Il 2 gennaio Dante Bertolini avrebbe compiuto 100 anni. Una nota biografica del 1994 racconta che «nato nel 1911 a Maroggia da padre italiano, di Reggio Emilia, e da madre svizzera, una Bagutti di Rovio, giunse a Locarno con la famiglia, bimbo di due anni. Nella città sul Verbano, frequentò tutte le scuole, dalle elementari alla Magistrale, ove ottenne, nel 1931, la patente che lo abilita a insegnare nelle elementari e, nel 1937, nelle Maggiori. Insegnò per venti anni nelle scuole del suo comune. Nel 1937, ottenuta una borsa di studio dal Consiglio di Stato, poté frequentare la facoltà di Magistero di Roma. Dal 1951 al 1971 fu ispettore scolastico». È in quegli anni romani che nasceranno i racconti continuati «Marco», «Il bel sentiero», «Rivabella» e «Al passo con la vita», quattro libri di lettura per le scuole elementari approvati «dal lod. Dipartimento della Pubblica Educazione del Canton Ticino», come figurava nei frontespizi delle pubblicazioni autorizzate per la scuola dell’obbligo, che giunsero sul mercato editoriale ticinese a partire dal 1939, dunque in piena guerra mondiale, accompagnando diverse generazioni dalla prima alla quinta elementare. Nella presentazione in un’edizione del 1980, Cleto Pellanda, allora capo dell’Ufficio dell’Insegnamento Primario, ha scritto: «Quando si è giovani, oltre al tempo occorrono anche il consiglio e l’incitamento di qualcuno. Ebbene, questo “qualcuno” è proprio lì, alla Facoltà di Magistero: si chiama Giuseppe Lombardo-Radice. Nella primavera del 1938 il lavoro è pronto e Bertolini lo sottopone per esame all’illustre Maestro, il quale “sente il dovere” – sono parole sue – di esprimere sullo stesso il suo giudizio ad Augusto Ugo Tarabori, allora segretario di concetto del Dipartimento della pubblica educazione del Cantone Ticino. “Il lavoro – scrive Lombardo-Radice – è riuscito felicemente; assolutamente privo di retorica, schietto per limpidezza di dettato, semplicità di idee, felice intuito dell’animo dei fanciulli, delicatezza morale”».
Rileggere oggi quei racconti riserva qualche sorpresa, alla faccia dei pregiudizi di generazioni, come la mia, che a partire dagli anni ’70 li avevano liquidati come «becero vecchiume reazionario», rivolgendo i propri sguardi ad altre tematiche che allora sembravano – e certamente erano – più moderne. Bertolini, e con lui i tanti maestri che avevano adottato quei libri (assai spesso obtorto collo, occorre pur dirlo, ché l’autore era pure ispettore scolastico e dunque ben inserito negli ingranaggi del potere dipartimentale dell’epoca), usava un linguaggio ricco e variegato, non evitava il passato remoto o il congiuntivo («I due bambini ammirarono il lago che, visto così dall’alto, pareva più ampio»), seminava qua e là riferimenti culturali di grande interesse: «Poi guardavo dall’altra parte, verso sud. Lontano lontano, scorgevo Porto Ceresio: l’Italia. E immaginavo di potermi recare in quella nazione amica, della quale mi avevano raccontato meraviglie. Forse gli artisti di Bissone (i Maderno, i Borromini, i Gaggini e coloro il cui nome sta scritto sulla lastra di marmo in piazza), di Melide (i Fontana e gli altri) e dei paesi intorno, quando partivano, alcuni secoli fa, da bambini, per le grandi città italiane, dove lavoravano con i genitori e imparavano l’arte del costruttore, se ne andavano in quella direzione, in barca». Erano, insomma, libri scritti bene, ricchi di umanità e di temi essenziali, radicati in un territorio, coi suoi usi e costumi, le sue abitudini, i suoi abitanti e i suoi confini, al di là dei quali, tuttavia, c’erano altri territori da esplorare, conoscere e rispettare. I quattro volumi ressero fino ai primi anni ’70, coprendo dunque un trentennio pieno. L’abbandono di quei racconti dopo il sessantotto, quindi, appare ancor oggi giustificato e sostenibile, al di là dei modi poco ortodossi per rimpiazzarli. Semmai, a doverci interrogare, è la futilità di un gran numero di libri per ragazzi che affollano oggi le scansie delle nostre aule, la loro inconsistenza linguistica e culturale: in definitiva la loro imitazione del modello televisivo, sbrigativo, spezzettato, di immediata fruibilità e di altrettanto immediata volatilizzazione.
