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Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein

Attribuito ad Albert Einstein: Zwei Dinge sind unendlich, das Universum und die menschliche Dummheit, aber bei dem Universum bin ich mir noch nicht ganz sicher. Vale a dire, più o meno: «Due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana. Riguardo all’universo non sono ancora completamente sicuro».

Come spesso accade, è difficile sapere se quest’aforisma appartenga veramente ad Einstein. Tuttavia credo che, se fosse ancora vivo, non avrebbe nessun problema ad ammettere che sì, die menschliche Dummheit pare non finire mai.

Sentite questa. Sul Corriere del Ticino di oggi Tommy Cappellini intervista Giulio Giorello, filosofo della scienza e allievo di Ludovico Geymonat (Oggi la libertà non è mai abbastanza), a proposito dell’uscita di un suo nuovo saggio, La libertà, edito da Bollati Boringhieri. Riporto un passaggio del dialogo.

DOMANDA. C’è un’altra «schiavitù» che avanza: quella dell’emotivamente corretto. Alla Columbia University si censura Ovidio: turba le studentesse.

RISPOSTA. «Le rispondo con un aneddoto che circolava già all’epoca di Mill [John Stuart Mill]. Una vecchietta chiama a casa sua un poliziotto: “Agente, vada sul balcone, osservi anche lei, la mia sensibilità è ferita dagli atti osceni dei miei vicini”. L’uomo esce sul balcone e si trova davanti un muro piuttosto alto: “Non vedo niente”. E la vecchia: “Ah, signor agente, non sa la fatica che devo fare per sporgermi!”. Ecco, la fatica della vecchietta è il compendio di tutti questi emotivi che s’inventano i peccati più strani».

Forse Ovidio è davvero urtante.

«Ma per favore. Si censura Ovidio perché è più difficile catturare, attraverso una seria azione di polizia, i violentatori delle suddette studentesse nei campus. E via così. Si censura la parola “negro” e si arriva tardi, a sangue versato, addosso ai suprematisti bianchi fuori di testa. Si pensi poi ai “difensori della vita” che ritengono giusto ammazzare i medici che praticano l’aborto, come è già accaduto. Invece di imporre tanto politically correct si facciano rigorose azioni politiche. Invece che alla pretesa scorrettezza intellettuale, si guardi alle prevaricazioni concrete che ci accadono sotto gli occhi. Di cui sono vittima, ovviamente, i più deboli».

Possibile?!, mi sono chiesto. Possibile censurare Ovidio in un’università blasonata come la Columbia? Grazie alla rapidità del web, sono corso a controllare. Inserendo trigger Ovid Columbia harassed si trovano quasi 240 mila risultati. Ecco qualche titolo, tra i primi link che ho trovato (tra l’altro la notizia risale alla scorsa primavera):

Una decina di anni fa, nella mia rubrica sul Corriere, avevo pubblicato un testo su temi analoghi, In America non c’è educazione senza censura: già allora si registravano episodi simili. Avevo peraltro riportato che «Le avventure di Huckleberry Finn» non è accessibile a chiunque, perché il nostro eroe smoccola un po’ troppo; oppure che tutta la saga di Harry Potter è andata incontro ad alterne fortune in questa o quell’altra scuola, perché incita alla stregoneria. Altri libri assai noti – e stra-letti da schiere di adolescenti, almeno fino a qualche anno fa, quando leggere era ancora un’attività assai diffusa dentro e fuori dall’aula – sono incappati nelle maglie censorie dell’«American Civil Liberties Union»: ad esempio «Ragazzo negro» di Wright e «Il colore viola» della Walker (razzialmente scorretti); «Ritorno al mondo nuovo» di Huxley, «1984» di Orwell e «Peter Pan» (contenuti sessuali); «Uomini e topi» di Steinbeck (linguaggio scurrile e violenza).

Noi europei, così disincantati e smaliziati, guardiamo a queste americanate con la puzza sotto il naso, neanche che la Vecchia Europa non fosse (stata) ammaliata da tanti affari americani: anche perché noi abbiamo il Vaticano, ma ci sentiamo secolarizzati; mentre, al di là dell’Atlantico, in God they trust.

