Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che lo scultore Pigmalione, «con arte invidiabile, scolpì nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna vivente era in grado di vantare: e s’innamorò dell’opera sua», sognando che un giorno si animasse. Così, quando venne la festa di Venere, depose le offerte accanto all’altare e disse: «O dei, se è vero che tutto potete concedere, vorrei in moglie una donna uguale alla mia d’avorio». Venere esaudì la preghiera e Pigmalione, tornato a casa, vide la statua animarsi a poco a poco, respirare e spalancare i suoi occhi bellissimi.
In educazione è noto l’«effetto Pigmalione», così definito cinquant’anni fa da due studiosi, Rosenthal e Jacobson, che idearono un esperimento singolare: selezionarono a caso un certo numero di ragazzi di scuola elementare e dissero agli insegnanti che si trattava di alunni molto intelligenti. Dopo un anno tornarono in quella scuola e verificarono che i loro «genietti», benché scelti casualmente, avevano confermato le previsioni, migliorando notevolmente il rendimento scolastico, tanto da giocarsela in volata per essere i primi della classe. Non è necessario essere molto sagaci per capire che il trucco funziona anche al contrario: di’ al maestro, con le giuste parole, che Pierino non è un fenomeno, e facilmente il pregiudizio farà il suo corso, inevitabile e spietato.
Per restare in tema di storie, in queste ultime settimane si è letto che un gran numero di insegnanti delle scuole elementari non ne vuol sapere della «Cartella dell’allievo», uno strumento introdotto cinque anni fa, che sarà pian piano esteso a tutta la scuola dell’obbligo e che vorrebbe evidenziare «gli elementi più significativi che descrivono il processo di insegnamento/apprendimento, supportando la progettazione degli interventi didattici e favorendo allo stesso tempo il flusso di informazioni tra i docenti in un’ottica di continuità progettuale». Alcuni collegi dei docenti si sono messi di traverso, e il malumore serpeggia da Airolo a Pedrinate. Gli insegnanti mettono anzitutto l’accento sul notevole peso burocratico che comporta la tenuta regolare della cartella, «burocrazia che – scrivono i maestri di Losone – più che portare vantaggi sottrae tempo ed energie preziose che ogni docente sicuramente preferirebbe poter investire in modo utile e proficuo nell’insegnamento, nella formazione e nell’aggiornamento professionale».
Non ho lo spazio per elencare tutto quel che dovrebbe finire in quel dossier, e la lista risulterebbe noiosa. Il fatto che più sconcerta, però, è che si chiede di raccogliere un’enorme quantità di dati sensibili, dimenticando che ciò che finirebbe nella cartella non sarebbe neutro. Non c’è nulla di scientifico e inequivocabile nel riporvi elementi che «testimoniano l’evoluzione degli allievi» o i racconti «dei momenti significativi in termine di conquiste di nuove competenze». Così il tempo smisurato per tenere aggiornati migliaia di fascicoli – tempo rubato all’insegnamento – non migliorerà di un ette la qualità della scuola, con la certezza che il passaggio di informazioni da un docente all’altro moltiplicherà successi e insuccessi colpevolmente inzaccherati dal pregiudizio. Allora è meglio leggere le bellissime storie di Ovidio, senza il bisogno di rinverdire i fasti ispirati dalla vicenda di Pigmalione e della sua incantevole scultura: perché quello è il Mito, mica la realtà.
Ebbene sì, anch’io, una volta, ho fatto il fondatore – senza nessun merito particolare, se non quello d’essere amico di alcuni che, in quell’occasione, Fondatori lo furono davvero. Fatto sta che il 2 giugno del 1993 firmai gli statuti dell’Associazione degli Amici dell’Organo di Locarno (AOL), approvati dall’Assemblea costitutiva del 2 giugno 1993.
Sono ancora con loro, con gli amici che ci sono ancora, perché questo manipolo di appassionati continua da cinque lustri a proporre il grande repertorio della musica organistica, senza quella puzza sotto il naso che troppo spesso distingue chi si perita di far cultura.