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Anche i classici per ragazzi servono per crescere bene
Il 3 marzo 1977 ebbi occasione di seguire a Locarno un’affollata conferenza pubblica di Gianni Rodari, premio Andersen nel 1970, una sorta di Nobel della letteratura infantile. Quella eccezionale serata mi è tornata in mente quando sono stato invitato a partecipare a un incontro di riflessione sul tema «A quattro mani sulla scia di Rodari – Tra grammatica della fantasia e educazione linguistica», in margine alla presentazione del libro «I pipistrelli di Guardalà», di Mario Gamba e Simone Fornara (Raffaello editrice, 2010), serata che si è svolta lo scorso 24 novembre al Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento della SUPSI di Locarno. Per noi giovani maestri dell’epoca Gianni Rodari era un vero e proprio mito, che incarnava pienamente lo spirito di quei tempi di grandi cambiamenti politici e di costume. Le sue «Favole al telefono», «La freccia azzurra», «Le avventure di Cipollino», «C’era due volte il barone Lamberto», «Gelsomino nel paese dei bugiardi», «La torta in cielo» o «Filastrocche in cielo e in terra» – solo per citare qualche titolo tra i più noti – rappresentavano per noi la migliore e più giusta risposta alla letteratura che aveva accompagnato sin lì gli allievi ticinesi attraverso la scuola elementare. Si può ipotizzare che tutte le generazioni che hanno calcato le nostre aule scolastiche a partire dagli anni ’40 abbiano conosciuto le storie raccontate da Dante Bertolini nei suoi quattro libri di lettura: «Il bel sentiero», «Rivabella», «Marco» e «Al passo con la vita». È probabile che questi racconti conquistarono il loro successo grazie al fatto che si contrapponevano ai libri di lettura pubblicati in Italia, con tanto di consenso ministeriale, assai spesso intrisi di cattolicesimo e clericalismo – i Patti lateranensi erano ancora ben saldi in sella – e con una sorta di celebrazione del “fanciullo italiano”, ereditata dal fascismo, che era lungi dall’assopirsi. I temi trattati da Bertolini riflettevano naturalmente i precetti educativi del suo tempo: la vita, la morte, la patria, le istituzioni, la riuscita scolastica e il successo nella vita, il lavoro, il sentimento religioso, l’unità familiare, la salute.
Accanto a ciò – ed è giusto ricordarlo – i maestri si rivolgevano assai spesso ai classici quando leggevano delle storie ai loro allievi: dai «Ragazzi di via Pal» a «Pinocchio», dal «Richiamo della foresta» a «Gianburrasca» all’immarcescibile «Cuore», senza scordare le belle addormentate, i gatti con gli stivali, le piccole fiammiferaie, i soldatini di piombo e gli acciarini magici – e cosa fosse un acciarino l’avremmo forse capito meglio più in là. È però indubbio che i maestri della mia generazione, entrati a dosi “industriali” nella scuola elementare ticinese, abbiano chiuso quell’epoca di letteratura per l’infanzia, preferendo Gianni Rodari e i suoi epigoni a Bertolini, pur mantenendo, almeno in parte, i classici. Oggi, quarant’anni dopo l’ideale passaggio delle consegne da Bertolini a Rodari e, soprattutto, dopo il crollo del muro di Berlino, si ha l’impressione che l’editoria per ragazzi sforni autori e titoli a ritmi impressionanti, che però non resistono nel tempo e non diventano dei classici, salvo le solite eccezioni. Nelle classi di oggi sfilano storie politicamente corrette ma prosciugate dalle emozioni, spesso scritte con un italiano povero e sciatto: gli editori vogliono una lingua sempliciotta, senza congiuntivi e termini astrusi. In compenso i nostri ragazzi non conoscono più i classici, se non attraverso le riletture disneyane, e molti non conoscono neanche più lo stesso Gianni Rodari. È difficile dire se queste nuove storie lascino qualche segno tangibile nella personalità dei ragazzi di oggi. L’impressione è che, al di là del loro uso strettamente funzionale all’insegnamento dell’italiano, un gran numero di libri non sia in grado di educare e di contribuire alla costruzione di un’identità: è raro trovare storie attuali e, nel contempo, affascinanti che sappiano parlare ai ragazzi di oggi del mondo in cui vivono, dense delle inevitabili emozioni di cui hanno bisogno per crescere.