In un romanzo del genovese Bruno Morchio (Colpi di coda, 2010, Milano, Garzanti), c’è un dialogo che dice molto (pagg. 111-12; il romanzo non è tra i suoi che prediligo):

«Avete vinto la guerra», mi scappò detto, «e insieme al comunismo avete fatto fuori l’istruzione di massa.»

Mi guardò dritto negli occhi, con un’espressione intensa. Sul suo viso da adolescente maturato con parsimonia affiorò un’espressione di dispiacere che forse era rammarico, forse qualcosa di più. Richiamò l’attenzione di un giovane cameriere e mi invitò a ordinare. Chiesi un caffè espresso e lui fece altrettanto.

«Gli americani dovrebbero evitare il nostro espresso», commentai. «A chi non ci è abituato scompensa il battito cardiaco.»

Ignorò la battuta, come se non avesse sentito, e domandò: «Parlavi sul serio?».

«A proposito di istruzione e comunismo? Mi sono limitato a registrare i fatti.»

«Sai benissimo che non è questo il punto.»

«E quale sarebbe il punto?»

«Quali fatti si registrano e quali no. Il comunismo ha promosso la scolarizzazione, ma ha soppresso e deportato i dissidenti e costretto interi popoli a vivere in una perenne condizione di penuria.»

«Non scaldarti», lo interruppi. «È acqua passata.»

«Sai che ti dico?» proseguì. «Il comunismo è caduto anche perché i suoi metodi non funzionavano più. Nell’era di Internet è diventato impossibile censurare una notizia. Tutto quello che si può fare è evitare che essa venga recepita, facendola scomparire in una pletora di informazioni. Tecnicamente, si chiama azzerare la differenza accrescendo la ridondanza. Sopprimere e reprimere è costoso e poco remunerativo. Molto meglio allungare e diluire, come il caffè americano rispetto al vostro espresso.»

A parte tutto l’ho scampata bella. Il mese scorso ho presentato Ovidio e le Metamorfosi a ragazzini delle scuole elementari (parlo in prima persona per evitare chiamate di correità che sarebbero ingiuste e un poco perfide). Avevo iniziato due anni fa, con quell’altro bellimbusto d’un Giovanni Boccaccio, quello del Decameron. Ci converrà passare ad autori meno pruriginosi.

Per fortuna che L’origine du monde, l’olio su tela dipinto da Gustave Courbet del 1866, è custodito in Europa, al Musée d’Orsay di Parigi.

A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?

La parola in piazza, al mercato del giovedì.
La parola in piazza, al mercato del giovedì.

È la terza volta, in poco tempo, che torno a scrivere di «Piazzaparola», che quest’anno ha fatto conoscere Ovidio e alcune sue metamorfosi a ragazzine e ragazzini di nove o dieci anni, naturalmente adattate per la loro età e per il loro (presunto e presumibile) retroterra di conoscenze. L’ho fatto nel giugno scorso («Perque omnia sæcula vivam!») e poi ancora ai primi di settembre (Rieccomi).

Se ci torno nuovamente oggi è per due o tre ragioni che vanno al di là della classicità, dei miti dell’antichità, della manifestazione pubblica e di ogni altro motivo legato all’attualità, alla cronaca, all’autocelebrazione o alla visibilità di chi ha comunque il coraggio di sostenere proposte di tal fatta. Tra le tante cose che mi prescrive il medico a scadenze regolari, non c’è che mi debba impegnare a organizzare «Piazzaparola» o altri eventi sui generis.

Giovedì scorso, a Locarno, abbiamo ospitato poco meno di 300 alunni delle scuole elementari della regione. Nessun maestro, presumo, è stato obbligato dal suo direttore a portare la sua classe a seguire le nostre parole in piazza. Eppure si trattava di una mattinata esigente e difficile.

L’appuntamento con allievi e maestri era per le nove al Teatro di Locarno. I primi dieci minuti sono passati con il benvenuto del direttore del DFA della SUPSI, Michele Mainardi, e un’introduzione a ciò che sarebbe successo di lì a poco.

Ai giardini Rusca
Cristina Zamboni e Simona Meisser narrano due metamorfosi ai giardini Rusca, accanto alla scultura del toro che l’artista Remo Rossi (1909-1982) ha donato alla città di Locarno nel 1976.

