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«Andare a scuola è un atto di civiltà»

Ho ricevuto oggi una riflessione assai profonda a commento dell’articolo «Insieme a scuola per sconfiggere la barbarie», che ho pubblicato domenica scorsa. Me l’ha inviato Andrea Fazioli, un amico che conosco e che apprezzo, come uomo e come scrittore, uno che coltiva un blog accattivante settimana dopo settimana. Ha scritto:

Sono riflessioni molto interessanti. Dal mio punto di vista di scrittore prestato (anche) all’insegnamento, mi aiutano a partire con il piede giusto, per quanto riguarda sia i corsi di scrittura creativa, sia soprattutto i laboratori al liceo. Non voglio ripetere nulla di quanto già detto; mi limito ad aggiungere una cosa che mi ha colpito: anche solo il gesto di andarci, a scuola, è un atto di civiltà di cui spesso ci sfugge la portata. Qualcuno potrebbe obiettare: ma non staremo esagerando? La scuola può davvero aiutare ad arginare la negatività che ci assedia? Tutto dipende dal nostro desiderio, starei per dire dalla “fame” con cui affrontiamo la giornata di lavoro (come insegnanti o come allievi). Mi ricordo quel capo terrorista che diceva: “Noi vinceremo perché amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita”. Ecco, la scuola può essere la dimostrazione del contrario. Be’, almeno sarebbe bello provarci…

Tanto per capirci: il capo terrorista citato, stando al web, era il portavoce di Osāma bin Lāden, e la frase era contenuta nel comunicato di rivendicazione dell’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid.

Fazioli dice una cosa talmente vera da sembrare scontata: anche solo il gesto di andarci, a scuola, è un atto di civiltà.

Ha scritto ancora Meirieu citando il filosofo Olivier Reboul: «Face à la montée de l’islamiste djihadiste comme des réactions de repli identitaire qu’il suscite, la réponse qu’Olivier Reboul faisait, il y a quarante ans, à la question “Qu’est-ce qui doit fonder l’éducation?” reste, plus que jamais d’actualité: “Ce qui unit et ce qui libère”. Nous avons en effet, tout à la fois, besoin d’unité – de commun sans communautarisme – comme nous avons besoin de liberté – d’individus sans individualisme. Nous avons besoin de nous redécouvrir semblables et de trouver la force de nous affirmer différents».

E così terminava: «C’est dire que la démocratie est assignée à faire de l’éducation sa priorité. Elle est assignée à la pédagogie. À revisiter son histoire et ses apports, à faire preuve, dans ce domaine, d’inventivité inlassable. Il faudra y penser en cette rentrée. Pour que nos enfants apprennent patiemment la vertu du débat démocratique. Et pour que les croyances haineuses et les réactions identitaires ne viennent pas balayer tout espoir. À l’École comme ailleurs».

Certo, dobbiamo provarci, ad amare pienamente la vita, dimenticando all’istante le false promesse sulle spendibilità e provando invece a chinarci tutti insieme sulle cose essenziali, alle fondamenta del mondo e del nostro esistere, attraverso la Cultura e le Arti.

Insieme a scuola per sconfiggere la barbarie

Alcuni giorni fa, commentando le misure di sicurezza che hanno caratterizzato la 69ª edizione del Festival del Film di Locarno, avevo chiuso le mie brevi note con un’inquietudine (Non c’è nulla di semplice in quel che sta succedendo attorno a noi. E si rischiano le psicosi e la xenofobia al rialzo) e la speranza che, al rientro a scuola dopo le vacanze estive, nelle nostre aule ci sia chi offrirà ai suoi allievi l’opportunità di parlare della brutale attualità che distingue questi tempi e che ha affollato le cronache delle ultime settimane [Il festival del film di Locarno, l’attualità brutale e la forza educativa del dubbio].

L’edizione odierna del quotidiano francese «Le Monde» ha pubblicato un intrigante contributo di Philippe Meirieu, pedagogista e professore emerito in scienze dell’educazione all’università Lumière di Lione: «La démocratie est assignée à faire de l’éducation sa priorité». [Nel sito di Le Monde l’accesso all’articolo è protetto; lo si può tuttavia recuperare integralmente nel sito di Philippe Meirieu, oppure lo si può scaricare qui].

