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Pinocchio e il fascino discreto della lettura

Non so se oggi sia ancora di moda l’esortazione di tanti insegnanti: «Bisogna leggere tanto per imparare a scrivere bene». Ho fatto l’insegnante e poi il direttore di scuola. Quelle sollecitazioni hanno un loro senso, è indubbio; ma contengono un che di moraleggiante, come uno che non sa bene a che santo votarsi e cerca una scusa per trarsi d’impaccio. La correlazione non è automatica: se il tuo insegnante, ad esempio, non è un lettore assiduo e magari – rara avis, ma può succedere – non ha particolari doti didattiche, la lettura come esercizio fine a sé stesso, un compito scolastico come tanti, diventa una (s)tortura semplicemente dannosa.

In buona sostanza è sempre meglio riflettere sul significato di quel che si dice, sennò si rischia di sparare precetti a vanvera, un po’ come quando chiedi Come va? all’incontrato per caso: non ti interessa neanche lontanamente la risposta, e ti meriteresti ogni volta un lungo catalogo di malanni e malesorti, da ascoltare pazientemente. Annuendo.

Non è il momento, proprio quando ci stiamo avvicinando al termine di questo strano anno scolastico, di imboccare lunghe dissertazioni pedagogico-linguistiche. La questione mi è venuta in mente incrociando un po’ per caso (ma proprio solo un po’) l’attività di due professionisti che stimo. Sul Corriere delle Sera del 17 maggio Paolo Di Stefano ha scritto: «Nessuno pensi di liberarsi di Pinocchio, come in fondo ha fatto Carlo Collodi, il quale, dopo aver creato il burattino di legno indomabile e bugiardo, per amore di lieto fine lo neutralizzò trasformandolo in un bravo ragazzo in carne e ossa. E come continua a fare la scuola, che lo ignora tranquillamente da oltre un secolo forse con l’idea che si tratti di un libro per l’infanzia e dunque un genere di narrativa «minore». Si sa che non è affatto così. Le avventure di Pinocchio sono un capolavoro della letteratura italiana, e bisognerebbe avviare una campagna perché la sua lettura diventi obbligatoria. O forse no: meglio evitare il rischio del rigetto scolastico, di cui sono vittima da sempre I promessi sposi» (Pinocchio in cattedra: saggi e convegni anche nelle università).

Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.

A naso, e guardando alle mie esperienze recenti, direi che nel canton Ticino Pinocchio e le sue avventure accendono ancora amori e passioni, forse perché le vicende del burattino più famoso del mondo non sono mai diventate, neanche a scuola, strumenti di sevizia. Fino a qualche decennio fa Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino erano un intermezzo ai pur piacevoli libri di lettura di Dante Bertolini – che erano solo quattro, uno in meno della durata della scuola elementare. Ecco allora che in 3ª, o più facilmente in 4ª, il romanzo di Collodi era un’inusuale parentesi lunga un anno. Mi verrebbe da dire che i personaggi di questo grande romanzo resistono bene all’usura del tempo e continuano a solcare le nostre aule, come racconti continuati e come letture individuali, ma anche come veri e propri itinerari didattici: forse perché, a parte qualche inevitabile eccezione, Pinocchio non è mai stato usato come strumento di accanimento pedagogico – e il personaggio è avvincente per conto suo.  Che poi, a ben guardare, anche il finale del romanzo – quando Pinocchio diventa leziosamente un bambino – può prestarsi ad altre interpretazioni. Philippe Meirieu, nel suo «Frankenstein pédagogue», libro del 1996 poi tradotto in italiano nel 2007 col titolo Frankenstein educatore, ne dà un’interpretazione divergente e originale.

«Salitemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io, disse Pinocchio a suo padre. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle di suo figlio, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò in acqua e cominciò a nuotare… Ora è ben lontana la piccola peste velleitaria e capricciosa di cui nessuno si sarebbe fidato. Al suo posto c’è un bambino determinato che non esita ad affermare la sua volontà, serenamente e senza violenza; un bambino che ha abbandonato le gesticolazioni disordinate e gli impulsi contraddittori… per stabilire, alla fine, un atto, uno vero, “un atto di coraggio”, direbbe qualcuno: forse, semplicemente, “un gesto da uomo”.