E non poteva andare che così, se solo si pensa che il direttore artistico dell’associazione, Giovanni Galfetti, è un musicista sensibile e un Maestro a tutto tondo. Figlio d’arte, Giovanni insegna oggi al Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, l’ex scuola magistrale. C’era durante tutte le metamorfosi di quella scuola degli ultimi trent’anni o giù di lì, dalla post-liceale all’Alta scuola pedagogica a oggi. Il suo sitotestimonia, persino con troppa modestia, il suo grande impegno di musicista, educatore e uomo di cultura.
In occasione del venticinquesimo anniversario dell’AOL, La Rivista, mensile illustrato del Locarnese e valli, ha pubblicato sul suo numero di dicembre 2016 un mio articolo, con alcuni ricordi e qualche aneddoto. L’intento era quello di scansare a ogni costo toni dotti e saputelli: se, con Giovanni e qualche altro, continuo a dare una mano, è perché non ci siamo mai lasciati ingolosire dell’elitismo, che è l’anticamera della petulanza. Perché siamo amici del Re, mica volgari cortigiani, che, come canta Verdi, sono vil razza dannata.
Mi piace riproporlo di seguito, mentre la copia dell’originale può essere scaricata qui.
Una sera d’autunno del 1990 mi chiamarono Giovanni Galfetti e Marco Balerna. Mi raccontarono che in primavera si doveva organizzare per bene l’inaugurazione dei rinnovati organi della collegiata di Sant’Antonio. A quel tempo la mia cultura organistica era quella dei noti paracarri: conoscevo a malapena l’inizio della Toccata e fuga in re minore di Bach. I due amici sapevano però che ero un musicofilo onnivoro e curioso, che credevo nella diffusione della cultura – non solo quella musicale, ovvio – e che se c’era da dare una mano non mi sarei tirato indietro.
Scoprii presto alcune cose: che nella collegiata c’era un bell’organo romantico, che da tanti anni vivacchiava come un vecchio trascurato dai parenti, strusciando i piedi e spargendo armonie disarmoniche, col fiato corto; che già nel 1986 la Città di Locarno, proprietaria dello strumento, aveva destinato un credito importante per il restauro; e, per finire, che i rinnovati organi erano uno solo, quello lì, e che il plurale era un francesismo del Balerna. In ogni modo, non rifiutai l’invito e nella primavera di 25 anni fa andò in scena un battesimo coi baffi: concerto inaugurale con il principe degli organisti, Daniel Chorzempa, musicista di origine polacca ma cresciuto a Minneapolis, una stella di prima grandezza del panorama organistico.
Nasce l’AOL
Com’era normale che fosse, non eravamo pratici di organizzazioni di quel tipo. Così Chorzempa ci fece un poco ammattire – e lascio perdere dettagli che ci farebbero arrossire. Resta che la fase inaugurale, in quell’intensa primavera, fu emozionante, perché dopo il principe ospitammo Jeanine Lehmann, grande interprete svizzera, e poi alcuni bravi organisti di casa nostra: Livio Vanoni, Diego Fasolis e Giovanni Galfetti. Fu forse grazie alla passione e agli stimoli di quei giorni che avviammo la creazione dell’AOL, l’associazione degli Amici dell’Organo di Locarno, con lo scopo di valorizzare gli organi delle chiese locarnesi, in particolare lo strumento Urbani-Bossi-Marzi della collegiata, e di promuovere e organizzare concerti e altre attività musicali legate all’organo. L’AOL vide la luce il 2 giugno del 1993, alla presenza di una ventina di soci fondatori, tra i quali voglio citare Giovanni Galfetti, l’anima artistica del gruppo, Marco Balerna e l’arciprete Storelli don Ernesto, come autografò quella sera l’approvazione degli statuti. È in quell’anno che è partita un’avventura artistica e culturale straordinaria.
