In pratica collaboro con «Piazzaparola» dacché sono in pensione, con la prima impresa nel settembre 2013 al Castello di Locarno, quando abbiamo proposto a oltre un centinaio di allievi di 5ª elementare di Locarno e Minusio alcune novelle dal Decameron di Giovanni Boccaccio nel 700° della nascita del grande scrittore fiorentino.
Con Silvia Demartini, preziosa ed entusiasta collaboratrice, ho condotto l’11 aprile ad Ascona un momento letterario destinato agli allievi di 4ª e 5ª elementare del magnifico Borgo, nell’ambito della manifestazione «Eventi Letterari Monte Verità».
Con l’accompagnamento musicale del percussionista Oliviero Giovannoni, abbiamo proposto «Di tutti i colori in tutti i tempi. Scherzi e avventure nella letteratura di ieri e di oggi», vale a dire alcune pagine di Giovanni Boccaccio (Chichibìo cuoco, dal «Decameron»), Un lavoro di tutto riposo (dalle «Avventure di Tom Sawyer» di Mark Twain) e Il matrimonio di Luisa (dal «Giornalino di Gian Burrasca» di Vamba): tutte con l’accattivante e spassosa interpretazione dell’attrice Tatiana Winteler. E per terminare ecco anche uno scrittore in carne e ossa, Simone Fornara, che ha proposto una gustosa pagina da «Telefonino non friggermi la zucca!», il divertente racconto scritto con Mario Gamba (2011, Editore Raffaello, vincitore del premio Montessori).
Ha scritto Raffaella Castagnola sul Corriere del Ticino del 12 aprile:
Ascona come una piccola Mantova? Direi che la sfida degli Eventi letterari è stata vinta, anche a giudicare dalle sue prime manifestazioni proposte e dai tanti eventi collaterali ben frequentati, che hanno animato il borgo, il lungolago le piazze, ma anche i giardini. Complice il bel tempo, «piazzaparola» si è potuta svolgere nel suo ambiente naturale, ossia in piazza, alla presenza, ieri mattina, di un centinaio di bambini delle scuole elementari di Ascona che, attraverso quattro storie di secoli diversi (…) hanno potuto riflettere sull’evoluzione del modo di raccontare storie, ma anche sulla morale che esse contengono. Il divertimento è stato assicurato dai brani scelti, ma la vera sfida viene dopo: dall’esercizio all’ascolto e dalla riflessione sulla lettura, che questi testi comunicano; e dallo scambio, proficuo, tra varie discipline, perché la parola letteraria è stata declinata in modo teatrale e commentata – se così di può dire – dal bravissimo percussionista Oliviero Giovannoni.
Mi piace «Piazzaparola», una creazione di Raffaella Castagnola che, accanto alla presentazione di voci contemporanee, per lo più ticinesi, a un mondo di adulti, riserva anno dopo anno spazi di grande interesse ai ragazzini delle scuole elementari: che mostrano la loro capacità di sapersi scostare dai modelli televisivi se appena li si prende sul serio. E, forse, imparano a liberare la fantasia per costruire nella loro mente i personaggi, gli ambienti e le situazioni di storie senza immagini.
Il prossimo appuntamento sarà a Locarno il 12 settembre 2014, quando presenteremo la poliedrica figura di Leonardo da Vinci: «La cosa immaginata move il senso» proporrà l’opera di uno dei più grandi genî dell’umanità attraverso la musica, la scienza e le invenzioni, i capolavori dell’arte, nonché le favole, le leggende, le facezie e gli indovinelli. Perché Leonardo è stato anche «un ragionatore affascinante, un parlator forbito, un raccontatore “magico” e fantastico, un virtuoso della parola accompagnata dal gesto. Parlando di scienza, faceva tacere gli scienziati; ragionando di filosofia, convinceva i filosofi; improvvisando favole e leggende, conquistava il favore e l’ammirazione delle corti» (Bruno Nardini, in Favole e indovinelli, 1995, Ed. Giunti).
Col titolo «Crescere con i classici, con Collodi, Calvino e Rodari», il Corriere del Ticino ha pubblicato il 24 dicembre 2012, vigilia di Natale, una bella recensione di Silvia Demartini al volume «Il gatto ha ancora gli stivali?», edito recentemente dall’editore Dadò. Eccola.
Ci sono bambini e ragazzi di poche letture. Ci sono bambini e ragazzi che divorano Geronimo Stilton e i Diari di unaschiappa, «eroi» (in senso lato) cartacei di questo tempo. Poi ci sono quelli – sempre di meno? – che possono ricondurre anche le parole dei classici al loro «lessico famigliare», a quell’eco privato di voci che un giorno risuonerà nella loro memoria adulta. Ma che cos’è un classico? Qual è il suo statuto? È ancora utile proporne la lettura alle nuove generazioni? Vale la pena di tentare la sfida contro il tempo e contro il mutare dei gusti e della lingua? E poi: ci sono classici di ieri e classici di oggi? Certo, perché tra Salgari e Calvino o Rodari c’è un abisso che l’etichetta «classico» non basta a colmare. Risposte a queste e ad altre domande si trovano nel volume Il gatto ha ancora gli stivali? Perché leggere i classici per ragazzi, oggi e domani (Locarno, Dadò, 2013), a cura di Dario Corno, Simone Fornara e Adolfo Tomasini. Esito dell’omonimo Convegno del 28 agosto 2012, nato da un’idea dei curatori, il volume offre alcune luminose risposte e numerosissimi stimoli, e si configura, perciò, come un punto di partenza sia per coloro che si occupano di educazione (genitori, nonni, docenti), sia per tutti quei lettori appassionati nei cui ricordi Il gatto, Alice, Tom Sawyer e Piccole donne oscillano tra l’oblio e lo statuto imperituro di guide per la vita.