A fare da contraltare a questo intervento preoccupato e combattivo, ecco nuovamente Paolo Di Stefano, ospite di Daniele Dell’Agnola nella puntata del 24 maggio del programma Il bidello Ulisse nella rete dei libri La vera storia di Selim! – durante la quale si è parlato del romanzo I pesci devono nuotare, attraverso tre pareri di ragazze di scuola media, che l’hanno letto, e una chiacchierata con l’ospite della puntata, lo stesso Di Stefano.

Il bidello Ulisse è il personaggio, inventato da Dell’Agnola, che ha mosso i primi passi come protagonista di una rubrica pubblicata nell’inserto culturale del Corriere del Ticino. Nel 2015, pur continuando sporadicamente le incursioni cartacee, Ulisse si è trasferito armi e bagagli su Teleticino: in tre anni ha inanellato quaranta puntate, ha coinvolto un centinaio di allieve e allievi, coi loro insegnanti di una decina di sedi di scuola elementare e media; e, soprattutto, ha presentato ottanta libri, messi di volta in volta sotto i riflettori e gli occhi critici di quei ragazzi che, i libri, li avevano incontrati a scuola.

Insomma, un gran bel segnale (anche se tra gli ottanta titoli, sino a oggi, non è comparso Pinocchio: forse perché non ha più bisogno di promozioni televisive). Anche se…

Anche se non bisogna mai dare nulla per scontato, perché il pericolo è che, un giorno o l’altro, di Pinocchio restino solo le versioni cinematografiche, da quella scioccamente moralista di Walt Disney (1940), allo sceneggiato televisivo di Luigi Comencini (1972) o alla prova di Roberto Benigni (2002), oltre alle innumerevoli rivisitazioni del teatro per ragazzi, che resteranno tali solo fino al giorno in cui il pubblico conoscerà ancora l’originale, con tutti i suoi sani sberleffi.

Qui giace la bambina dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo fratellino Pinocchio.

Prima che sia troppo tardi, quindi, conviene tener viva l’anima anarchica di Pinocchio, in modo da custodire la storia di quel pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino, e che subito dopo aver imparato a camminare da sé e a correre per la stanza, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.


Le due immagini sono tratte dal volume Pinocchios Abenteuer. Eine Geschichte die vor mehr als hundert Jahren in Italien Passierte, mit 60 Bildern von Frl. Martha Pfannenschmid, 1968, Zürich: Silva-Verlag.

Un ministro quantomeno espressivo

Più di vent’anni fa, quand’ero ancora direttore di scuola, ebbi uno scontro abbastanza veemente con un gruppo di insegnanti del «mio» istituto. Qualcuno, non ricordo chi [me lo ricordo bene, in realtà, ma non è importante], chiese se l’intercalare cazzo potesse o meno essere accettato nel parlare comune dei nostri allievi. Per quel che credo e credevo, non accettavo (né accetterei oggi) che un allievo dicesse in classe – che so? – ma insomma, cazzo!, stavamo giocando la partita durante la ricreazione e, cazzo!, Federico non passava mai la palla, cazzo!, tanto che abbiamo perso 3 a 1. Cazzo!

Mi sentirei di spiegare che, pur nella concitazione del momento, si potrebbero trovare forme espressive più adeguate alla situazione “istituzionle”, e pure alla lingua italiana.

In quegli anni avviammo un progetto d’istituto che aveva come obiettivo prioritario il rafforzamento dell’insegnamento dell’italiano. Così, nel novembre del 2010, invitammo il prof. Dario Corno, che era stato per diversi anni docente alla Magistrale e che, in quell’anno, insegnava all’Università del Piemonte Orientale. Tenne una conferenza intitolata «Il genio dell’italiano. Come e perché è necessario insegnare la nostra lingua, oggi più di ieri», durante la quale descrisse con dovizia di particolari, e basandosi su un esempio eccellente, la forza espressiva della lingua italiana.