Io e Silvia Demartini, la mia impagabile complice nelle cose di «Piazzaparola», abbiamo spiegato al nostro pubblico cosa sarebbe successo nei prossimi cinquanta minuti: perché per 23 e passa minuti la platea avrebbe ascoltato La via Lattea, l’origine del mondo dal caos, la nascita dell’uomo, in un nostro adattamento (più di Silvia che mio, a dirla tutta). D’accordo, c’era la suggestiva ed evocativa fantasia musicale di Giovanni Galfetti, composta per l’occasione; c’erano le voci suadenti di Marco Fasola e Beppe Vedani; e c’era il racconto di Ovidio, così come l’avevamo trasformato, con quel qualcosa che ancora mancava, quell’essere più nobile e più intelligente, che sapesse gestire gli altri, l’Uomo, impastato con acqua piovana e terra.

A seguire Eco e Narciso, messi in scena da Sara Giulivi e Cristina Zamboni, che hanno piegato la narrazione alle loro dolcezze attoriali: creando sul palco spoglio un pathos mica da niente.

Insomma, dieci minuti di protocollo, ventitre minuti di ascolto al buio, con alcuni giochi di luce, discreti. Poi un altro un quarto d’ora di storie d’altri tempi, ma con emozioni moderne. Eppure in quei cinquanta minuti nessuno ha fatto caciara, non ci sono stati schiamazzi da stadio, non si sono visti insegnanti furibondi, a gridare «Silenzio!» e a minacciare improbabili e feroci punizioni. Segno che i nostri ragazzi sono bene educati.

Da lì in poi, almeno per me e per Silvia, la strada è stata in discesa: è più facile raccontare storie quando ci sono la bravura e l’emozione di attrici come Sara Giulivi e Cristina Zamboni, che hanno duettato con un artista eclettico – Daniele Dell’Agnola, qui in veste di musicista, con la sua superba fisarmonica – e con un’illustratrice brava quanto affascinante – Simona Meisser. Insomma: all’udito abbiamo concesso qualche altro organo di senso in più…

Il ratto di Europa, secondo Simona Meisser.
Il ratto di Europa, secondo Simona Meisser.

Che concludere? Che si possono offrire cose difficili e impegnative anche a ragazze e ragazzi di nove o dieci anni. Che per fare cultura con i futuri adulti, i cittadini di domani, non è obbligatorio farli ridere a tutti i costi, con le banalità più grossolane e chiassose, e non è nemmeno così democratico interagire con loro minuto dopo minuto, chiedendo di esporre le tesi più improvvisate, condite dall’immancabile commento dell’adulto, che tutto sa e tutto accredita: basta divertirsi, fingere di essere alla mano, giocare al buon democratico e sdoganare ogni scemenza sparata al microfono volante dal piccolo narcisista di turno, che ha ben memorizzato le dinamiche televisive – mentre, per restare a quel giovedì ovidiano, non ha capito la storia di Narciso (a tempo debito bisognerà fargli leggere il capolavoro di Oscar Wilde, con test al seguito).

Voglio dire: in quel giovedì mattina si è dimostrato che i nostri decenni, se rispettati e presi sul serio, sanno comportarsi come o anche meglio di tanti adulti, che a certi congressi VIP magari s’addormentano o fanno i giochini con lo smartphone.

E allora, dov’è l’inghippo?

Me lo chiedo. Nei prossimi giorni chiunque potrà scaricare dal sito del DFA della SUPSI tutti i materiali utili per capire cos’è successo quel giovedì mattina. Tutto sarà disponibile al link della manifestazione: Torna Piazzaparola! Metamorfosi: storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone.

«Ieri un calice si è spezzato a causa di tutto questo fracasso, e il mio vino si è rovesciato sulla mia toga nuova!», disse Bacco, dio del vino e della vendemmia.
«Ieri un calice si è spezzato a causa di tutto questo fracasso, e il mio vino si è rovesciato sulla mia toga nuova!», disse Bacco, dio del vino e della vendemmia.