Dunque sì, parliamo di classici, e facciamolo a partire dai ricchi contributi degli autori (che comprendono, oltre ai curatori, Pino Boero, Walter Fochesato, Fabio Merlini, Renato Martinoni e Mario Gamba). Ciascun saggio è dedicato a un aspetto particolare: classici sospesi tra canone condiviso e canone personale dei «nostri» classici, classici – in particolare Pinocchio – come resistenti e non scontati modelli di lingua, classici come storie tra le cui pagine soffia il «vento della Storia», classici come deposito di memoria senza la quale il nostro «iper-presente smemorato» perde di sostanza, classici come legami o come strappi fra le generazioni, fino alla messa in discussione di certe scelte di comodo della letteratura odierna per l’infanzia e ad alcuni interrogativi fondamentali sulla proposta linguistico-culturale (dunque identitaria) della scuola nell’era «liquida» di web e smartphone.
Già, perché un testo classico spesso parla in modo piacevole, ma raramente in modo «facile»; e sognare, riflettere e imparare confrontandosi con le difficoltà ha un certo costo cognitivo. Un po’ come crescere. È uno sforzo che merita? Quest’opera fa capire che sì, merita, e la Guida ai classici della letteratura per l’infanzia (altro frutto del Convegno) offre un ulteriore strumento orientativo. La facilità, infatti, ogni tanto sacrosanta, non è un pregio assoluto, se si tratta di costruire conoscenze ed emozioni complesse, mentre è più stimolante l’«attrito delle giuste difficoltà», come lo definiva, nell’Ottocento, il linguista Graziadio Isaia Ascoli parlando di scuola. Proprio in virtù del ruolo chiave che possono svolgere, riflettere sui classici per ragazzi significa, insomma, «considerare il problema linguistico generale», ma anche i «bisogni pedagogici che descrivono in profondità il testo classico e i suoi irrinunciabili valori di contenuto», scrivono i curatori. Non solo, allora, parliamo di classici, ma conosciamoli. Magari cominciando dalla lettura di questo libro.
SCUOLA TICINESE, nel suo numero 313 di novembre-dicembre 2012, ha dedicato ampio spazio al convegno «Il gatto ha ancora gli stivali?» del 25 agosto 2012 al Teatro di Locarno.
Note attorno al convegno «Il gatto ha ancora gli stivali?», di Adolfo Tomasini
Si è svolto lo scorso martedì 28 agosto, al Teatro di Locarno, il convegno «Il gatto ha ancora gli stivali? – Perché leggere i classici a scuola, oggi e domani», organizzato dall’Ufficio delle scuole comunali del DECS e dal Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento della SUPSI, in collaborazione con la Direzione delle scuole comunali di Locarno, il Centro di Didattica dell’Italiano e delle Lingue nella Scuola (DILS) del DFA e il Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica, sezione Ticino (GISCEL-TI). Aperto con il saluto del direttore della SUPSI, prof. ing. Franco Gervasoni, e conclusosi con una riflessione del Consigliere di Stato Manuele Bertoli, direttore del DECS, il convegno ha riunito sull’arco dell’intera giornata circa 500 persone, tra insegnanti delle scuole comunali, studenti del DFA, autorità scolastiche, bibliotecari e altri.
Il convegno ha rappresentato un evento piuttosto inconsueto, soprattutto di questi tempi così frenetici, globalizzati, tecnocratici, con le pressioni ormai quotidiane che giungono dai settori più disparati e che vorrebbero una scuola sempre più efficiente, rapida e, soprattutto, facilmente spendibile nel mondo del lavoro. L’anomalia – che era stata una scelta consapevole – risiede in diversi argomenti.
Manifestamente contro tanta letteratura per ragazzi caratterizzata da prodotti prettamente commerciali, che vendono molto ma che presentano contenuti insulsi e forme linguistiche mediocri o anche peggio, si è scelta una riflessione sui classici, quelli della mia infanzia e di tante generazioni prima della mia, e sui classici di oggi e di domani, una serie di testi che, come hanno annotato Antonella Castelli e Orazio Dotta nella «Guida ai classici della letteratura per l’infanzia[1]», rappresenta «un sottile filo di continuità che si dipana tra ieri e oggi e collega il patrimonio dei classici ai libri contemporanei. Un filo di continuità che nonostante la trasformazione della narrativa recente, attenta ai cambiamenti dell’immaginario, rimanda ai grandi simboli fissati dai classici che ritornano e si trasformano».
Contro numerosi tecnicismi che si sono purtroppo impadroniti del potere dentro tante, troppe aule scolastiche, il convegno ha proposto una riflessione originale e lontana da certe mode di oggi, spesso tese a facilitare e banalizzare, col rischio – come hanno osservato taglienti Simone Fornara e Mario Gamba – di far crescere l’antitesi della teoria di Vygotskij: la zona di regresso prossimale, al posto di quella di sviluppo. L’idea era quindi di andare alla riscoperta dei classici della letteratura per l’infanzia suggerendo un più ampio spettro di approcci, oltre una certa tradizione un po’ ottusa che lega la lettura unicamente all’insegnamento dell’italiano.
Che cosa sono i classici?