Il suo carico morfologico è notevole – disse – ma soprattutto la nostra lingua ha notevoli possibilità di modulazione per significare lo stesso concetto. (…) Vediamo di cogliere questo aspetto valutando i diversi modi che l’italiano presenta per comunicare l’idea dell’arrabbiarsi. In italiano si può dire abbrutirsi, accendersi, accigliarsi, adombrarsi, adontarsi, aggrondarsi, alterarsi, andare in bestia, andare in collera, annuvolarsi, arrabbiarsi, aversela a male, corrucciarsi, disumanarsi, esacerbarsi, esasperarsi, formalizzarsi, fremere, imbestialirsi, imbronciarsi, imbufalirsi, immusonirsi, impazientirsi, impennarsi, impermalirsi, inalberarsi, incagnarsi, incappellarsi, incavolarsi, incollerirsi, indemoniarsi, indignarsi, indispettirsi, inferocirsi, infuriarsi, ingrugnarsi, inquietarsi, inviperirsi, irritarsi, montare in bestia, perdere il lume degli occhi, perdere il lume della ragione, piccarsi, pigliarsela, prendersela (a male), rabbuiarsi, risentirsi, sdegnarsi, spazientirsi, stizzirsi, ma anche incazzarsi o, più perifrasticamente, “avere il giramento di…” (stando allo standard medio attuale per cui i giovani lamentevomente non si arrabbiano più, si incazzano e basta…).

Per correttezza, e per non atteggiarsi al moralista che non è, aveva citato Vincenzo Mengaldo, filologo italiano, secondo il quale la scelta di un registro “puristico” che porta l’insegnante a correggere arrabbiarsi in adirarsi o indignarsi (fare in eseguire, o svolgere, di più in maggiormente, andare a letto in coricarsi, lui lei loro in egli essa essi, e così via), a spiegare che lo spostamento della lingua dalla letteratura alla scuola fosse più o meno ineluttabile, benché, almeno pedagogicamente, da dibattere.

Sostengo da tanti anni, pressoché incessantemente, che, oltre alla famiglia e alla scuola, altri protagonisti siano oggi responsabili dell’educazione delle future generazioni, con intensità sempre maggiore: penso all’influenza dei personaggi dello sport e dello spettacolo, ma anche dei politici e dei tanti che, per un verso o per l’altro, hanno un impatto persuasivo sull’opinione pubblica attraverso quel che dicono e quel che fanno, e in base allo spazio massiccio che vien loro dedicato dai media: l’ha detto la radio, l’ho visto in TV, c’era sul giornale…

Giovedì 14 aprile sono finito, un po’ casualmente, sul programma «Nemo – Nessuno escluso», di Rai 2, canale nazionale della televisione di Stato italiana. Stavo pigiando il tasto del telecomando, per continuare pigramente lo zapping, quando, con un po’ di sorpresa, è sbucata la prima pagina del Mattino della domenica, l’organo dei leghisti nostrani. E, com’è ovvio, ho seguito il reportage.

C’è, a un certo punto, un’intervista al ministro Norman Gobbi, citata, fino al momento in cui scrivo, da Liberatv e da Ticinolibero. L’intero servizio può essere seguito a questo indirizzo, a partire, più o meno, dal minuto 23.

L’intervista al Ministro è sufficientemente breve e raggelante da poterla trascrivere:

MINISTRO: Sa quanti lavoratori transfrontalieri abbiamo in Canton Ticino? 63 mila.

GIORNALISTA: 63’000.

MINISTRO: Sono un lavoratore su quattro in Canton Ticino. Dieci anni fa erano la metà. E questo è un problema per noi, perché l’Italia ha un problema socio-economico, è un problema che non riesce più a ripartire dal 2008.

GIORNALISTA: E se gli italiani vengono a lavorare qua è un problema per voi?

MINISTRO: Per noi è un problema sicuramente, perché abbiamo tanti giovani che non riescono a trovare un posto di lavoro

GIORNALISTA: Quant’è il tasso di disoccupazione?

MINISTRO: È sicuramente più basso di quello dell’Italia.

GIORNALISTA: Quant’è?

MINISTRO: Oggi siamo circa al 3% per il Ticino.