L’AOL, finché lo strumento non ricominciò e dar segni di sfinimento, ha proposto per diversi anni tre concerti tradizionali – per Santo Stefano, per la domenica delle Palme e per Pentecoste, oltre, in alcuni anni, il concerto di Ognissanti – decine e decine di matinée, con l’indispensabile sostegno dell’Ente per le Iniziative del Locarnese, e qualche concerto speciale, ospitando alcune punte di diamante della scena organistica internazionale. Mi piace rammentare e sottolineare che, con l’unica eccezione dei concerti inaugurali, l’AOL non ha mai chiesto un biglietto d’entrata, accontentandosi di un’eventuale offerta libera all’uscita, a seconda della disponibilità e del piacere provato. Forse è questo dettaglio, forse è il genere musicale in sé e i luoghi in cui stanno gli organi, forse sono altre caratteristiche misteriose: ma il pubblico, il nostro pubblico, è particolare e simpatico. Non ha il cilindro per cappello, due diamanti per gemelli, il bastone di cristallo, né la gardenia nell’occhiello. Sotto le navate della collegiata ho visto i pubblici più diversi e compositi: dal musicista attento al critico pedante, dal melomane che annuisce rapito a quello che riflette e vola in chissà quali mondi fantastici; ma anche intere famiglie con figli grandi e piccoli al seguito. Per ciò che mi concerne, da quella telefonata autunnale di cinque lustri fa ho scoperto un mondo artistico meraviglioso, un crogiuolo di compositori e di culture incantate, un repertorio inatteso ed emozionante, come sa fare l’arte, magari esaltata da luoghi che stuzzicano anche gli spiriti più laici.
Quindici anni di grande musica
Il cammino con gli amici dell’AOL ha riservato anche qualche aneddoto. Mi viene in mente quell’organista svizzero, protagonista di un concerto di Santo Stefano d’una ventina di anni fa, che dette qualche gatta da pelare al nostro direttore artistico: perché la panca dell’organo era troppo alta rispetto alle sue gambette – fu necessario tagliarne un pezzo, in quel dì di festa – e perché quel giorno non si era sbarbato e bisognava trovargli un rasoio. Capricci da stelline della TV.
Nel 1996 ospitammo una delle più grandi organiste del ’900, Marie-Claire Alain, figlia di Albert e sorella di Jehan, organisti importanti, una famiglia da enciclopedia, allieva di alcuni grandi della musica francese, da Maurice Duruflé a Marcel Dupré, compagna di corso di alcuni dei più importanti organisti della scuola francese del Novecento, come Pierre Cochereau: insomma, un monumento. Al termine di un concerto entusiasmante e indimenticabile, e dopo il ricevimento a casa Rusca con discorsi e rinfresco, questa donnina che certo non se la tirava, benché fosse Lei, chiese se era possibile mangiare un boccone. Non ci avevamo pensato, e fu abbastanza difficile trovare un ristorante ancora aperto a quell’ora, dove fosse possibile andare oltre un panino imbottito col pane del giorno prima. Quel martedì sera finimmo in un ristorante della città vecchia, con un piatto di spaghetti e un bicchiere di vino sfuso, a chiacchierare del più e del meno come un gruppo di vecchi amici.
Due anni dopo, il 5 maggio, data di per sé poetica, ecco un’altra serata speciale, con un altro grande vecchio della musica organistica francese, definito da alcuni l’Arthur Rimbaud dell’organo. Jean Guillou, classe 1930, dal 2014 organista titolare emerito del grande organo della chiesa di Saint-Eustache di Parigi, restò a Locarno alcuni giorni. Propose un programma che spaziava da Bach a Mendelssohn, da sé stesso a una delle sue celeberrime trascrizioni, in questo caso il «Prometeo» di Franz Liszt. E finì con un’improvvisazione su due temi proposti da Giovanni Galfetti. Non dimenticherò mai quel concerto, in parte per il programma così scoppiettante, in altra parte perché durante l’esecuzione del brano d’apertura, a chiesa strapiena, l’organo andò in tilt: una canna un po’ anarcoide improvvisò uno sciopero dello zelo, continuando a cantare la sua nota. Concerto interrotto. Galfetti uscì sul sagrato a strapparsi i capelli. Guillou non perse l’aplomb: lasciò la consolle, entro fisicamente nell’organo, trovò il difetto, rimediò e continuò il programma, terminato in un tripudio.