 

Intendiamoci: chi ha partecipato a «Piazzaparola», quest’anno come negli anni scorsi, ha vissuto un avvenimento caratterizzato dall’essere insieme, dal vivere con altri un momento artistico emozionante. Ma i racconti di Ovidio sono lì, a disposizione di chi li vuole. Per primi, ovvio, chi era con noi, perché il piacere di ripercorrere, capire e approfondire è maggiore se legato alla partecipazione concreta. Un conto è aver visto e sentito «Eco e Narciso» recitato dalle nostre attrici, un altro conto è leggerlo personalmente.

Ma la forza del racconto resta intatta.

E allora sarebbe interessate riuscire a sensibilizzare quelle centinaia di maestre e maestri che operano lontano da Locarno, e che ben difficilmente potrebbero partecipare alle nostre offerte. Ma, ancora una volta, non mi faccio troppe illusioni: de facto Ovidio e i classici – i classici di tutte le arti – interessano poco alla scuola o alla scuola dell’obbligo. Basterebbe pensare che «Piazzaparola junior», manifestazione che a Lugano ha mosso i primi passi, da quest’anno non ha più organizzato nulla per le migliaia di allievi della grande Lugano e dell’intera regione.

E avanti con le supposizioni.

Ho detto che le maestre e i maestri che hanno accolto il nostro invito sono una quindicina. Dalla maggiore parte di loro ho riscosso, a fine mattinata, apprezzamenti molto lusinghieri. Modestamente mi vien da dire che, magari, sono stati solo educati e gentili, perché hanno rispettato un lavoro preparatorio che hanno stimato intenso e disinteressato. Ma sono sicuro che nessuno di loro, rientrato in classe, si è messo a fare i test e a dare le note agli allievi.

Proserpina - Meisser
La nascita delle stagioni nell’illustrazione di Simona Meisser.

E qui giungiamo a un punto cruciale. Questi insegnanti hanno la possibilità di arricchire la giornata rileggendo le storie di Ovidio, discutendole, confrontandole col presente, cercando di coglierne gli insegnamenti e gli intendimenti morali o etici. Volendo, potranno tuffarsi nell’antichità e nella romanità, nel greco antico, nel latino e nel percorso affascinante e appassionante della nascita delle lingue romanze. E potranno anche chinarsi sulla vicenda di quell’uomo impastato con acqua piovana e terra, così simile all’Adamo biblico, sgorgato dalla penna del poeta latino quando Gesù Cristo aveva meno di dieci anni.

Tre anni fa ho colto lo stuzzicante invito di «Piazzaparola», quello di proporre anno dopo anno del classici della letteratura e della cultura italiana ad allievi di scuola elementare. Lo faccio con passione, anche grazie a chi mi asseconda, mi sostiene o – come Silvia Demartini – fa in modo che sia possibile passare dalle chiacchiere alla realtà: perché personalmente non ho i numeri per presentare ad altri Ovidio (o Leonardo nel 2014 o Boccaccio due anni fa o chissà chi negli anni a venire).

Dopo averci pensato a lungo, Zeus decise di compiere una grandiosa trasformazione: posò lo scettro, ritirò il fulmine che era solito lanciare sulla terra e si tramutò in un enorme e maestoso toro.
Dopo averci pensato a lungo, Zeus decise di compiere una grandiosa trasformazione: posò lo scettro, ritirò il fulmine che era solito lanciare sulla terra e si tramutò in un enorme e maestoso toro.

Credo, lo credo fermamente, che queste cose così inutili, legate alle arti, siano un atto di resistenza di grande importanza al cospetto della scuola di oggi, così tecnocratica e selettiva, che sta invadendo il nostro paese, assieme a tanti altri. Perché non se ne può più di HarmoS, delle competenze, dei test, delle valutazioni a getto continuo, del disprezzo che la scuola mostra verso tutto ciò che non può essere misurato e pesato e proposto in modo utilitarista: la più grande fregatura da quando esiste la scuola pubblica e obbligatoria. Ovidio, assieme ai suoi colleghi artisti di tante discipline, è molto più importante, per la democrazia e la civiltà, di tanti usi perversi e fondamentalmente immorali che la scuola di oggi, giorno dopo giorno, infligge alle grandi conquiste umane e intellettuali, dall’antichità ai giorni nostri: dall’etica al diritto, dai teoremi di Euclide alla meccanica quantistica, dalla genetica alla robotica.