GIORNALISTA: Certo che visto dall’Italia ’sta cosa…

MINISTRO: Noi guardiamo per noi, voi guardate per voi.

GIORNALISTA: Senta, ma secondo lei c’è un sentimento anti-italiano da parte del vostro partito?

MINISTRO: Da parte dei ticinesi? Venga una volta a vedere quando gioca la Svizzera contro l’Italia, come sono gli animi nel Canton Ticino.

GIORNALISTA: Come sono?

MINISTRO: Molto accesi.

GIORNALISTA: Dell’Italia cosa pensa?

MINISTRO: L’Italia è uno splendido paese. Punto.

GIORNALISTA: Punto?

MINISTRO: Punto. Non ho detto nazione, ma paese.

GIORNALISTA: Cioè? Cioè che vuol dire?

MINISTRO: Non dico più un cazzo.

Non voglio fare il moralista, ma il men che si possa dire è che il nostro Ministro delle Istituzioni ha un approccio decisamente espressivo alla lingua italiana. Può capitare a chicchessia di perdere le staffe e di sbroccare, per usare un verbo riportato in auge proprio dal domenicale della Lega. Ma a un ministro della Repubblica è lecito chiedere almeno quel minimo di dignità.

C***o!, come ha sottotitolato la Rai.

Sarò un ticinese anomalo, ma mi vergogno.

Il lavoro di crescere nel colloquio con due scrittori

Questo articolo è stato pubblicato dal Corriere del Ticino del 7 aprile 2017. Esso si riferisce a un incontro promosso dal DFA/SUPSI (Invito a una bella serata…). Contrariamente alle mie abitudini, in calce al testo si trovano alcuni documenti interessanti, che testimoniano alcuni aspetti di questa giornata.


Ho avuto l’opportunità, qualche giorno fa, di accompagnare per l’intera giornata due scrittori che hanno parlato di sé, del proprio lavoro e di due loro romanzi con un gruppo di allievi di III e IV media di Locarno, per poi chiudere la giornata con un pubblico di adulti: una platea piuttosto rada, per la serie «pochi ma buoni». Paolo Di Stefano, scrittore e inviato del Corriere della Sera, e Daniele Dell’Agnola, insegnante e scrittore, si sono messi in gioco prendendo le mosse dai loro recenti romanzi «I pesci devono nuotare» e «Anche i bruchi volano». Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalle ragazze e dai ragazzi, incontrati in due gruppi piuttosto numerosi: per quasi due ore hanno seguito attentamente il colloquio tra i due scrittori, intercalati dalla lettura di alcune pagine particolarmente significative con la voce affascinante di Sara Giulivi, ricercatrice e docente della SUPSI con la passione per il teatro.

I temi dei due romanzi hanno innescato un fiume impetuoso e variegato di peripezie attuali e toccanti: emozioni accese dalle storie – quella di Selim, il ragazzo egiziano che giunge in Sicilia sui famigerati barconi, che poi scappa a Milano e mette in gioco tutta la sua fierezza per imparare bene l’italiano, che lui intuisce essere una chiave di integrazione fondamentale: perché i pesci devono nuotare e ne hanno pure il sacrosanto diritto. E quella di Felix, adolescente che vive in un posto che c’è e non c’è, iperattivo e dislessico, che lotta per sottrarsi alla scuola, dove gli impongono il Ritalin «con la speranza di farti diventare un uomo forte», mentre «la verità è che vogliono tenerci sotto controllo, a noi iperattivi»: Felix, che ama le farfalle e odia i bruchi. I due scrittori hanno preso molto sul serio il loro pubblico di quattordicenni, proponendo temi difficili e rispondendo a domande altrettanto complicate, perché la realtà è quella lì. Si è capito che la platea si era preparata bene e che reagiva con intensità al mare di sollecitazioni che la travolgeva attraverso la letteratura: un’arte, come ha sottolineato Di Stefano, che esige fatica e impegno a chi scrive e a chi legge, e non dà risposte prêt-à-porter ai grandi interrogativi: ma sparge dubbi, stimola la riflessione, invita a scelte consapevoli, forse mai definitive.