Mi sia concesso un ricordo molto personale. Il giorno precedente andai a trovarlo sull’organo, portando i miei figli di nove anni. Stava provando il «Prometeo», un’esultanza tardo-romantica che ben riflette la forza del poema sinfonico di Liszt. Ci accolse come un nonno felice e, mentre dava fiato poderoso all’organo, invitò i due jeuns anges a varcare la porticina accanto alle tastiere, quella che porta nel cuore dell’organo, in quel bosco di canne. L’uno varcò la soglia, ma ne uscì difilato, un po’ spaurito. L’altro venne fuori solo dopo la nota finale, e per un po’ di settimane continuò a disegnare canne d’organo che mandavano note lassù, chissà fino a dove.
L’incertezza e la rinascita
Al di là di questi nomi importanti, l’AOL ha invitato alle tastiere dell’organo di Sant’Antonio decine e decine di organisti, noti e meno noti, musicisti di lungo corso e giovani esordienti. Il pubblico ha sempre accolto molto positivamente, a volte con entusiasmo, le tante proposte musicali, a volte mescolate a voci soliste o ad altri strumenti. Così anche quando, una decina di anni fa, fummo costretti a ridurre l’attività a causa delle precarie condizioni dell’organo, abbiamo sempre fatto il possibile per mantenere viva la pur giovane tradizione, proponendo anche in quel periodo difficile il grande concerto di Santo Stefano e le matinée dei mercoledì primaverili e autunnali.
Già da quest’anno, tuttavia, il programma tornerà ai fasti di un tempo (anzi, di più). Grazie alla tangibile sensibilità culturale della Città e del Cantone, il nostro strumento, che è stato definito il più grande e importante organo romantico del Ticino, ha ripreso a suonare, a suonare bene, disponibile con tutte le sue caratteristiche, che sono tante e seducenti, al servizio degli organisti che vorranno proporre le loro scelte artistiche al nostro pubblico affezionato. In settembre c’è stata una sorta di prova generale, con quattro matinée molto seguite e apprezzate, offerte da Marina John, da Marco Balerna col trombettista Ivano Drey, da Roberto Olzer e da Giovanni Galfetti. Poi, il 23 ottobre, c’è stato il concerto inaugurale, per dare il benvenuto all’organo rinato: alle tastiere Francesco Finotti, organista onorario del Duomo di San Lorenzo in Abano Terme (PD); e sul pulpito, a presentarlo, Bepi De Marzi, l’autore del celebre «Signore delle cime», clavicembalista e organista nei prestigiosi Solisti Veneti di Claudio Scimone. Con un pubblico decisamente inusuale – l’arciprete Don Carmelo Andreatta, commosso, non ha saputo trattenersi: «Dovreste venire al mio posto e guardare giù: uno spettacolo!» – il tempo è trascorso svelto e delizioso, sulle onde della musica, dell’interpretazione accattivante di Finotti e delle affascinanti introduzioni di De Marzi.
P. S.: Nel brano Jean Guillou esegue il finale di «Prometeo», poema sinfonico di Franz Liszt, nella trascrizione per organo dello stesso Guillou (Registrato nella Collegiata di Sant’Antonio a Locarno il 5 maggio 1998).
Sul numero di novembre 2016, il mensile Illustrazione Ticinese, rivista familiare illustrata fondata nel 1931, ha dedicato il suo servizio di copertina al direttore del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, oggi noto con la sigla DFA, che sarebbe poi la vecchia scuola magistrale cantonale: Michele Mainardi. Tra scienza, formazione e apprendimento.
Ne parlo in questa sede – al di là della segnalazione del servizio, interessante di per sé – per un dettaglio che non sarà sfuggito agli addetti ai lavori o presunti tali (benché sia necessario lasciare aperto qualche spiraglio al sospetto…). La scheda biografica che correda il reportage si conclude con una dichiarazione che sicuramente non è fortuita: «Pedagogo di riferimento: Janusz Korczak, un dottore ebreo riuscito nell’impresa che sembrava folle, di far funzionare una comunità di orfani nel ghetto di Varsavia».
[Su Janusz Korczak si veda la voce in Wikipedia; meglio ancora – purtroppo è solo in tedesco – si può consultare il sito del Janusz Korczack Institut].