Meirieu inizia con un amaro riscontro: «I riti commerciali e i cliché mediatici che segnano tradizionalmente l’apertura di un nuovo anno scolastico rischiano, quest’anno, di sembrare particolarmente sfasati. In effetti non potremo fare a meno di una riflessione educativa sugli attentati dell’estate e sulla situazione del nostro paese».

Sono naturalmente d’accordo, perché invece, nel nostro di un paese, c’è una buona possibilità che si parli solo di HarmoS e dei nuovi piani di studio, quasi che non ci trovassimo al crocevia non solo geografico dell’Europa, e che alle nostre frontiere e nei nostri centri di accoglienza non fossero palpabili le tensioni alle quali non possiamo sfuggire: perché sinora non siamo stati al centro di attacchi terroristici, ma una giovane donna di Agno è comunque morta a Nizza, senza dimenticare i tre giovani ticinesi vittime di un attentato a Marrakech nell’aprile del 2011.

Ma forse c’è poco da fare, perché ci piace crogiolarci nel nostro essere un Sonderfall, almeno quando ci fa comodo.

Meirieu prosegue sulla necessità che nelle scuole, da settimana prossima, sia possibile «ascoltare le inquietudini e gli interrogativi degli allievi, permettere di esprimere a parole le loro domande, di confrontarsi serenamente, tra loro e con gli adulti: a questo scopo bisognerà realizzare dei rituali che permettano la nascita di parole rincuoranti, senza esitare a passare attraverso l’espressione scritta o grafica individuale, a servirsi della mediazione di una poesia o di un romanzo, a prendere esempi dalla storia (…). A sollecitare l’immaginazione degli allievi chiedendo loro di descrivere in che modo ognuno di loro e tutti insieme possono contribuire a far indietreggiare la barbarie».

A ben vedere c’è, in queste riflessioni per il rientro in aula dopo un’estate speciale, la visione di una scuola che persegue fino in fondo la sua capacità di educare i cittadini, ben oltre le tante spendibilità immediate e gli orpelli tecnocratici che stanno tramutando l’Istituzione scolastica in un volgare supermercato.

Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830
Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830

È davvero tutto da leggere, questo contributo di Philippe Meirieu, che invita la Scuola a «diventare deliberatamente uno spazio di decelerazione. Lungi dal premiare la risposta immediata, essa deve promuovere la riflessone critica. Deve imporre la distanza dalla pulsione e il distacco dalla reazione immediata, per sfruttare questo tempo per anticipare, scambiare, documentarsi, riflettere… in breve, per imparare a pensare. Ne siamo lontani, noi che corriamo sempre nei corridoi e talloniamo i programmi, che fuggiamo il silenzio come la peste, che correggiamo un compito per sempre, senza lasciare all’allievo la possibilità di approfittare dei nostri consigli per migliorare. Di fronte all’immediatezza del “tutto e subito” promosso sistematicamente dal macchinario pubblicitario e tecnologico, la Scuola deve svolgere intenzionalmente un ruolo termostatico. Né rifiuto brutale della reazione dell’allievo, né consenso demagogico della sua opinione: “Prendiamoci il tempo per pensarci”. È solo così che la Scuola contribuirà a insegnare a ragazzi e adolescenti a resistere a ogni sorta di seduzione».

Cinema a scuola, per l’etica e l’estetica

«La scuola che non si occupa di cinema perde il contatto con la realtà».

È un’affermazione forte, questa di Gino Buscaglia, presidente di Castellinaria, il Festival internazionale del cinema giovane, che giungerà alla XXIX edizione in novembre.

Castellinaria_logo

La dichiarazione, riportata dal Giornale del Popolo, rinvia alla tradizionale conferenza stampa organizzata nell’ambito del Festival del Film di Locarno per presentare la prossima edizione di Castellinaria, che propone quest’anno una novità di grande interesse: una giornata di studio per i docenti della Svizzera italiana di ogni ordine di scuola, che prevede, dopo alcune relazioni introduttive, l’esposizione di diverse esperienze di educazione all’immagine – e al linguaggio cinematografico in particolare – già vissute o attualmente in corso nelle nostre scuole.

«L’obiettivo – ha spiegato il presidente di Castellinaria – è quello di riflettere, con gli insegnanti, sull’opportunità di incrementare nel mondo della scuola gli spazi/tempo da dedicare a questo genere di attività e di esperienze educative».

Buscaglia batte ’sti chiodi con ostinazione e passione da almeno mezzo secolo. Sotto la sua presidenza, e con la direzione di Giancarlo Zappoli, Castellinaria si è evoluto qualitativamente e quantitativamente, tanto che oggi è una bella e radicata manifestazione che caratterizza l’autunno culturale e pedagogico del Cantone.