Mi sono chiesto, mentre andavo all’ex convento di Piazza San Francesco per l’incontro col pubblico degli adulti, quale magia aveva potuto generare la tensione di quella decina di classi di scuola media, che aveva incontrato i due intellettuali senza passare attraverso esami e selezioni di idoneità. Credo di avere individuato due fattori decisivi: si è discusso di cose difficili, ma con la serietà e il rispetto dovuto ai giovani interlocutori; e non ci si è lasciati sedurre dal facile giochino dei verdetti da parte di chi tiene il coltello per il manico e sente il bisogno incessante di sancire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Con quei bei pensieri sono arrivato alla Magistrale, in un’aula magna quasi deserta. Non c’erano i futuri insegnanti a far la calca per entrare e conquistare i posti migliori. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia, sulla quale converrebbe riflettere. Però è utile osservare che anche quest’ultimo incontro, condotto con spigliata competenza da Christelle Campana, volto noto del nostro TG, è stato degno del pubblico appassionato col quale, nelle ore precedenti, si erano costruiti pensieri importanti.


Qui si può scaricare la copia del mio articolo così com’è apparso sul Corriere del Ticino del 7 aprile 2017, a pagina 30.

Nel sito del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI è possibile trovare un bell’articolo pubblicato da Daniele Dell’Agnola su La Regione del 1° aprile (La pazienza per resistere), nonché una galleria di immagini.

Il programma Turné della RSI ha mandato in onda un servizio, che si può guardare qui (Pesci, bruchi e Wunderkammer, a partire da 12’ 20”).

Nel sito del Corriere della Sera, per terminare, si può leggere un bell’articolo di Paolo Di Stefano – I libri si amano con meno chiacchiere e più lettura – un testo che ha contribuito alla messa a punto dell’incontro locarnese del 30 marzo.

Invito a una bella serata: un incontro con due scrittori che discutono del lavoro di crescere

Ne parlo anche perché ci ho ficcato il naso.

Lo so, è una brutta abitudine quella di mettere il becco nelle faccende altrui. E sì, concordo: mi si può inquisire per correità.

A mia discolpa posso dire che è bello lavorare con gli amici del DILS, il Centro competenze didattica dell’italiano lingua di scolarizzazione, di cui è responsabile Simone Fornara.

Parto dal centro: l’appuntamento è per giovedì 30 marzo alle 17.30, nell’aula magna dell’ex scuola magistrale cantonale, in Piazza San Francesco a Locarno, dov’è in programma un incontro che sarà nel contempo simpatico e di grande interesse.

Titolo: Il lavoro di crescere nel colloquiotra due scrittori.

Protagonisti: due scrittori, due romanzi, una conduttrice e una lettrice. E poi il pubblico, che mi auguro numeroso e appassionato.


Paolo Di Stefano (Avola, 1956) è inviato speciale del Corriere della Sera. È autore di numerosi romanzi tra cui «Baci da non ripetere» (1994), «Azzurro troppo azzurro» (1996, Premio Grinzane Cavour), «Tutti contenti» (2003, Superpremio Vittorini e Superpremio Flaiano), «Aiutami tu» (2005, SuperMondello), «La catastròfa» (2011, Premio Volponi), «Giallo d’Avola» (2013, Premio Viareggio-Rèpaci), «Ogni altra vita» (2015, Premio Bagutta), «I pesci devono nuotare» (2016).

Daniele Dell’Agnola, classe 1976, è docente alla SUPSI, insegnante di italiano alle medie, autore di romanzi, tra i quali «Melinda se ne infischia» (2008), «Baciare non è come aprire una scatoletta di tonno» (2014, con pièce teatrale tradotta in francese e tedesco), «Anche i bruchi volano» (2016). Ha ideato per il Corriere del Ticino la rubrica di narrativa Il bidello Ulisse, che è diventato un format su Teleticino, dove presenta libri per bambini e ragazzi.