Saper leggere e scrivere è un’inutile suppellettile?
La «Federazione svizzera Leggere e Scrivere» ha consegnato sabato scorso alla presidente della Confederazione Doris Leuthard un appello, sottoscritto da oltre 20 mila cittadini, che rivendica l’accesso alla lettura e alla scrittura per tutti. La petizione afferma che la lettura e la scrittura sono beni fondamentali, che il fossato tra chi sa e chi non sa non deve più aumentare e che l’accesso alla scrittura dev’essere garantito a ognuno. Sabato scorso era il 10 settembre 2010, mica qualche sabato d’inizio ’800: e allora c’è qualcosa che stride, in un paese come il nostro. Tuttavia sembra che l’analfabetismo di ritorno, cioè l’incapacità di leggere, scrivere o parlare in una lingua corretta e comprensibile, concerna 800 mila adulti, di cui quasi la metà ha frequentato la scuola dell’obbligo nel nostro Paese. Ma siamo sicuri che si tratti solo di analfabetismo di ritorno? Nei primi anni di questo secolo, PISA – l’ormai noto programma di valutazione internazionale degli studenti promosso dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – aveva verificato che quasi il 20% dei quindicenni svizzeri era poco più che analfabeta. Le cause di simile catastrofica situazione sono ovviamente innumerevoli. Ha detto Roger Nordmann, presidente della «Federazione», nel discorso di sabato a Berna: «È ovviamente importante focalizzare l’attenzione sulla scuola obbligatoria, ma ciò non è sufficiente nella misura in cui nel nostro paese ci sono oggi centinaia di migliaia di illetterati adulti, che in nessun caso rientreranno nella scuola obbligatoria».
Un’altra domanda che non si può eludere, però, concerne proprio la scuola, e non solo quella dell’obbligo. Dal 2000 a oggi si sono fatti molti proclami e si sono varate, qua e là, riforme e riformette. Ma, nei fatti, sembrerebbe che a nessuno interessi raggiungere l’obiettivo che al termine della scuola dell’obbligo ognuno sia almeno sufficientemente alfabetizzato e acculturato. Se la lingua madre è la lingua che permette pure di pensare, la sua padronanza è per davvero un diritto primario, peraltro garantito dalla Costituzione. Eppure si conoscono situazioni almeno imbarazzanti, come ad esempio studenti che hanno ottenuto la maturità senza padroneggiare neanche l’ortografia. D’altra parte l’obiettivo del plurilinguismo spinto è continuato anche dopo la pubblicazione del primo rapporto PISA, come se l’analfabetismo dei nostri quindicenni, questa volta di partenza e non di ritorno, fosse un evento di niuna importanza. È una situazione inaccettabile, che dovrebbe far accapponare la pelle. Invece annega nell’indifferenza di chi regge il Paese, forse convinto che per lavar piatti o pulire cessi negli ospedali sia addirittura meglio fare a meno di una testa ben fatta. Chissà se andrà a votare questo quasi un milione di illetterati? E, in caso affermativo, come farà mai a formarsi un’opinione, se non è in grado di leggere un articolo di giornale, di seguire un dibattito televisivo, di scrivere un biglietto augurale o un semplice e-mail in italiano (o in qualsiasi altra lingua)? Il dubbio è che anche la Svizzera abbia i suoi reverendi Terry Jones, populisti e reazionari che possono pescare indisturbati proprio nel mare magnum dell’ignoranza più rozza e volgare per costruire le proprie fortune politiche ed economiche. Anche se negli ultimi decenni il mondo è cambiato repentinamente e si è fatto immensamente più complicato, vi sono dei capisaldi costituzionali che resistono all’usura di ogni tempo. Uno di questi è l’obbligo scolastico definito dall’età. Forse sarebbe il tempo di ripensare questo confine e di definirlo in altri termini. In fondo a quindici anni uno può essere arrivato anche solo alla seconda media. Oppure otterrà la licenza nei giusti termini di età, ma senza aver raggiunto gli obiettivi richiesti. Insomma, bisognerebbe partire da lì, anche per creare delle proposte di formazione continua che non siano solo dei tempi supplementari: che, si sa, finiscono spesso ai rigori.