Per evitare sciocche sviolinate, meglio dire senza attardarsi che Gino Buscaglia, genovese cresciuto in riva a quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, l’ho conosciuto nei primi anni ’70 del secolo scorso, durante un’edizione del Festival del film di Locarno, lui inviato del Giornale del Popolo (e, mi pare, del mensile Sipario), io improbabile fotoreporter e impiegato del Festival, forse come “caposala” al cinema Pax…

Locarno 1976
Una testimonianza archeologica: è il Festival del film di Locarno del 1976, quando il vodese Francis Reusser si aggiudicò il pardo d’oro (e noi lo fischiammo), passò Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000 di Alain Tanner e la giuria FIPRESCI conferì un premio speciale a Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, ammazzato neanche un anno prima. Io sono quello di spalle. L’autore dello scatto è ignoto.

Siamo diventati amici, e più volte l’ho coinvolto professionalmente, proprio perché credevo e continuo a credere che la settima arte dovrebbe trovare nella scuola, a partire da quella dell’obbligo, un suo ruolo sostanziale e autorevole, al pari di tante altre arti più celebrate: penso al teatro e alla letteratura, alla pittura e alla poesia, alla musica e alla scultura…

Chiusa la parentesi nostalgico-biografica (ebbene sì, nel ’76 avevo 23 anni), torniamo alla recente dichiarazione del presidente di Castellinaria: «La scuola che non si occupa di cinema perde il contatto con la realtà». Concordo col Gino.

Solo che la scuola il contatto con la realtà l’ha perso da tempo ormai immemore. Ho scritto nel maggio scorso (La scuola per il Paese di domani tra il progresso e i gattopardi) che «La scuola obbligatoria è forse quella che, tra tante istituzioni pubbliche, si è riprodotta negli anni infinitamente uguale a sé stessa (…), aggrappata a consuetudini ormai secolari».

Proviamo a dare un’occhiata alla realtà: che ne è stato della letteratura e della poesia, per restare a due arti intimamente legate alla tradizione della scuola?

Senza pensare alla musica, che pure ha un posto nelle griglie orarie settimanali, altre forme artistiche sono confinate nelle pause tra un test e un consiglio di classe, sebbene allievi e studenti si emozionino di fronte a proposte culturali che esulano dai percorsi un po’ tecnocratici della scuola contemporanea: penso, per indugiare su mie esperienze recenti, ai ragazzi della scuola elementare a contatto con Ovidio (A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?), ai liceali locarnesi che hanno assistito allo spettacolo teatrale «Donna non rieducabile – Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja» (Esercizi di cultura nella scuola) o, ancora, alle proposte musicali dei «Concerti per le scuole», che hanno già superato le cinquanta edizioni (Dalla Russia con passione: un’altra avventura con la musica per le scuole).

La storia dell’educazione al cinema e ai mass-media è disseminata di ideologismi e forzature, e dura da oltre mezzo secolo. Fanno bene a insistere Castellinaria, i suoi dirigenti, il DFA (Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI) e il DECS (Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport), che  sostengono questo festival del cinema giovane.

«Cinema e Scuola: quali sinergie?», la giornata di studio per gli insegnanti organizzata e voluta da Castellinaria, è un nuovo e importante contributo a questa causa. Il rischio, come spesso accade, è che parteciperanno solo quelli che hanno già le loro convinzioni al proposito: plauso a loro e a chi ha voluto incontrarli per riflettere insieme. Ma è giusto, e nel contempo inutile, farsi troppe illusioni.

Senza le discipline scolastiche ingabbiate nelle griglie settimanali, con tanto di certificazioni al seguito, la scuola si sente svuotata della propria identità e assolutamente incapace di funzionare.

Sicuro!, la scuola dovrebbe occuparsi anche del cinema, per tante ragioni. Il celebre aforisma di Umberto Eco – Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro – si applica naturalmente anche al cinema. Occuparsi di cinema a scuola, come di letteratura pittura o poesia, significa pure imparare a confrontarsi con i canoni dell’etica e dell’estetica: che è Educazione vera.

Sarebbe però una sciagura se il Cinema diventasse una disciplina scolastica, coi test e le note.