Sempre più spesso sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…».

La scuola e quella vecchia scatola di cartone zeppa di poesie

Quando s’avvicinava la fine dell’anno scolastico, il maestro cavava dall’armadio una scatola di cartone zeppa di poesie. Era il segnale che, entro metà giugno, sarebbe arrivato l’«esaminatore» e che noi allievi avremmo dovuto recitare una poesia a memoria davanti a lui, ai nostri compagni e ai nostri genitori. Un anno mi capitò Palazzeschi: «Clof, clop, cloch, / cloffete / cloppete / clocchette, / chchch… / È giù, / nel cortile, / la povera / fontana / malata; / che spasimo! / sentirla / tossire». Da studiare, un supplizio. Altri compagni erano stati più fortunati: «La nebbia a gl’irti colli / Piovigginando sale, / E sotto il maestrale / Urla e biancheggia il mar», oppure qualche verso del Pascoli: «Nella Torre il silenzio era già alto. / Sussurravano i pioppi del Rio Salto. / I cavalli normanni alle lor poste / frangean la biada con rumor di croste».
Era un rito durato tre anni, e non saprei nemmeno dire se questa sfilata poetica fosse appannaggio della nostra classe e del nostro anziano maestro, oppure se fosse una delle tante incallite consuetudini di quella scuola dei primi anni ’60. Quella era l’esibizione di fine anno, che ritrovava forse un senso nelle decine di poesie mandate a memoria nei mesi precedenti. Facile che il sabato ce ne dettasse una, ovviamente da saper recitare il lunedì mattina: «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti / Van da San Guido in duplice filar, / Quasi in corsa giganti giovinetti / Mi balzarono incontro e mi guardar». Qualche volta, invece, si allontanava dai sentieri della poesia; allora si arrivava al sadismo mnemonico: «Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi…». La scuola elementare, insomma, si serviva della poesia per allenare lo studio a memoria. Qualche anno più tardi, al ginnasio, cominciammo a scomporle, le poesie, per ‘penetrarle’: così invece di mandare i versi a memoria, dovevamo restituire le interpretazioni preconfezionate. A dirla tutta, quel disfarle per coglierne il senso era francamente di una noia mortale e astrusa, che a molti ha fatto odiare Pascoli e Carducci, Foscolo e Leopardi. E, naturalmente, Dante e Manzoni.
Poi venne il ’68, che giustamente fece strage di tali pratiche, anche se in modo sbrigativo e senza guardar tanto per il sottile. Ma assieme alle pratiche si è perso per strada anche un patrimonio culturale che, sin lì, si trasmetteva di generazione in generazione. Sopravvissero per un po’ alcuni poeti più recenti: Ungaretti, Quasimodo, Saba, … Poi più nulla, o poco più. Da troppi anni la scuola dell’obbligo si è sbarazzata della poesia – naturalmente al di là delle immancabili «lodevoli eccezioni», che pure esisteranno. Le rare volte che fa capolino, la poesia è al servizio di qualche tema (l’autunno, la pace, …) ed è facile che, in seguito, gli scolari stessi siano invitati a verseggiare per conto loro, illudendoli che per scrivere anche solo una poesiola basti un po’ di creatività (eccola, la parolina magica). Anche da qui, forse, sono nati quei tantissimi «poeti» che – come ha scritto recentemente Saverio Snider – trascorrono «le loro serate […] a scrivere (andando a capo ogni tanto) pensierini ricchi di saggezza e di luoghi comuni».
Non so se, a tanti anni di distanza, sarebbe ancora possibile restituire la poesia alla scuola. Certamente, se lo si facesse, si dovrebbe inventare un nuovo approccio, partendo dalla musicalità, dalle figure retoriche, da questo stupendo gioco con le parole, le emozioni, i sentimenti. Credo che sia possibile accostarsi a «Il sabato del villaggio» senza far torto ai propri allievi o allo stesso Leopardi, lasciando invece definitivamente alle spalle il bisogno di usare quei versi come strumenti di tortura pedagogica. Anche perché le crudeltà selettive non sono state annientate con l’abbandono della poesia: hanno solo cambiato aria. Ma non si sa se qualcuno ne ha tratto un guadagno.