Andare invece Alla ricerca di un tesoro perduto, i classici per ragazzi, per citare il titolo della relazione di Pino Boero[2], significa ad esempio incontrare l’India coloniale di Kim, imbattersi nell’Ultimo dei Mohicani in guerra contro i colonizzatori francesi e britannici dell’America settentrionale, duellare accanto ai Tre moschettieri nella Francia del XVII secolo, sotto il regno di Luigi XIII; mentre Ivanhoe ci riporterà indietro di qualche secolo ancora, nella leggendaria Inghilterra dei castelli e dei cavalieri “senza macchia e senza paura”, ma di una lealtà esemplare. «Faccio un esempio fra i mille possibili», ha osservato Boero. «Quando nel 1907 Ferenc Molnár pubblicò a puntate I ragazzi della via Pál, il sovrano di un Impero già in crisi non apprezzò il “parlamentarismo” del romanzo, né gradì probabilmente l’amore per la patria e l’esaltazione dell’eroismo nazionale ungherese. Ciononostante il successo fu immediato e nessun potere riuscì a impedirlo, il libro continuò il suo percorso trionfale (traduzioni in trentacinque lingue, milioni di copie vendute), a differenza dell’autore ebreo e borghese che già dagli anni Venti, lasciando prima il suo paese poi l’Europa, intuì la catastrofe che avrebbe toccato l’Ungheria: l’antisemitismo prima, il comunismo dopo, al punto che ai tempi dell’Unione Sovietica venne definito “cosmopolita borghese che ha sacrificato il talento per il successo nei paesi capitalistici”… Insomma se il libro non poteva essere vietato, era censurato il suo autore; eppure il giovane lettore non era toccato da queste vicende e il senso del libro, al di là delle contingenze storiche, stava (e sta) tutto nell’eternità dell’eroismo, nel debole che sconfigge il forte, nel dramma conclusivo che “trasforma in realtà ciò che nasce come finzione”[3]».
Ripercorrendo le diverse tappe del convegno, è apparsa evidente la forza direi multi-disciplinare dei classici, che spaziano ben oltre il fatto letterario in sé. Legare quasi per via naturale la lettura dei classici all’insegnamento della lingua italiana sembra quasi una banalità: attraverso i classici è possibile percorrere, quasi senza accorgersene, tanti aspetti della nostra Cultura, di natura storica, filosofica, religiosa, naturalistica, sociologica, geografica e tanto altro ancora. Tuttavia è doveroso riservare la giusta attenzione anche agli aspetti strettamente linguistici e letterari di cui i classici sono portatori, perché sarebbe reato grave disattendere tale tensione. Laddove tante attuali proposte di lettura per l’infanzia sono sciatte nella forma e nei contenuti, i classici si stagliano sul panorama delle letture come opere cólte, per quel che raccontano e per come lo raccontano. La loro lingua non ha paura di sfidare il lettore e di chiedere la sua collaborazione lungo il cammino del racconto: non ci sono timori dettati da quel falso rispetto per bambini e ragazzi, ai quali sembrerebbe, secondo certe tesi ancora così attuali, che tutto debba essere facilitato, con un approccio didascalico che rasenta il disprezzo del lettore. Insomma: C’era una volta e adesso non c’è più, anche con riferimento al linguaggio dei classici per bambini come modello di lingua e di italiano, tema sviluppato durante il convegno da Dario Corno[4], che ha annotato: «Un testo letterario viene solitamente considerato classico per una pluralità di ragioni. Normalmente queste ragioni riguardano la sua struttura narrativa, la sua storia e il cumulo di immagini, temi e motivi che lo innervano dalla prima all’ultima parola. Ma c’è, soprattutto nella nostra cultura, nella cultura italofona, una ragione in più per cui un testo può essere definito classico e questa ragione riguarda la lingua in cui è scritto. Si tratta di una considerazione che vale soprattutto per quei testi che chiamiamo “classici per l’infanzia” dato che è nell’infanzia che si apprende linguaggio, che si vengono a conoscere le parole e che si affinano i propri rapporti con la comunicazione verbale».
I classici: non solo storie accattivanti
Perché I sussurri delle storie portano anche il vento della Storia, come si è ben manifestato nella riflessione di Walter Fochesato[5]. A chi si rivolgono i classici se, per dirla con Italo Calvino, continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire? A questo riguardo Fochesato ha proposto diversi esempi: «Pensiamo a Piccole donne (Alcott, 1868). Qui le sorelle, coraggiose e intraprendenti, proclamano il loro diritto a progettare la propria esistenza di ragazze e di donne, ma ciò inizialmente accade perché il padre – il pastore March – non c’è, si è arruolato come volontario con i nordisti nella guerra di Secessione […]. Fra “strada” e “Storia” ecco Senza famiglia di Hector Malot (1878), una sorta di feuilleton a misura d’infanzia, ma anche di viaggio didattico attraverso la Francia dove – in filigrana – possiamo leggere il problema dei piccoli suonatori ambulanti, in genere di origine italiana; e il maestro Vitali si veste appunto come i banditi e i pastori di tante oleografiche convenzioni destinate a durare nel tempo».