Dalla Russia con passione: un’altra avventura con la musica per le scuole

Per tanti anni ho organizzato i «Concerti per le scuole». Ufficialmente è dal dicembre del 1998, quando avevo affiancato il presidente dell’«Accademia Vivaldi», che li aveva istituiti sette anni prima. Con me e con tanti altri collaboratori occasionali, c’è sempre stato Giovanni Galfetti, amico, collega maestro di educazione musicale quando insegnavo nelle elementari e oggi sensibile e competente insegnante di musica e di didattica della musica presso il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI, nonché esperto di educazione musicale nelle scuole elementari del nostro cantone.

Da quel dicembre di quasi vent’anni fa a oggi ho curato 40 delle 51 edizioni dei «Concerti», portando al Teatro di Locarno – altro prezioso e fondamentale tassello di questa proposta culturale – qualcosa come 92’242 allievi, per lo più delle scuole dell’infanzia, elementari e speciali, sull’arco di 208 repliche.

Ricordo naturalmente con piacere tutte le edizioni, per un verso o per l’altro. Scorrendo la lista dettagliata di tutte le produzioni chiunque farà incontri che possono essere sorprendenti.

Nondimeno lo spunto per parlare dei «Concerti» mi è venuto dalla recente 51ª edizione per tante ragioni, che elenco senza ordine d’importanza.

1. Un po’ di mesi fa Elena Zaccheo, che mi è succeduta alla direzione delle scuole comunali di Locarno, mi ha chiesto di far ripartire i «Concerti», così da mantenere una bella tradizione proposta dalle nostre scuole.

2. Tenuto conto che per le proposte culturali i tempi sono diventati difficili, la direttrice Zaccheo ha pure fatto in modo di trovare un sostegno finanziario esterno: perché i costi non sono imponenti, ma il biglietto d’entrata è fermo a 3 franchi da 25 anni, e non è oggi il caso di adeguarlo. Il sostegno, prezioso, è venuto da ASSIMEDIA, Società di servizi assicurativi dal 1986.

3. Per ripartire ci voleva qualcosa di speciale. Così verso la fine di settembre ho incontrato Andrea Pedrazzini, un giovane e bravissimo musicista che, quando aveva dieci anni, aveva interpretato Mozart bambino nel concerto «Viva Mozart». Era l’inverno del 2003 e ad applaudire vennero in 3’427 (nella hit parade “quantitativa”, solo «Ai miei nonni piace il rock» fece di meglio).

Andrea Pedrazzini

4. Andrea mi propose un concerto-spettacolo centrato sulla musica russa, che io accettai al volo. Mi disse inoltre che avrebbe costituito un’orchestra di 10/15 giovani musicisti e che avremmo dovuto cercare un narratore/presentatore. Lo spettacolo si sarebbe chiamato Promenade all’est della musica – Una passeggiata nella musica classica dell’Europa orientale.

5. Alla fine non è andata così, per niente. Il narratore/presentatore è stato un bravissimo Fabio Doriali, che assieme ad Andrea, pianista, a Deolinda Giovanettina, violinista, e a Elide Garbani Nerini, flautista, ha vestito i panni degli autori del concerto-spettacolo.

Da sinistra Elide Garbani Nerini, Arseniy Shkaptsov, Deolinda Giovanettina e Fabio Doriali
Da sinistra Elide Garbani Nerini, Arseniy Shkaptsov, Deolinda Giovanettina e Fabio Doriali

6. E, sempre alla fine, i 10/15 sono diventati 20, età media 27 anni e qualcosa, provenienti dai quattro angoli del globo: oltre a otto svizzeri, l’orchestra annoverava un iraniano, due italiani, una lituana, un’olandese, un russo, due spagnoli, uno statunitense e una venezuelana. E sono felice di poterli elencare per esteso, proprio com’era scritto sulla locandina del concerto: Mohammad Shelechi (direttore), Christina Buttner, Deolinda Giovanettina, Kamile Maruskeviciute, Livia Roccasalva (violino), Daria Canova, Silvia Concas, Sara Martinez (viola), Giacomo Brenna, Ulisse Roccasalva (violoncello), Grecia Crehuet (contrabbasso), Elide Garbani Nerini (flauto e ottavino), Daniel Souto (oboe), Alba Dominguez (clarinetto), Arseniy Shkaptsov (fagotto), Johan Warburton (corno), Giuseppe Cima (tromba), Mattia Terzi (percussioni), Andrea Pedrazzini (pianoforte) e Fabio Doriali (narratore).