Korczak è un autore che è entrato nella storia della pedagogia e delle idee pedagogiche solo in tempi recenti. All’epoca della mia formazione pedagogica, dapprima alla Magistrale negli anni ’70, poi all’università di Ginevra dieci anni dopo, non ricordo di averlo incontrato. Eppure il suo contributo all’educazione di bambini e adolescenti ha ancora una forza insolita e autorevole. Korczak non è «soltanto», mi si passi l’avverbio, uno degli ispiratori e dei padri fondatori della Carta internazionale dei Diritti del bambino. Ha scritto Philippe Meirieu: Profondément convaincu que l’enfant a le droit d’exister et d’être respecté en tant que tel, il énoncera, pour la première fois, l’idée de «droits de l’enfant». Il n’est pas, pour autant, partisan du laisser-faire, bien au contraire. Toujours exigeant, il met en place des dispositifs permettant à l’enfant de surseoir à ses impulsions (comme la «boîte aux lettres» où l’on écrit demandes et griefs, le «parlement» qui statue sur les règles nécessaires au fonctionnement de la collectivité, le tribunal, la gazette, etc.).
Ho parlato più volte di Janusz Korczak in queste pagine. Mi piace rammentare A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka(Corriere del Ticino, 8.9.2012) e il più recente Per capire e (ri)conoscere la barbarie(29.10.2016). In quest’ultimo scritto suggerivo la lettura di un bell’album illustrato, coi testi di Philippe Meirieu e le illustrazioni di PEF: Korczak. Perché vivano i bambini (2014, Editore Junior). Nei giorni scorsi l’amico Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, mi ha segnalato un altro bellissimo libro destinato a ragazzi dai 10/11 anni: «L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini» (di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello): come sempre, i libri per bambini e ragazzi dovrebbero interessare tutti gli educatori, dai genitori in là.
Si può leggere nell’ultima pagina del volume, dopo la fine del racconto, così intenso e commovente:
Poveri e senza famiglia, di migliaia di bambini – ebrei, ma non solo – Janusz Korczak si prese cura per oltre trent’anni. Pediatra, subito capì che per prendersene davvero cura alla medicina avrebbe dovuto affiancare la pedagogia. Nacque così una delle più straordinarie esperienze che la storia ricordi, con i bambini protagonisti attivi della loro crescita, della loro formazione.
Un’esperienza che continuò anche tra le mura del ghetto di Varsavia, con Janusz Korczak sempre al fianco dei suoi bambini.
Né, pur potendo, volle abbandonarli quando i nazisti decisero di trasferirli, per l’ultimo viaggio, nel campo di Treblinka.
La sua impronta, insieme a quelle dei suoi bambini, resta, indelebile, nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Onu a New York il 20 novembre del 1989.
È giusto, o almeno lo sarebbe, far conoscere agli adolescenti questa figura di Uomo, un medico, che ha creduto profondamente e intensamente nel potere dell’educazione. Sarebbe bello se anche gli insegnanti, i Maestri del mondo intero, riuscissero a mettere l’educazione in vetta agli obiettivi della loro quotidianità, ben prima di pensare alle competenze più o meno disciplinari e alle immancabili valutazioni: che quasi sempre sono il certificato del riconoscimento sociale, dell’esclusione o degli esami di riparazione.
L’insegnamento di Janusz Korczak – e di tanti altri – dovrebbe interrogare e intrigare ogni insegnante, soprattutto quelli della scuola pubblica e obbligatoria: che non è stata pensata e istituita per selezionare le élite – che sarebbe come dire per dare una spintarella a chi comanderà in un futuro più o meno prossimo – ma per ragioni ben più alte e fondatrici.
Oltre tante invenzioni della moderna tecnocrazia didattica, sarebbe utile andare sempre al cuore delle preoccupazioni e delle riflessioni che hanno ispirato le donne e gli uomini che hanno fatto la storia delle idee pedagogiche. Il contributo di Korczak ci dice che il rispetto si impara vivendolo, attraverso la mediazione di un adulto consapevole. Per logica deduzione ci dice anche che non ci sono altre scorciatoie didattiche per arrivarci: perché il Rispetto è figlio della Cultura.