Di Stefano narra una storia vera, quella di Selim, un ragazzo egiziano che, con l’incoscienza e la forza dei suoi diciassette anni, attraversa il deserto e la Libia, fino a raggiungere il mare e imbarcarsi per l’Italia. Dopo fatiche, stenti e preghiere sussurrate, il viaggio lo conduce in Sicilia, insieme a centinaia di migranti in cerca di sogni. Il suo è il più grande e ambizioso: vuole un riscatto dall’infanzia che si è lasciato alle spalle, parlare l’italiano meglio degli italiani, costruirsi un futuro. Selim, a Milano, non è solo. Dentro e accanto alla sua vita ne scorrono altre, meno luminose ma altrettanto esemplari: la dolce Marlene, il ruvido Raymon, l’amico Tawfik e alcuni misteriosi angeli protettori, in un mondo che cambia velocemente, dove si innalzano barriere per difendersi da ciò che non conosciamo.

Anche la storia di Dell’Agnola parla di adolescenti, ragazzi e ragazze in bilico tra una fanciullezza più o meno felice e un’età adulta misteriosa e che può intimorire. Felix, dodicenne in affanno, iperattivo e ribelle, vive in un quartiere ai margini della città. Ama la cultura, odia la scuola e Marcello Porcello, figlio del pediatra che gli somministra metilfenidato come fosse cioccolata. Si rifiuta di frequentare la scuola, così è seguito da un’orda di psicologi, pedagogisti, medici e specialisti, che lui definisce i «draghi drugugubri». Un giorno incontra Alice, misteriosa ragazzina piuttosto vivace. Con lei e altri amici vivranno una metamorfosi grazie ad avventure e tragedie, alle prime esperienze sessuali e al desiderio di scontrarsi, misurarsi… e volare.

Christelle Campana, giornalista del TG della Radiotelevisione svizzera, sarà la conduttrice della serata.

 

 

 

Sara Giulivi, docente e ricercatrice al DFA della SUPSI, che ha alle spalle una formazione come attrice presso il Centro Teatro Internazionale di Firenze, leggerà alcune pagine significative dei due romanzi.

 

Spero davvero di salutare un pubblico numeroso, perché ne varrà la pena.

Perché vivano Janusz Korczak e i suoi insegnamenti

Sul numero di novembre 2016, il mensile Illustrazione Ticinese, rivista familiare illustrata fondata nel 1931, ha dedicato il suo servizio di copertina al direttore del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, oggi noto con la sigla DFA, che sarebbe poi la vecchia scuola magistrale cantonale: Michele Mainardi. Tra scienza, formazione e apprendimento.

Ne parlo in questa sede – al di là della segnalazione del servizio, interessante di per sé – per un dettaglio che non sarà sfuggito agli addetti ai lavori o presunti tali (benché sia necessario lasciare aperto qualche spiraglio al sospetto…). La scheda biografica che correda il reportage si conclude con una dichiarazione che sicuramente non è fortuita: «Pedagogo di riferimento: Janusz Korczak, un dottore ebreo riuscito nell’impresa che sembrava folle, di far funzionare una comunità di orfani nel ghetto di Varsavia».

[Su Janusz Korczak si veda la voce in Wikipedia; meglio ancora – purtroppo è solo in tedesco – si può consultare il sito del Janusz Korczack Institut].

Korczak è un autore che è entrato nella storia della pedagogia e delle idee pedagogiche solo in tempi recenti. All’epoca della mia formazione pedagogica, dapprima alla Magistrale negli anni ’70, poi all’università di Ginevra dieci anni dopo, non ricordo di averlo incontrato. Eppure il suo contributo all’educazione di bambini e adolescenti ha ancora una forza insolita e autorevole. Korczak non è «soltanto», mi si passi l’avverbio, uno degli ispiratori e dei padri fondatori della Carta internazionale dei Diritti del bambino. Ha scritto Philippe Meirieu: Profondément convaincu que l’enfant a le droit d’exister et d’être respecté en tant que tel, il énoncera, pour la première fois, l’idée de «droits de l’enfant». Il n’est pas, pour autant, partisan du laisser-faire, bien au contraire. Toujours exigeant, il met en place des dispositifs permettant à l’enfant de surseoir à ses impulsions (comme la «boîte aux lettres» où l’on écrit demandes et griefs, le «parlement» qui statue sur les règles nécessaires au fonctionnement de la collectivité, le tribunal, la gazette, etc.).