Gran finale con la Danza ungherese n° 5 di Johannes Brahms
Gran finale con la Danza ungherese n° 5 di Johannes Brahms

7. I brani e gli autori proposti nei 55 minuti del Concerto sono partiti da un breve accenno della Moldava di Bedřich Smetana, per terminare con la Danza ungherese n° 5 di Johannes Brahms. In mezzo Modest Musorgskij, Dmitrij Šostakovič, Igor’ Stravinskij, Pëtr Il’ič Čajkovskij e Sergej Rachmaninov.

Il Maestro Mohammad Shelechi.
Il Maestro Mohammad Shelechi.

Per me sono stati due giorni emozionanti: per la bellezza del repertorio proposto; per la simpatia, la modestia e la bravura di tutti i venti giovani sul palco; e perché il pubblico ha gradito e si è appassionato.

Chi non ci crede ascolti questa esecuzione del Valzer n° 2 dalla Suite per orchestra di varietà di Šostakovič: dura meno di due minuti, ma ne vale la pena per davvero.

E se proprio il tempo è tiranno – versione diplomatica del più noto «Il tempo è denaro» – si può ascoltare questa abbreviazione di pochi, significativi secondi:

 

Archi e non solo

Ora, però, è giunto il momento di pensare alla 52ª edizione.

Insegnamento della religione in Ticino: la storia infinita

Il meno che si possa dire è che il tema dell’insegnamento della religione sta diventando una storia infinita, come se nella scuola pubblica non esistessero problemi più importanti. Lasciando perdere talune controversie di stampo vagamente ottocentesco, la spossante contrattazione tra Stato e chiese dura ormai da molti anni, benché il tema, in una Repubblica moderna e laica, dovrebbe essere prerogativa assoluta della politica.

Tanto per ravvivare la memoria: nel marzo del 2002 il parlamentare liberalsocialista Paolo Dedini aveva chiesto di sopprimere dalle griglie settimanali l’ora facoltativa di insegnamento religioso, accordata alle due chiese riconosciute, e di sostituirla invece con l’insegnamento «della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola».

Dato che il nostro è un paese esagerato, dove i messaggi partitici vanno sempre soppesati col bilancino dello speziale, ecco in dicembre una nuova iniziativa parlamentare, stavolta sottoscritta da un gruppo di gran consiglieri del centro-sinistra, capeggiato da Laura Sadis.

Mentre Dedini richiamava il valore fondamentale e insopprimibile di una visione umanistica della società, il nuovo atto parlamentare sottolineava come «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente». E buttava sul tavolo la proposta: «In tutte le scuole è impartito un corso di cultura religiosa». Va da sé: in questi quasi tre lustri è successo poco, salvo la sperimentazione di qualche modello alternativo in alcune sedi di scuola media, corredata dall’immancabile valutazione da parte della SUPSI.

È invece di questi giorni, apparsa su questo giornale, un’articolessa del deputato PLR Giorgio Pellanda. Uno concreto, come si dice. Premette che la riflessione trae linfa anche dalla sua condizione di ex docente. Poi precisa la propria credenza confessionale cattolica e chiarisce la consapevolezza «di esprimere il pensiero di tanti ticinesi agnostici o atei che tuttavia riconoscono nelle nostre radici cristiane un auspicato nutrimento spirituale per la pace sociale». Infine cala l’originale disegno di legge, che farebbe contenti tutti: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra, va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni – una sorta di «liberi tutti», che accontenta però solo chi dice di credere nelle religioni di stato.

Sarebbe molto più logico se il catechismo le chiese se l’organizzassero in parrocchia. E non vedo nemmeno chissà quale bisogno di inventare una nuova disciplina, la storia delle religioni.

Nell’ambito delle materie che appartengono ai piani di studio c’è già tutto quel che serve per sconfiggere «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana» menzionata dalla proposta di Laura Sadis. Ci sono i valori dell’umanesimo e della ragione, e di radici cristiane, lì, ce n’è in abbondanza.

Basterebbe trattare in maniera appassionante e rigorosa la letteratura e la poesia, la musica e la pittura, le arti tutte e la storia del pensiero, compreso quello matematico e scientifico. Il resto è solo finzione, genuflessa ai piedi di un cerchiobottismo parlamentare che perdura da troppi anni. Siamo una terra di fervidi credenti, a condizione che l’omelia sia breve e che i dieci comandamenti siano a geometria variabile.