Nel frattempo abbiamo letto che Michele Mainardi lascerà la direzione della scuola magistrale a fine agosto 2017, ma continuerà, al DFA, a guidare il Centro di competenza denominato Bisogni educativi, scuola e società: l’augurio è che gli insegnamenti di Janusz Korczak e di chi gli è pedagogicamente vicino possano diventare quanto prima uno gli elementi centrali della formazione dei docenti di ogni ordine e grado. Perché l’approccio epistemologico alla professione di educatore prima e di insegnante poi sta diventando un imperativo etico.
La porta, a questo punto, sembrerebbe aperta: con un sorriso ottimista.
Non c’è più nessuno che scrive parabole, o almeno favole, con il consapevole e inevitabile intento pedagogico. Si sa cosa ne penso: Educare, per me, significa dare gli strumenti affinché il (futuro) cittadino sappia prendere le sue decisioni in modo libero e cosciente – poi che ognuno faccia come vuole. Per intenderci, sono lontano mille miglia dai metodi pedagogici delle dittature, tipo «Libro e moschetto» fascista perfetto.
Eppure, di tanto in tanto, capita che affiori qualche nuova parabola anche dalle acque confuse e limacciose del www e della (democraticissima) comunicazione smodata e ridondante, che può esser peggio di quella assiomatica della stampa di regime.
La parabola che voglio proporre me l’ha segnalata un amico, un artista.
È un piccolo apologo che Mino Martinazzoli ha raccontato qualche anno fa un durante una conferenza. La favola narra del direttore generale di una grande società, che aveva ricevuto l’invito per assistere a un concerto che, in programma, contemplava anche la Sinfonia N° 8 in si minore di Franz Schubert, l’Incompiuta.
Il direttore generale non poteva andarci e allora regalò l’invito al capo del personale, che era un giovane laureato alla Bocconi, master in una London School. Questi si occupava anche di politica, sognava efficienza e giovinezza nella politica. E andò a sentire il concerto.
Il giorno dopo il direttore generale gli chiese se gli fosse piaciuto il concerto. Con tutto il peso di chi risponde da capo del personale, garantì che a mezzogiorno avrebbe avuto la sua relazione sulla scrivania.
Il direttore generale ricevette puntualmente la relazione e cominciò a leggerne con sorpresa il contenuto, che era diviso in cinque punti.
Durante considerevoli periodi di tempo i quattro oboe non fanno nulla. Si dovrebbe ridurne il numero e distribuirne il lavoro tra il resto dell’orchestra, eliminando i picchi d’impiego.
I dodici violini suonano la medesima nota. Quindi l’organico dei violinisti dovrebbe essere drasticamente ridotto.
Non serve a nulla che gli ottoni ripetano suoni che sono già stati eseguiti dagli archi.
Se tali passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di un quarto.
Se Schubert avesse tenuto conto di queste mie osservazioni, avrebbe terminato la sinfonia.
Martinazzoli concluse: «Io vorrei vivere in un mondo nel quale si possa continuare a sentire l’Incompiuta di Schubert così com’è».
Non so voi, ma a me questa favola ricorda per troppi motivi la scuola di oggi, almeno quella descritta e vagheggiata da molti: spendibile, efficiente, utilitaristica, concreta. Realista.
Mi diverto un sacco a organizzare proposte culturali per le scuole. Sono quasi sempre momenti molto coinvolgenti, per le belle cose che si affrontano, per le persone con le quali si lavora (ci vorrebbero quasi le virgolette, perché è un lavorare delizioso), per le emozioni che si vivono e si fanno vivere ad altri.
Giovedì scorso è andato in scena «Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia», una rilettura del romanzo di Miguel de Cervantes, a quattrocento anni dalla sua morte, curata con Silvia Demartini, mia impagabile e insostituibile complice nell’ambito di «Piazzaparola».
Tanto per riassumere: «Piazzaparola» è una manifestazione letteraria nata dall’associazione «Dante Alighieri» di Lugano che, da sei anni, propone ai primi di settembre L’arte di raccontare: un classico e voci contemporanee. Quanto a me, mi occupo da quattro anni, con Silvia e con l’illustre cappello istituzionale del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, dell’appendice locarnese della manifestazione, che si rivolge agli allievi delle classi terminali della scuola elementare e che «si limita» alla presentazione del Classico di turno.