Le storie, dunque, fanno giungere fino a noi le Voci del passato e propongono spesso dei modelli etici: si pensi a romanzi come il già citato I ragazzi di via Pál, oppure a Robin Hood, Oliver Twist, Heidi, … Con una sorta di furore iconoclasta, dagli anni ’70 in qua abbiamo mandato al simbolico rogo tante opere d’arte, spesso ritenute, a torto o a ragione, espressioni di certa borghesia bacchettona, moralista e un po’ insolente. Naturalmente c’erano educatori che usavano i classici come armi improprie, un po’ modelli immutabili da riprodurre acriticamente e un altro po’ precetti da seguire con devozione, per evitare l’inferno dell’aldilà. Di fronte a situazioni molto attuali di banalizzazione, di populismo, di grettezza, di chiusura, di intolleranza, tutti, sin dalla più tenera età, hanno il diritto di accostarsi al mondo con la più grande capacità possibile di leggere l’ambiente circostante in tutta la sua complessità. Lo sviluppo di una tensione etica che caratterizzi ogni cittadino di oggi e di domani non può più essere procrastinata. A un sistema di valori sacrificato, forse giustamente, sull’altare della speranza per una democrazia migliore, la generazione dei sessantenni di oggi non ha saputo opporne un altro che fosse davvero in grado di richiamare e porre l’accento sui principali elementi costitutivi di una moderna democrazia liberale. In questo senso la rilettura dei classici può riservare piacevoli sorprese, anche, o forse soprattutto, grazie ai tanti fili tematici del pensiero e del vivere civile che continuano a percorrere la storia senza soluzione di continuità. «La difficoltà odierna a incontrare la voce del classico, la sua opera e la sua “lezione” – ha detto il filosofo Fabio Merlini[6] – è certamente anche una conseguenza del nostro attuale rapporto con il passato, ossia della forma assunta dall’atto del ricordare esperienze, eventi e insegnamenti provenienti dal passato[7]. Non esiterei ad affermare che questa forma prende l’aspetto del sospetto, nella migliore delle ipotesi, e dell’oblio nella peggiore. Siamo irretiti in un presente che anche quando vive la crisi, la profonda crisi dei suoi assetti istituzionali, delle sue modalità riproduttive, dei suoi contenuti di verità, rimane fermo sulle sue posizioni. Privilegia sempre una lettura per cui le turbolenze che intervengono a sconquassare la continuità pacifica di pratiche, di costumi e di malcostumi sono interpretate come accadimenti congiunturali. Tutto deve comunque poter ricominciare come prima: se c’è memoria per un simile presente è sempre e solo memoria di sé, della propria identità – una memoria cortissima. E non potrebbe essere altrimenti, se tale identità è fuori discussione. La sua incontestabilità è proprio ciò che fa da ostacolo alla memoria d’altro – le voci e le lezioni dal passato. Ma è anche ciò che blocca il pensiero stesso del futuro come attesa d’altro».
Sarà vero?
Tra i diversi spunti di approfondimento e riflessione proposti ai relatori invitati al convegno, uno toccava un aspetto particolare: possono i classici per l’infanzia fungere da strumenti di legame generazionale e di identità? A questo interrogativo un po’ sibillino ha cercato di rispondere Renato Martinoni[8], con la sua relazione Viva i balocci, abbasso Larin Metica!, un titolo che richiama naturalmente Le avventure di Pinocchio. Martinoni non ha lesinato perplessità e scetticismi, sin dalla definizione di classico, esprimendo forti dubbi che i classici possano contribuire a creare identità e a legare tra loro le generazioni, già per il fatto che «i miei libri non sono quelli di mia figlia». «Sono più pessimista che ottimista», ha concluso. «Capisco – e sostengo – l’impegno della scuola, anche se poi troppo spesso alla scuola vengono delegati compiti che spetterebbero alla famiglia. Ma credo che anche il forzare le cose sia controproduttivo: c’è sempre il rischio che una generazione imponga delle letture a un’altra generazione, pur non potendone condividere le sensibilità o i punti di vista. Certo, la scuola ha il compito di mettere in dialogo le generazioni. Anche perché la scuola è il luogo dove si fa jogging mnemonico, per dirla ancora con Umberto Eco, che tra l’altro ha anche opportunamente ricordato che (cito) “imparare a memoria la Cavallina Storna è una forma di assicurazione sull’Alzheimer”[9]. Mi piace invece citare nuovamente Umberto Eco che, richiesto di un consiglio, suggerisce a uno studente di leggere il Saggio sull’intelletto umano di John Locke: dicendogli che quella lettura gli servirà tanto se scriverà una tesi di filosofia, all’università, così come se andrà a fare il venditore di macchine usate. Perché, dice Eco, la lettura dei classici serve a conoscere uomini che vale la pena di conoscere. “Leggere un classico”, conclude l’autore del Nome della rosa, “è come psicanalizzare la nostra cultura attuale, si trovano tracce, ricordi, schemi, scene primarie, ecc.”. Insomma: leggere un classico è tornare alle radici[10] e riflettere dentro sé stessi. È questa, forse, una strada da seguire da parte di chi cerca di costruire legami generazionali o di identità fra giovani e meno giovani. Anche se temo, lo avrete capito da un po’, che i classici intergenerazionali non esistono, o esistono sempre meno. E che sia meglio lasciare ad ogni generazione i suoi classici, destinati poi a declassarsi».
A tanto pessimismo hanno fatto da contraltare Simone Fornara e Mario Gamba[11], trattando del dovere di scrivere ed educare nel mercato editoriale del terzo millennio, un mercato purtroppo orientato verso un bambino/adolescente visto come un piccolo consumatore, ciò che genera una letteratura, spesso edita su precisa ordinazione, piegata alle urgenze mercantili dell’editoria: «Una “letteratura” che coglie con sensibilità imprenditoriale le mode e i successi del momento nel tentativo di replicarli, e produce lavori fabbricati in serie, pianificandoli con precisione, affidandoli (commissionandoli) ad autori facilmente sostituibili che riproducono temi e personaggi, inserendoli su trame intercambiabili. Si confezionano così libri tutti uguali, caratterizzati da “una scrittura finto-spontanea (graficamente resa con caratteri corsivi, cambi di font, maiuscole ed esclamazioni)” e accompagnata da “disegnini finto-infantili che spezzano il ritmo di ogni pagina e la fanno sembrare più leggera e più buffa”[12]. L’ovvio risultato è una letteratura che svaga ma non richiede sforzo intellettuale né stimola lo spirito critico nel bimbo». L’accusa è naturalmente pesante, tanto più che non sempre l’educatore, sia esso insegnante o genitore, è in grado di orientarsi al meglio nel momento delle sue scelte, confrontato con gli scaffali delle librerie e dei supermercati ampiamente colonizzati da prodotti librari che devono produrre ricavi sonanti. Così Fornara e Gamba, messa sul banco degli accusati questa produzione, hanno affrontato un’interessante requisitoria, attraverso un’accurata presentazione di esempi e indizi: nell’evidenza che tanti indizi fanno una prova.