Ma è o non è importante imparare bene l’italiano?
Leggo sempre con molto interesse la rubrica «Sottobanco», che Fabio Pusterla firma sul settimanale «Azione». Sul numero 10 di quest’anno, Pusterla si è nuovamente soffermato sull’importanza di sostenere l’insegnamento dell’italiano. Dal suo osservatorio di docente al liceo, si chiede retoricamente cosa significhi, nella realtà quotidiana, il fatto che «gli studenti, a ogni livello, sembrano oggi possedere un bagaglio linguistico minore di quello dei loro coetanei di venti o trent’anni fa», una situazione «come minimo allarmante», che «è stata discussa, studiata, monitorata». Portando come esempio la proposta di lettura del «Cinque Maggio», ben descrive la grande fatica che è necessario mettere in conto per aiutare gli studenti a sopperire alle loro manifeste lacune linguistiche e culturali. Esagerato, il prof. Pusterla? No, credibilissimo, se appena si considera che vi sono fior di studenti che entrano all’alta scuola pedagogica con l’ortografia che fa ampiamente cilecca. Che italiano insegneranno mai, una volta diventati maestri?
Ricordo che, durante la mia infanzia – diciamo a cavallo tra l’elementare e il ginnasio – mi ero divertito molto con letture indimenticabili. Penso su tutte alle «Avventure di Tom Sawyer» o ai «Ragazzi della Via Pal», senza ovviamente scordare le stupende storie di London, Verne, Stevenson, Malot, … La gran parte dei ragazzi di oggi non sono in grado, a quell’età, di affrontare da soli «Ventimila leghe sotto i mari», «Kim» o «Davide Copperfield»; e quando avranno (forse) raggiunto il livello di competenze linguistiche per percorrere romanzi come questi, cercheranno altre storie, più adatte alla loro età. Ergo: non li leggeranno mai. Nel frattempo si cimenteranno – si fa ovviamente per dire – con libri dal contenuto banale e dalla lingua scialba. Così non potranno crescere né linguisticamente, né culturalmente.
Sembra evidente che tutta la scuola, dall’elementare al liceo, abbia abbassato le sue pretese sul piano dell’insegnamento dell’italiano. I motivi di talune sciagurate scelte del passato più o meno recente sono difficili, ma non impossibili, da capire; oggi, poi, ci si mette anche l’editoria, che sforna titoli come noccioline senza curarsi troppo della loro essenza letteraria e pedagogica. Ho un collega, docente di italiano in un istituto terziario, che coltiva un passatempo stupendo: scrive libri per ragazzi. Mi ha raccontato che assai spesso le case editrici chiedono delle revisioni, poiché i testi sono giudicati troppo difficili. È una corsa al ribasso del tutto incomprensibile, che non permette nemmeno di capire chi, secondo le case editrici, potrebbe non acquistare questi libri perché troppo impegnativi: i maestri o i piccoli lettori?
«Insomma» conclude Pusterla, «il problema è gravissimo, e serve a poco dirsi che interessa l’intero Occidente; il Ticino ha se non altro un vantaggio: è piccolo». Concordo: se per davvero, al di là degli «alti lai», esiste la consapevolezza della drammaticità della situazione, allora non dovrebbe risultare così difficile metterci d’accordo un po’ in fretta e cominciare ad alzare l’asticella, dalla scuola dell’infanzia su su fino al liceo, non certo con l’intento restauratore di selezionare delle élite, ma con la dichiarata intenzione di imprimere un’impennata al livello linguistico medio di tutti i nostri allievi e studenti. Per il momento non serve molto: più che di astruserie didattiche e di complicati piani formativi per gli insegnanti, è necessario decidere che la lingua italiana è l’asse portante dell’educazione e dell’istruzione dei nostri ragazzi e giovani. Già questa dichiarazione, se non limitata al novero delle enunciazioni di facciata, sarebbe un potente strumento nelle mani della scuola. In ogni modo non è più ammissibile mettere l’italiano sul mercato della formazione, in balia d’ogni sorta di contrattazione, come se si trattasse di una materia qualsiasi. Perché è noto che meglio si legge, si scrive e si parla, meglio si pensa. Oppure è proprio questo che darebbe fastidio?
