolgono quella piccola comunità: una discussione che ha le sue regole, dove ognuno ha diritto a esprimersi e dove si impara ad ascoltare, a condividere, a dibattere.

Tra l’altro: sono i primi esercizi di democrazia, che hanno anche benefici effetti sulla competenza linguistica di ognuno.


La citazione è tratta da dall’opuscolo Célestin Freinet – Comment susciter le désir d’apprendre di Philippe Meirieu. Fa parte di una serie di 26 opuscoli che accompagnano 26 film che erano stati trasmessi tra il 1999 e il 2001 dal canale televisivo France 5. Ogni film della serie, intitolata «L’éducation en question», presenta i contributi di una grande figura dell’educazione con le domande che i professionisti del nostro tempo si pongono quotidianamente. Si possono vedere tutte le puntate (di 13 minuti l’una) nel sito di Philippe Meirieu (L’éducation en question).

Serve una nuova didattica per l’oralità

Chissà se la scuola insegna a parlare? Nell’immaginario è più rinomata per il silenzio, perché a scuola si sta zitti e si ascolta con attenzione l’insegnante: che spiega, puntualizza, espone. A volte rimprovera, ad esempio quando si chiacchiera. Ci sono pure situazioni ambigue, come quando pone una domanda a tutta la classe. C’è chi fa scattare la mano alzata e l’accompagna con «Io! Io!». E c’è chi, se potesse, si nasconderebbe, e fa il possibile per non farsi notare: perché è insicuro o timido. Spesso, quando poi arriva la risposta, lui si pente, perché la sapeva. Ma stando zitto rischia poco. Di solito, però, gli allievi fanno silenzio. Ascoltano, sembrano attenti. Saranno stuzzicati dall’argomento e lo capiranno? Chissà, a volte sì. Alcuni sì. Ma quando le cose vanno per le lunghe è quasi certo che ci sia chi si distrae, libera la fantasia, cercando di non darlo a vedere.

Secondo il nostro piano di studi, leggere, parlare, ascoltare e scrivere sono le essenze dell’espressione linguistica, le quattro abilità che «si combinano tra loro, vengono acquisite contestualmente e si rafforzano l’una con l’altra». Tuttavia la scuola è molto più centrata sulla scrittura, quella da produrre e quella da leggere. La didattica dell’italiano è prodiga di proposte interessanti in questi campi, ma è difficile trovare delle proposte strutturate e avvincenti dedicate all’espressione orale (o all’ascolto).

Non è ragionevole limitarsi al solo parlato informale, con interventi di revisione più o meno casuali e forse limitati agli errori più grossolani. Anche in quest’ambito, per contro, sarebbe più che appropriato far sì che l’allievo diventi protagonista attivo del suo apprendimento, così come si impara a scrivere scrivendo e a leggere leggendo. Oltre a ciò si consideri che l’oralità coinvolge un pubblico, grande o piccolo che sia: perché si può dialogare, presentare, discutere. Serve dunque un progetto didattico con i suoi tempi, le sue regole, i suoi contesti specifici.

Parlare bene è difficile come scrivere bene, ma non è la stessa cosa. Esprimersi davanti a un gruppo di compagni è un po’ come affrontare il foglio bianco. Prima di parlare o di scrivere è necessario prepararsi, strutturare il proprio pensiero, sapere cosa si vuole raccontare, descrivere o argomentare. Tra queste due produzioni linguistiche vi sono analogie e diversità. C’è che il testo lo puoi rivedere e cambiare prima affidarlo al lettore; mentre quando parli, se ti parte la cretinata corri un serio pericolo. Senza una didattica dell’oralità, regolare e bene articolata, è alta la possibilità che a parlare sia solo chi porta in dote quel tanto che ha imparato prima di entrare a scuola.

Serve insomma, con una certa urgenza, un nuovo impegno didattico, affinché l’espressione orale diventi un apprendimento fondamentale durante tutta la scuola obbligatoria, perché imparare a parlare in modo appropriato significa anche saper ascoltare e discutere con rispetto.

Dovrà essere una didattica che per forza di cose coinvolgerà anche l’educazione di chi ascolta. Ad esempio, l’esercizio di presentare un libro, un’immagine o un evento dovrà avere regole sue: un tempo prestabilito per la preparazione e per la presentazione, una scaletta chiara, un finale critico e formativo. Il ruolo dell’insegnante, in tutto ciò, sarà come sempre essenziale, perché toccherà a lui garantire lo svolgimento sereno dell’intervento e proporre una correzione utile al relatore e al suo pubblico.


L’articolo è stato pubblicato col titolo Lo studente protagonista con la didattica dell’oralità.