La loro conclusione è tuttavia ottimista: «affinché il gatto continui a calzare gli stivali, e non semplicemente ad avere o metterli o infilarli, lo scrittore oggi deve essere pronto a combattere una dura battaglia, sopportando anche qualche sconfitta e l’onta di scelte ingiustificabili, rinunciando magari anche all’idea di vendere migliaia e migliaia di copie. Ma il valore educativo della lettura non può soccombere di fronte al miraggio delle vendite: il lavoro dello scrittore per ragazzi (e forse dello scrittore in generale) è diventato una sorta di missione, un tentativo ostinato (per dirla con il Calvino delle Lezioni americane) di contrastare “l’espandersi della peste del linguaggio”, cercando di opporre a essa, come degli anticorpi, “l’unica difesa che riusciamo a concepire: un’idea della letteratura”[13] Nessun dubbio: si tratta di una conclusione che suonerà risibile, o addirittura ridicola. Ma è una conclusione che intende opporsi alla banalizzazione, all’appiattimento e alle strategie di chi si ostina a voler allevare “piccoli cretini che devono diventare soltanto dei cretini adulti”[14]».
Un futuro di speranze, a qualche condizione
In opposizione al consumo frenetico di storie e parole e immagini, e all’abitudine del tutto e subito, della lettura piegata surrettiziamente alla necessità di insegnare a leggere e scrivere, ecco che i classici offrono un supporto didattico di estrema potenza, alla portata di chiunque abbia a che fare con l’educazione dei più piccoli. Per quel che ricordo, ho conosciuto Pinocchio attraverso la voce del mio maestro di scuola elementare, e tante fiabe – ricordo bene Il brutto anatroccolo e Il lupo e i sette capretti – per la voce di mia madre, oppure il Barbablù di Perrault in un’edizione molto gotica su un disco in vinile (azzurro!) che girava per casa.
Oggi più di ieri, la lettura ad alta voce resta una pietra miliare dell’Educazione, non solo linguistica. Leggere ad alta voce è opera di educazione linguistica, è momento etico e morale, è cultura. Ed è emozioni. Le fiabe, le favole e i romanzi sono come la musica. Non saranno la sinfonia mahleriana o il poema sinfonico di Liszt, lo scherzo o la ninna nanna di Chopin, il preludio di Bach: ma le storie che racconteremo ai nostri figli e ai nostri allievi forniranno loro un bagaglio straordinario di conoscenze, di emozioni e di modelli linguistici. Volete mettere la storia di Pollicino o di Hänsel e Gretel raccontata dalla mamma o dal papà?
Poi, col crescere delle capacità, bambini e ragazzi inizieranno da soli ad assaporare il piacere faticoso della lettura per conto proprio. Ma anche in questo caso è necessario essere oculati: tra quelli che Castelli e Dotta chiamano I classici del futuro ci sono testi alla portata delle competenze linguistiche e culturali dei nostri ragazzi in età di scuola elementare. È bene però essere sempre attenti. Geronimo Stilton non è da demonizzare, ma nemmeno da santificare. Un maestro mi raccontava di averlo dovuto proibire nella sua classe, perché l’annusare le puzze era diventato il gioco del giorno, ben oltre l’esercizio della lettura e delle storie raccontate, già di per sé non particolarmente sontuose. Come a dire: leggere i classici ci serve non tanto per annusare “puzze”, ma perché i bambini imparino nuove parole, più lingua, e rafforzino il loro diritto ad avere un immaginario (e non solo a consumarne uno che è già bell’e pronto, perché pensato facile facile dall’industria culturale a loro diretta). Insomma: più parole, meno puzze.
Ha detto Fabio Merlini, citando Nietzsche: «“Fretta generale”, “crescente velocità” e “cessare di ogni contemplatività”: sono i tre aspetti principali del declino, pensando al quale Nietzsche ha potuto non solo immaginare, in un futuro prossimo, il tramonto dell’attività della lettura e della scrittura. Ma ha potuto anche identificare la modernità politica ed economica come epoca della secolarizzazione radicale, dell’interesse immediato, della coscienza circoscritta alla superficie delle cose: “mai il mondo è stato più mondo”. La condanna all’attualità è allora rincorsa del tempo che allontana da sé, caduta nell’inessenziale. È vita cui manca valore. Vita priva di cultura».
In fin dei conti, sono ancora attuali i classici? Il convegno sembra aver risposto di sì, con molti distinguo e rafforzando l’idea che cresce la responsabilità del Maestro nello sceglierli. Ha scritto Luca Cignetti, docente-ricercatore al DFA[15]: «Il convegno locarnese non è valso solo a ricordarci quello che, in fondo, i teorici del racconto e i pedagogisti ci ripetono da sempre: è servito a trasmetterci la fiducia che tutto questo possa finalmente trasferirsi in una pratica didattica e pedagogica quotidiana. Sono stati i docenti, presenti e futuri, che hanno gremito il teatro a tenere accesa questa speranza. Il loro entusiasmo e la loro partecipazione valgono come la promessa di voler seminare ancora a lungo, nelle classi e nelle sezioni del Cantone, manciate di fagioli magici, e naturalmente di continuare a coltivare ancora la proverbiale astuzia dell’ingegnoso felino. Perché la sopravvivenza del nostro eroe e dei suoi stivali incantati non è mai stata davvero messa in discussione: i gatti hanno sette vite, anche quando abitano nelle fiabe».