La scuola e quella vecchia scatola di cartone zeppa di poesie
Quando s’avvicinava la fine dell’anno scolastico, il maestro cavava dall’armadio una scatola di cartone zeppa di poesie. Era il segnale che, entro metà giugno, sarebbe arrivato l’«esaminatore» e che noi allievi avremmo dovuto recitare una poesia a memoria davanti a lui, ai nostri compagni e ai nostri genitori. Un anno mi capitò Palazzeschi: «Clof, clop, cloch, / cloffete / cloppete / clocchette, / chchch… / È giù, / nel cortile, / la povera / fontana / malata; / che spasimo! / sentirla / tossire». Da studiare, un supplizio. Altri compagni erano stati più fortunati: «La nebbia a gl’irti colli / Piovigginando sale, / E sotto il maestrale / Urla e biancheggia il mar», oppure qualche verso del Pascoli: «Nella Torre il silenzio era già alto. / Sussurravano i pioppi del Rio Salto. / I cavalli normanni alle lor poste / frangean la biada con rumor di croste».
Era un rito durato tre anni, e non saprei nemmeno dire se questa sfilata poetica fosse appannaggio della nostra classe e del nostro anziano maestro, oppure se fosse una delle tante incallite consuetudini di quella scuola dei primi anni ’60. Quella era l’esibizione di fine anno, che ritrovava forse un senso nelle decine di poesie mandate a memoria nei mesi precedenti. Facile che il sabato ce ne dettasse una, ovviamente da saper recitare il lunedì mattina: «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti / Van da San Guido in duplice filar, / Quasi in corsa giganti giovinetti / Mi balzarono incontro e mi guardar». Qualche volta, invece, si allontanava dai sentieri della poesia; allora si arrivava al sadismo mnemonico: «Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi…». La scuola elementare, insomma, si serviva della poesia per allenare lo studio a memoria. Qualche anno più tardi, al ginnasio, cominciammo a scomporle, le poesie, per ‘penetrarle’: così invece di mandare i versi a memoria, dovevamo restituire le interpretazioni preconfezionate. A dirla tutta, quel disfarle per coglierne il senso era francamente di una noia mortale e astrusa, che a molti ha fatto odiare Pascoli e Carducci, Foscolo e Leopardi. E, naturalmente, Dante e Manzoni.
Poi venne il ’68, che giustamente fece strage di tali pratiche, anche se in modo sbrigativo e senza guardar tanto per il sottile. Ma assieme alle pratiche si è perso per strada anche un patrimonio culturale che, sin lì, si trasmetteva di generazione in generazione. Sopravvissero per un po’ alcuni poeti più recenti: Ungaretti, Quasimodo, Saba, … Poi più nulla, o poco più. Da troppi anni la scuola dell’obbligo si è sbarazzata della poesia – naturalmente al di là delle immancabili «lodevoli eccezioni», che pure esisteranno. Le rare volte che fa capolino, la poesia è al servizio di qualche tema (l’autunno, la pace, …) ed è facile che, in seguito, gli scolari stessi siano invitati a verseggiare per conto loro, illudendoli che per scrivere anche solo una poesiola basti un po’ di creatività (eccola, la parolina magica). Anche da qui, forse, sono nati quei tantissimi «poeti» che – come ha scritto recentemente Saverio Snider – trascorrono «le loro serate […] a scrivere (andando a capo ogni tanto) pensierini ricchi di saggezza e di luoghi comuni».
Non so se, a tanti anni di distanza, sarebbe ancora possibile restituire la poesia alla scuola. Certamente, se lo si facesse, si dovrebbe inventare un nuovo approccio, partendo dalla musicalità, dalle figure retoriche, da questo stupendo gioco con le parole, le emozioni, i sentimenti. Credo che sia possibile accostarsi a «Il sabato del villaggio» senza far torto ai propri allievi o allo stesso Leopardi, lasciando invece definitivamente alle spalle il bisogno di usare quei versi come strumenti di tortura pedagogica. Anche perché le crudeltà selettive non sono state annientate con l’abbandono della poesia: hanno solo cambiato aria. Ma non si sa se qualcuno ne ha tratto un guadagno.