Così nel 2013 abbiamo affrontato Giovanni Boccaccio e il «Decamerone» («Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo»), nel 2014 siamo passati a Leonardo da Vinci («La cosa immaginata move il senso»), e l’anno scorso è stata la volta di Publio Ovidio Nasone («Metamorfosi – Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone»). Riguardo a quell’edizione rammento, in questo sito, «Perque omnia sæcula vivam!», «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» e «Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein».
Non fraintendiamo: non tutto è filato liscio. Dopo un’estate stupenda che si stava prolungando e che sembrava volesse durare all’infinito (La pagaremm püsee in là), una settimana prima della nostra scadenza Meteo Svizzera ha cominciato a insinuare che giovedì, proprio il nostro giovedì, sarebbe piovuto. Incredibile. Ancora il giorno prima splendevano tre o quattro soli e le temperature invitavano ai bagni e alle spiagge. Noi avevamo pensato di far rivivere Don Chisciotte in alcune evocative piazze locarnesi – il chiostro dell’ex convento dei frati, oggi scuola magistrale; la corte interna del castello visconteo; il mercato di Piazza Grande; il patio della biblioteca cantonale – e invece ci toccava inventare all’ultimo minuto, e immersi nell’incredulità, una nuova versione al coperto, dentro il Teatro di Locarno.
Un amico di Meteo Svizzera, il sabato precedente, 10 settembre!, mi ha scritto che effettivamente avevo scelto male il giorno in cui organizzare la manifestazione e che sicuramente Don Chisciotte avrebbe avuto una qualche colorita espressione in castigliano stretto per definire la fortuna in un caso simile.
Detto ciò, quel piovoso giovedì 15 mi e ci ha lasciato alcune sensazioni incredibili e incancellabili, malgrado le ansie della vigilia, quando siamo stati costretti, ancora scettici, a inventarci una nuova scaletta, lontana dalle piazze.
Il Teatro di Locarno, stipato in ogni ordine di posti – c’erano 25 classi, provenienti da più parti del cantone, quasi 520 persone tra allievi e insegnanti – ha pulsato per l’intera durata dello spettacolo: un pubblico preparato e attento, capace della massima concentrazione nei momenti difficili, dell’applauso quando ci voleva (con dei momenti da stadio!), del giusto pathos nei passaggi più emozionanti e, diciamolo, intellettuali.
Tutto ciò, tutto questo successo, è probabilmente dovuto a una lunga serie di scelte precise e di circostanze per nulla casuali. Metterei al primo posto il grande rispetto che tutti i partecipanti a questa proposta, ma proprio tutti!, hanno riservato al numeroso pubblico di ragazzini di 4ª e 5ª elementare: che non sono dei cretini, ma dei futuri cittadini, che meritano la giusta fiducia e la massima stima. Il secondo gradino del podio, con un distacco di pochi centesimi, è riservato ai loro insegnanti, che hanno scelto di portare le loro classi a condividere la nostra proposta artistica e letteraria, e che li hanno preparati a dovere.
Poi, in ordine sparso, c’è un ex aequo molto affollato, che voglio evocare alla rinfusa, senza pedanteria, rifuggendo intenzionalmente dalle stupide classificazioni e classifiche tipiche della scuola, anche quella odierna e anche, purtroppo e probabilmente, quella che verrà, a regime ormai HarmonizzatoS.
Vale a dire:
Miguel de Cervantes, l’autore dei due corposi volumi che compongono quel capolavoro della letteratura europea che è «Don Quijote de la Mancha».
Silvia Demartini, che ha saputo scegliere i “racconti” più significativi ed emblematici del Don Chisciotte, riscriverli per il nostro pubblico particolare e creare i collegamenti drammaturgici che ne hanno permesso la comprensione, dentro un disegno compatto e finito: perché ai nostri decenni non potevamo, né volevamo, offrire l’ennesima versione dell’ingegnoso nobiluomo un po’ comico e tanto stupidotto.