Ho parlato più volte di Janusz Korczak in queste pagine. Mi piace rammentare A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka (Corriere del Ticino, 8.9.2012) e il più recente Per capire e (ri)conoscere la barbarie (29.10.2016). In quest’ultimo scritto suggerivo la lettura di un bell’album illustrato, coi testi di Philippe Meirieu e le illustrazioni di PEF: Korczak. Perché vivano i bambini (2014, Editore Junior). Nei giorni scorsi l’amico Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, mi ha segnalato un altro bellissimo libro destinato a ragazzi dai 10/11 anni: «L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini» (di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello): come sempre, i libri per bambini e ragazzi dovrebbero interessare tutti gli educatori, dai genitori in là.

IRÈNE COHEN-JANCA, MAURIZIO A. QUARELLO, L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini, 2015, Orecchio Acerbo Editore

Si può leggere nell’ultima pagina del volume, dopo la fine del racconto, così intenso e commovente:

Poveri e senza famiglia, di migliaia di bambini – ebrei, ma non solo – Janusz Korczak si prese cura per oltre trent’anni. Pediatra, subito capì che per prendersene davvero cura alla medicina avrebbe dovuto affiancare la pedagogia. Nacque così una delle più straordinarie esperienze che la storia ricordi, con i bambini protagonisti attivi della loro crescita, della loro formazione.

Un’esperienza che continuò anche tra le mura del ghetto di Varsavia, con Janusz Korczak sempre al fianco dei suoi bambini.

Né, pur potendo, volle abbandonarli quando i nazisti decisero di trasferirli, per l’ultimo viaggio, nel campo di Treblinka.

La sua impronta, insieme a quelle dei suoi bambini, resta, indelebile, nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Onu a New York il 20 novembre del 1989.

È giusto, o almeno lo sarebbe, far conoscere agli adolescenti questa figura di Uomo, un medico, che ha creduto profondamente e intensamente nel potere dell’educazione. Sarebbe bello se anche gli insegnanti, i Maestri del mondo intero, riuscissero a mettere l’educazione in vetta agli obiettivi della loro quotidianità, ben prima di pensare alle competenze più o meno disciplinari e alle immancabili valutazioni: che quasi sempre sono il certificato del riconoscimento sociale, dell’esclusione o degli esami di riparazione.

L’insegnamento di Janusz Korczak – e di tanti altri – dovrebbe interrogare e intrigare ogni insegnante, soprattutto quelli della scuola pubblica e obbligatoria: che non è stata pensata e istituita per selezionare le élite – che sarebbe come dire per dare una spintarella a chi comanderà in un futuro più o meno prossimo – ma per ragioni ben più alte e fondatrici.

Oltre tante invenzioni della moderna tecnocrazia didattica, sarebbe utile andare sempre al cuore delle preoccupazioni e delle riflessioni che hanno ispirato le donne e gli uomini che hanno fatto la storia delle idee pedagogiche. Il contributo di Korczak ci dice che il rispetto si impara vivendolo, attraverso la mediazione di un adulto consapevole. Per logica deduzione ci dice anche che non ci sono altre scorciatoie didattiche per arrivarci: perché il Rispetto è figlio della Cultura.

Nel frattempo abbiamo letto che Michele Mainardi lascerà la direzione della scuola magistrale a fine agosto 2017, ma continuerà, al DFA, a guidare il Centro di competenza denominato Bisogni educativi, scuola e società: l’augurio è che gli insegnamenti di Janusz Korczak e di chi gli è pedagogicamente vicino possano diventare quanto prima uno gli elementi centrali della formazione dei docenti di ogni ordine e grado. Perché l’approccio epistemologico alla professione di educatore prima e di insegnante poi sta diventando un imperativo etico.

La porta, a questo punto, sembrerebbe aperta: con un sorriso ottimista.

© Foto Gabriele Campeggio, Illustrazione Ticinese, N° 11-Novembre 2016