“Il gatto ha ancora gli stivali?”: esposizione di classici per l’infanzia
di Antonella Castelli (Co-curatrice della mostra “Il gatto ha ancora gli stivali?”)
Preparare una mostra dedicata ai classici era una proposta molto stimolante, una vera sfida che ci ha subito entusiasmati non senza suscitare qualche perplessità.
Occorreva porsi alcune importanti domande: quali sono i classici della letteratura per l’infanzia? Quali titoli e quali autori potremmo includere in un elenco di classici per ragazzi? Quali le qualità per cui definiamo “classico” un testo?
Parlando di classico nella letteratura per ragazzi, non si può far altro che restare fedeli a una concezione che valuti fondamentali gli stessi requisiti dei classici in generale: l’eccellenza della qualità formale – la cura, la ricerca espressiva dell’autore – e la ricchezza e profondità di contenuto del testo letterario.
Ma mentre le parole sulla pagina rimangono sempre uguali, il mondo e il lettore cambiano. Cambiano le modalità di percezione, le valenze culturali, cambia l’immaginario. I dialoghi hanno preso il posto delle lunghe descrizioni. Lo stile, i tempi della narrazione non sono più quelli di una volta: la sinteticità, la rapidità delle immagini si sono in qualche modo trasferite nella scrittura, oggi altamente influenzata dalla comunicazione visiva. Una delle ragioni per cui i nostri ragazzi difficilmente leggono ciò che ha tanto appassionato le generazioni precedenti, è proprio la differenza del ritmo narrativo tra i testi del passato e quelli della narrativa contemporanea.
Il bambino oggi si abitua a una rapidissima serie di emozioni che a poco a poco condizionano tutte le sue scelte. È necessaria una grande esperienza di lettura per superare codici stilistici e culturali desueti, e affrontare questi testi del passato così diversi dalla narrativa contemporanea.
Che senso ha allora scegliere delle storie apparentemente tanto lontane per contesto, gusti, linguaggio?
Calvino ha scritto che “i classici sono quei libri che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire”. Se queste grandi storie continuano a parlare ai piccoli lettori generazione dopo generazione, uno dei motivi risiede nell’universalità dei temi che esse affrontano. I classici sono delle grandi metafore che parlano direttamente al lettore, sanno essere contemporanei perché sono uno sconfinato serbatoio di simboli di immensa suggestione (Beseghi).
Secondo Faeti i classici hanno assunto valore di paradigma e grazie ad essi, è possibile scoprire ambienti, atmosfere, personaggi e valori oggi dimenticati o perduti, eppure ancora così significativi per la vita dell’uomo.
Giorgia Grilli parla di “inattuale pedagogico”: sarebbe cioè fondamentale tener presente l’inattuale, individuare, recuperare quelle caratteristiche che hanno reso tali i classici (che sono appunto inattuali) a differenza di quei prodotti che durano solo una stagione per soddisfare, poiché novità, i gusti spesso effimeri del presente.
Una piccola mostra sui classici poteva quindi avere un senso.
Oggi la si può guardare con gli occhi un po’ nostalgici di chi sicuramente non ha dimenticato certe sue letture di gioventù; può forse essere d’aiuto a quei docenti che desiderano perfezionare la scelta delle letture in classe o approfondire alcuni argomenti particolari; può servire ad alcune biblioteche per completare le proprie collezioni; può essere anche solo una curiosità.
Poiché non esiste un vero e proprio canone, stilare un elenco di classici non è stato facile: il rischio di dimenticare autori o titoli importanti era grande.
La scelta è quindi puramente soggettiva e sicuramente incompleta. Nel limite del possibile, dà la precedenza a quelle opere che si pensa possano coinvolgere anche dei ragazzini della scuola elementare.
L’esposizione intende offrire una panoramica generale delle numerose pubblicazioni oggi in commercio, spaziando tra le varie collane presenti, note e meno note, per mostrare come e che cosa è cambiato in questo particolare settore dell’editoria per ragazzi, per scoprire il senso degli innumerevoli rifacimenti.
In questi ultimi anni non c’è casa editrice che non abbia sfornato una nuova collana di classici, compresi quelli che da tempo erano fuori catalogo, riproponendoli in nuove versioni integrali o con copertine di pregio.
Ad aver contribuito a questo revival collettivo sono soprattutto le recenti traduzioni.
Le traduzioni dell’epoca, grazie alle quali i lettori di lingua italiana hanno potuto conoscere i testi classici, “non funzionano più”. Oggi è possibile proporre ai ragazzi questo genere di lettura grazie a nuovi ottimi traduttori, spesso anch’essi autori di libri per ragazzi, che con indubbia abilità hanno saputo coniugare la levità stilistica con la qualità letteraria, nel rispetto del testo originale.
Un ruolo determinante spetta anche alle illustrazioni: spesso affidate ad artisti di grande valore, esse arricchiscono, incuriosiscono e rendono più accattivanti le ristampe delle numerose case editrici.
Inoltre, in alcune collane sono state aggiunte delle introduzioni o delle postfazioni, a volte curate da famosi scrittori per l’infanzia e indirizzate proprio ai giovani lettori, un ulteriore contributo per aiutarli a scoprire l’attualità di questi testi.
La mostra è suddivisa in quattro categorie: i classici, i classici del futuro, la mitologia e le fiabe classiche.
Per classici del futuro s’intendono quei libri che dalla seconda metà del secolo scorso hanno caratterizzato la letteratura per l’infanzia, opere di scrittori ormai conosciuti internazionalmente che hanno radicalmente rinnovato il panorama letterario. In una mostra dedicata ai classici non si poteva, infatti, non accennare alla presenza di chi sembra aver ricevuto il testimone: Rodari, Dahl, Lindgren, Piumini, Nöstlinger, Pitzorno, ecc.