Un cast di attori e lettori di assoluta bravura. In rigoroso ordine alfabetico, benché ladies first (amen, per certi versi sono un po’ all’antica): Sara Giulivi, che è stata Mari, la cameriera della locanda dove il Cavaliere è diventato cavaliere sul serio, tramite la cerimonia dell’investitura; Tatiana Winteler, un’Aldonza Lorenzo figlia di Lorenzo Corciuelo straordinaria e verosimile, che sembrava sul serio Dulcinea del Toboso, così come l’avevano conosciuta Don Chisciotte e, soprattutto, Sancho Panza; Cristina Zamboni, una credibile, sdegnata e arrabbiatissima Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte; Fabio Doriali, che è stato un integerrimo presentatore – forse lo stesso Cervantes – e ha dato voce e fattezze a un Sancho Panza talmente zotico da sembrare vero (mi verrebbe un paragone con la politica dei giorni nostri: ma transeat).
Simone Fornara, un attore dilettante, a tal punto preoccupato che, dietro le quinte e in procinto di entrare in scena, si è rivelato il degno e coerente finale della nostra costruzione artistica e anche didattica (un aggettivo che normalmente detesto). Ha detto, stralunato e credibile, rivolto al pubblico: «Quando vi diranno che i libri mettono in testa strane idee e fanno pensare troppo, LEGGETELI, leggeteli a fondo: vi salveranno dalla banalità; quando vi diranno che le vostre battaglie per un mondo migliore e più giusto sono assurde, CREDETECI e combattetele fino in fondo, senza paura di farvi male; quando vi diranno che siete matti per amore, allora AMATE ancora più intensamente: chi dovrà capire capirà; e quando vi diranno che sognate di essere qualcuno e magari vi prenderanno in giro per quello che fate o per come vi vestite, be’, allora FIDATEVI DI VOI senza paura. Solo così il vostro personaggio smetterà di essere solo finzione».
Tre musicisti appassionati e immersi nella nostra storia: il fisarmonicista Daniele Dell’Agnola, il pianista Giovanni Galfetti e il percussionista Oliviero Giovannoni.
Simona Meisser, che ha disegnato le storie in diretta. Una maestra mi ha scritto: «Quei bambini che di solito sono un po’ deboli nell’ascolto, sono riusciti a seguire il tutto grazie alla magia delle immagini di Simona».
Dietro le quinte, al riparo dall’occhio di bue, ma ognuno con un ruolo importante, una moltitudine di persone: Fiorenza Wiedmann, splendida costumista, scenografa e trovarobe; le amiche e gli amici del DFA della SUPSI, cioè Stephanie Grosslercher, Kata Lucic, Luca Botturi, Dina Leal, Antonio Crupi e Thierry Moro; la città di Locarno e i suoi uomini delle manifestazioni, Mauro Beffa ed Eros Ceccato; la voce di Marco Fasola, per gentile concessione della RSI; Werner Walther, competente tuttofare del Teatro, nonché esperto e fantasioso tecnico delle luci e del suono.
E, infine, chi ci sostiene, ci ha sostenuto e continuerà a sostenerci concretamente: Raffaela Castagnola, ideatrice e motore principale di «Piazzaparola»; Michele Mainardi, direttore del DFA della SUPSI; la SYZ Banque privée di Locarno.
Per il 2017 staremo a vedere cosa succederà, cosa ci sarà proposto. A volte è bello poter scegliere. Ma, lo confesso, saltare in groppa alle sfide che ci sono state proposte in questi anni è stato comunque sempre utile e divertente: penso a Boccaccio, Ovidio e de Cervantes, ma anche a Leonardo, non certo famoso per l’opera letteraria: mica facile, né evidente, riuscire a presentarli a ragazzini di dieci anni, non è esattamente come rifilare i fratelli Grimm o Hans Christian Andersen.
Poi, per dirla tutta (chi segue il mio sito sa bene cosa ne penso), le arti hanno bisogno di spazi nella scuola – spazi qualificati, non semplici alibi culturali – sebbene i posti a disposizione siano sempre più scarsi e i biglietti d’entrata discriminatori e costosi. Continuo a credere che la scuola, soprattutto quella pubblica e obbligatoria, dovrebbe creare tante e tante occasioni di incontro con le arti, senza scopi più o meno occulti per far strada a chi si avvierà a diventare uno scienziato, un notabile della Repubblica o un semplice galoppino.