La sezione dedicata alla mitologia ha uno scopo puramente rappresentativo: si tratta di un breve accenno concernente questo genere letterario per ricordare che ogni grande cultura ha le sue origini nella mitologia, sede delle preistorie di tutta la letteratura.
Le fiabe, custodi dei grandi archetipi del nostro immaginario, fonte di ispirazione per le storie di ieri e di oggi, sono lì per “marcare presenza”.
Infine, il catalogo che accompagna la mostra vuol essere un aiuto supplementare. In esso le voci si susseguono in singole schede, in ordine alfabetico per autore e titolo; sono indicati il titolo originale, la data della prima edizione originale, la lingua originale e l’edizione presente nella mostra, della quale vengono riportati il nome del traduttore, eventualmente dell’illustratore e l’incipit.
Desidero terminare questa breve presentazione con un mio suggerimento personale: per introdurre gli allievi al mondo dei classici e suscitare la passione per le narrazioni di grande respiro, il primo passo dovrebbe sempre essere la lettura ad alta voce. Da parte dell’insegnante, del genitore, del nonno o del bibliotecario, la lettura ad alta voce è sicuramente il modo più efficace per suscitare la passione per la lettura e permette di avvicinare anche quei testi che risultano troppo difficili per una lettura individuale.
Ci auguriamo che questo nostro contributo possa risvegliare il desiderio di scoprire o riscoprire libri, autori e personaggi suggestivi e inesauribili; in tal caso il nostro lavoro non sarà stato vano.
La mostra è a disposizione degli istituti scolastici, le biblioteche o altre istituzioni interessate. Oltre ai 170 volumi, la mostra comprende il catalogo, curato da Antonella Castelli e Orazio Dotta, edito dal Centro didattico cantonale; un cavalletto con testo esplicativo; alcuni cartelloni decorativi tratti dal catalogo. La mostra potrà essere prenotata contattando il Centro didattico cantonale (viale S. Franscini 32, 6500 Bellinzona, telefono +41 91 814 63 11, decscdc@ti.ch).
[1] Antonella Castelli e Orazio Dotta, Guida ai classici della letteratura per l’infanzia, Centro didattico cantonale, Bellinzona, 2012
[2] Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia, Prorettore alla formazione, Università di Genova.
[3] Giampaolo Visetti, I ragazzi di via Pál traditi dal Novecento in “la Repubblica”, 13 maggio 2007.
[4] Dario Corno, ricercatore in Linguistica Italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli studi del Piemonte Orientale.
[5] Walter Fochesato, direzione della rivista «Andersen».
[6] Fabio Merlini, Direttore regionale dell’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale. Presidente della Fondazione Eranos.
[7] cfr. F. Papi, “Per una ontologia del ricordare”, in Iride, n° 14, 1995.
[8] Renato Martinoni, professore di Letteratura italiana all’Università di San Gallo.
[9] Umberto Eco, Ricordate tutti i sette nani?, in La bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 1999, p. 188.
[10] Umberto Eco, Elogio dei classici, in La bustina di Minerva, cit., p. 243.
[11] Simone Fornara, docente-ricercatore in didattica dell’italiano presso il DFA/SUPSI, e Mario Gamba, docente di filosofia presso il liceo scientifico G. Galilei di Borgomanero, sono autori di diversi libri rivolti ai ragazzi.
[12] Grilli G. (2012), Libri nella giungla. Orientarsi nell’editoria per ragazzi, Carocci, Roma (p. 11).
[13] Calvino I. (1993), Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano (pp. 66-67).
[14] Denti R. (2012), I bambini leggono, Il Castoro, Milano (p. 169).
L’iniziativa «Per educare i giovani alla cittadinanza» sta generando un dibattito fitto. C’è da augurarsi che, alla fine, produca qualcosa di buono, e non la solita risoluzione parlamentare che, un colpo al cerchio e uno alla botte, dà a intendere che il problema è stato risolto. Il rischio, non da poco, è che le posizioni si polarizzino: ha ragione il primo firmatario Alberto Siccardi, segnalando sospetti, insinuazioni e letture troppo disinvolte (CdT del 3 giugno). Non credo che la proposta sia di per sé di destra o di sinistra. Ha scritto Giancarlo Dillena nel suo editoriale del 25 maggio: «Chi identifica nell’iniziativa solo l’espressione di una “destra populista” […] tradisce una visione curiosamente simmetrica del problema, nel senso di quell’“educazione politica” ideologicamente orientata a sinistra, che il Ticino e la sua scuola hanno ben conosciuto in tempi non molto lontani, quando questa concezione era assai ben rappresentata nel corpo insegnante». L’affermazione è sacrosanta. Ma, simmetria per simmetria, dimostra solo che se l’educazione alla cittadinanza è unilaterale il fallimento è pressoché una certezza. Non fosse così, i tanti partiti socialisti avrebbero dovuto prendere la maggioranza nel Paese già da diversi anni.
Personalmente continuo a credere che l’educazione alla cittadinanza abbia bisogno di alcune condizioni di base che in nessun modo possono essere (r)aggirate. Ad esempio è assolutamente necessario che al termine della scolarità obbligatoria i quindicenni abbiano acquisito quelle competenze basilari che consentano una critica lettura del mondo circostante. Raggiungere tale obiettivo comporta naturalmente delle scelte anche dolorose, per sfoltire i tronfi programmi della nostra scuola dell’obbligo e per investire in maniera convinta nelle competenze professionali degli insegnanti. Le finalità della scuola, sancite dall’art. 2 della Legge, sono di per sé il manifesto dell’educazione alla cittadinanza. Ma pretendere di educare e istruire i giovani dal punto di vista civico scavalcando ipocritamente le conoscenze essenziali, è come voler coltivare il frumento nell’asfalto.
C’è poi quella parte di educazione alla cittadinanza che coinvolge tutti, dentro e fuori dalla scuola, a volte modi di fare che paiono quisquilie. Prendiamo le forme di cortesia. A me non dà fastidio che gli allievi della mia scuola, quando m’incontrano, mi dicano «Ciao, direttore». Non è la forma, di per sé, che crea il rispetto. Mi secca invece che i nostri bambini e giovani – o allievi e studenti – non imparino nemmeno cosa siano, le forme di cortesia: non le conoscono dal punto di vista linguistico, né sanno distinguere quando usarle, perché nessuno glielo insegna. Capita però di peggio: assai spesso i genitori che bussano alla mia porta, soprattutto se stranieri, mi dicono ciao e mi danno del tu. Maleducati e cafoni? Certo che no. L’hanno imparato proprio qui, sul posto di lavoro, nei centri di accoglienza, in polizia, in tanti uffici dello Stato e dei sindacati. Quasi che dandoci tutti del tu fossimo più democratici e ospitali. In modo analogo sin da piccoli si impara una certa «economia cognitiva», che impoverisce e ci fa sembrare un popolo di buzzurri. Ha scritto Dario Corno, linguista torinese, che esistono almeno 61 forme diverse per indicare il verbo arrabbiarsi. «E tuttavia sembra che ne prevalga una sola, la quale asseconda la generale tendenza all’uso del turpiloquio nel linguaggio quotidiano e comune». Forse si potrebbe ripartire già da qui.
La nostra scuola si appresta a vivere molti cambiamenti in quest’anno appena iniziato. Per restare alle trasformazioni più appariscenti, sarà l’anno di HarmoS, che entrerà nel vivo a partire da settembre. Poi vi sarà il passaggio al Cantone dei docenti di sostegno pedagogico delle scuole comunali, ciò che dovrebbe pure comportare un potenziamento del servizio. Sul breve termine scadrà il concorso per l’assunzione del nuovo direttore del DFA, al quale spetterà il non facile compito di rasserenare l’ambiente e, soprattutto e finalmente, di dar vita a curricoli di formazione e di abilitazione degli insegnanti coerenti con gli obiettivi della casa madre – la SUPSI – e rispettosi delle attese del Paese. Restano poi nell’aria le tante proposte di riforma nella scuola dell’obbligo, contenute in due distinte iniziative popolari che hanno ottenuto migliaia di consensi: classi meno affollate, più sostegno pedagogico, più mense e doposcuola. L’enorme cantiere, a sentire i progettisti, dovrebbe servire a una migliore formazione dei nostri ragazzi e dei nostri giovani. La prova del nove seguirà tra un paio di decenni. Però non si è ancora entrati nel vivo del significato della «migliore formazione», che continua a essere un coacervo di inespresse visioni tanto o poco soggettive.
Oltre quarant’anni fa, in quell’epoca di confine tra un prima e un dopo, circolava uno slogan, che alcuni attribuivano a Ernesto Guevara: «El niño que no estudia no es buen revolucionario». Oddio, per dirla tutta questo motto non era tra i più gettonati, a favore di altri meno impegnativi. A me, che non sono comunista né lo sono mai stato, quella frase piace sempre più. Innanzitutto credo davvero che una rivoluzione, dentro tante aule scolastiche, sia auspicabile. Urge fornire i cittadini di domani e dopodomani degli strumenti per leggere il mondo: sono strumenti complicati, formati da tante competenze e nozioni che bisogna essere in grado di mettere in relazione tra loro. Si tratta di attitudini difficili da valutare nel loro complesso, ma sicuramente più vantaggiose per gli individui e per la società intera. Perché le famose «teste ben fatte» rappresentano l’ineludibile piedistallo sul quale erigere la libertà individuale, l’unico autentico cane da guardia della democrazia. Dovremmo riuscire al più presto a lasciarci alle spalle quella scuola che si vorrebbe immediatamente spendibile, a favore di un luogo di educazione a tutto campo, in cui la lingua italiana, la riflessione e la cultura tornino a essere al centro dell’azione della scuola, dei suoi istituti e dei suoi insegnanti. Una testa ben fatta, ad esempio, permette di difendersi dall’incretinimento televisivo, aiuta a intuire che non vale la pena indebitarsi per acquistare il SUV in leasing, scoraggia l’abituale sbornia del sabato sera, agevola il progetto della propria vita e consente di educare i figli consapevolmente. Con una testa così si prendono addirittura meno rischi quando si va a votare: perché è più difficile turlupinare il cittadino che, avendo imparato a riflettere sin dal suo accesso a scuola, continuerà a studiare perché c’ha preso gusto. Ho letto in questi giorni un bel libro di Valerio Varesi, «La sentenza». Ne cito un passaggio esemplare: «Dopo Ilio prese la parola Vampa, (…) e già dalle prime frasi apparve chiaro che avrebbe perso il confronto agli occhi della giuria partigiana. Il commissario politico aveva parlato con linguaggio semplice, ma efficace, mentre Vampa s’inceppava, stentava, bisticciava con le frasi e si vedeva che pensava in dialetto tentando di tradurre in italiano. Jim capì che si trattava di un processo squilibrato e che anche lì, tra i comunisti, c’erano le differenze di classe che Ilio a parole avrebbe voluto annullare. Sui venti partigiani quasi analfabeti l’eloquenza del commissario politico l’avrebbe avuta vinta comunque». L’analfabetismo di oggi non è più solo una questione di ignoranza del leggere e dello scrivere: c’è un analfabetismo del pensiero da affrontare in fretta.
Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola