Nei primi anni di vita di ogni bambino vi sono dei traguardi che inorgogliscono i genitori e rinforzano la loro capacità educativa, quasi sempre in modo informale e spontaneo. Un bel giorno, spesso in modo inatteso, il figlioletto ride e sgambetta felice. Allo stesso modo imparerà a riconoscerà i volti e le voci, a gattonare e muovere i primi passi maldestri, a dire qualche (quasi) parola; in seguito comincerà a usare il cucchiaio autonomamente, diventerà curioso e, pian piano, porrà domande su domande. Sono i traguardi che ritmano una crescita che durerà una vita intera. Gli studiosi, quando affermano che queste tappe si verificheranno a tale o tal altra età, si rifanno a osservazioni statistiche: proprio per questo offrono degli scarti che possono essere più o meno importanti. Camminare, parlare, capire, ascoltare, pensare sono capacità complesse, generate da un misto di caratteristiche fisiche e mentali, ricevute per trasmissione genetica, e di esperienze vissute dalla nascita in poi, spesso del tutto fortuite, altre volte frutto di meditati e consapevoli stimoli.
Un bel dì, però, arriva il tempo di sedersi dietro un banco di scuola per imparare a leggere e a scrivere. Questo momento coincide con i sei anni di età, che è il momento in cui il 70% dei bambini ha i prerequisiti che permettono tale apprendimento. C’è chi già scribacchia e leggiucchia, e chi che non è ancora del tutto pronto, benché manchi poco. Questo progetto di alfabetizzazione, in parte iniziato già due anni prima, non si limita naturalmente ai quattro cardini dell’imparare l’italiano – leggere, scrivere, ascoltare e parlare – ma coinvolge la matematica e l’educazione alla vita in una piccola comunità come la classe. Il processo di crescita si sposta dunque in un contesto che è diverso da quello della famiglia.
È qui che entrano in gioco la professionalità della scuola e dei suoi insegnanti, che si riconoscono nelle finalità e negli obiettivi della scuola dell’obbligo; che sanno programmare la loro attività sapendo che, malgrado le differenze individuali, tutti hanno il diritto di acquisire ciò che la scuola dello Stato si è impegnata a insegnare; che padroneggiano le discipline che insegnano e le didattiche che soggiacciono alle specificità di ognuna. In altre parole: gli insegnanti sono tenuti, istituzionalmente ed eticamente, a differenziare il loro insegnamento. Parrebbe invece che per poter imboccare la via della differenziazione sia necessario avere classi sempre più piccole.
Durante quell’ultimo mese di scuola in presenza degli allievi, ma metà per volta, ho sentito anch’io qualche insegnante gioire: finalmente ho così pochi allievi che posso addirittura differenziare. Non mi convince. Forse bisognerà ragionare su classi di una ventina di allievi – ma si sa che le origini sociali e culturali non si diffondono equamente in ogni quartiere. Più che aumentare la presenza di figure professionali e, nel contempo, puntare a ridurre gli allievi nelle classi, converrebbe investire soldi ed energie nella formazione degli insegnanti: perché la scuola non è nata per assomigliare alle famiglie. Nel frattempo il Decs dovrebbe riprendere un tema che era presente nel primo documento «La scuola che verrà», del 2014, dove si indicava la collaborazione tra docenti per una condivisione di obiettivi, decisioni e responsabilità: in altre parole l’insegnamento in équipe, che tra tanti vantaggi offre pure l’opportunità di far variare il numero di allievi in base al bisogno.
La traduzione italiana, del 1995, è del mo. Plinio Luconi, insegnante di scuola elementare a Locarno.
Una copia dell’edizione originale dell’articolo è visibile cliccando qui.
Buona estate a tutti.
Il trattamento intensivo delle malattie infantili sul pianeta Kafka | Memorandum all’attenzione dell’Accademia di etnografia extragalattica
di I. Van Hill Hitch, socio-esploratore indipendente
Questo documento eccezionale ci è giunto attraverso una deformazione accidentale del continuum spazio-temporale. Si presume che la proiezione della scuola nel futuro, con una compensazione imprevedibile, abbia inviato frammenti del futuro nel nostro presente (testo apparso in Textes libres Rapsodie, 1982, N° 12, p. 65-72).
Kafka è l’unico pianeta abitato di questo piccolo sistema solare. Innumerevoli specie viventi vi coesistono. La specie dominante conta alcuni miliardi di individui, che formano delle società distinte, spesso in conflitto tra loro.
Nelle società più ricche, tutti i bambini sembrano nascere affetti da una grave malattia. Non è mortale, ma, se non viene trattata per tempo, impedisce all’individuo di diventare un adulto completo.
Il trattamento è piuttosto lungo e complicato, al punto che le famiglie non sono assolutamente in grado di applicarlo per conto loro. Mi è stato riferito che se ogni bambino fosse curato nella sua famiglia da un medico, occorrerebbe un tale numero di medici che la produzione alimentare ne risentirebbe. Per questo motivo i bambini vengono ospedalizzati massicciamente. Allo scopo di non toglierli totalmente alle loro famiglie, vengono ricoverati in piccoli ospedali di giorno, ubicati in prossimità delle loro abitazioni. In queste strutture i bambini passano qualche ora il mattino e qualche altra ora il pomeriggio. A metà giornata interrompono il trattamento per un pasto in famiglia, rito molto importante in queste società.
Un tempo, solo le famiglie che lo desideravano facevano curare i figli. Molte altre non ci pensavano o ritenevano inutile la guarigione. Circa cento anni fa, a causa dell’insistenza dei medici, il trattamento fu reso obbligatorio. Da allora i genitori che rifiutano di far trattare i loro figli incorrono in gravi sanzioni.
Per ragioni che non sono riuscito a chiarire, il trattamento diventa obbligatorio a partire dall’età di sei anni, forse per lasciare i bambini il più possibile con la famiglia, nel momento in cui i genitori sono maggiormente affezionati ai loro figli. Potrebbe anche darsi che l’ospedalizzazione di bambini troppo piccoli possa essere troppo complicata. Non lo so. Le autorità consigliano alle famiglie di cominciare per conto loro il trattamento il più presto possibile. Alle famiglie vengono forniti i consigli che servono ad aiutarle a operare in questo senso. Se hanno a cuore la guarigione del figlio possono consultare un medico o decidere un’ospedalizzazione precoce, già tra i due e i quattro anni. A quest’età il ricovero non è comunque obbligatorio, ma le famiglie che non intraprendono nessun passo in questa direzione entro i sei anni sono sempre più rare, e passano come irresponsabili agli occhi del vicinato.
Il trattamento richiede diversi anni, almeno nove. I primi sei anni sono identici per tutti i bambini, a eccezione di quella piccola parte di casi ritenuti più gravi e trattati in cliniche specializzate. Questa prima parte, che i medici chiamano trattamento di base, è suddivisa in sei fasi annuali. Da quando hanno sei anni, i bambini vengono ospedalizzati e viene somministrata loro la prima fase. Al termine del primo anno passano normalmente alla seconda fase, un anno più tardi alla terza, e così di seguito. Se al termine di una delle fasi annuali la malattia non è sufficientemente regredita, il medico, d’accordo con il suo capo clinica, può decidere di ripetere l’applicazione della stessa fase del trattamento. Parrebbe, insomma, che il passaggio diretto alla fase seguente non sarebbe proficuo. Ogni fase è concepita in modo da essere efficace in un preciso stadio della guarigione. Certi aspetti del trattamento sono comuni a tutte le fasi, mentre altri non riguardano che i primi anni – o, al contrario, saranno sviluppati più tardi.
Per ognuna delle fasi del trattamento di base – che dura quindi dai sei agli otto anni, in base all’evoluzione della malattia –, i bambini sono affidati a medici generalisti, formati per applicare tutte le sfaccettature del trattamento. Mi è stato riferito che prima che i trattamenti diventassero obbligatori, succedeva che un solo medico si prendesse a carico più di cento malati, a volte centocinquanta. In questo caso era assistito da una o più infermiere. Grazie al progresso tecnico nella produzione alimentare, è stato possibile destinare alcune persone attive alla medicina. Nella maggior parte degli ospedali di giorno che ho visitato, vengono affidati circa 25 malati a un solo medico, che se ne occupa tutti i giorni per tutto l’anno – insomma, quasi tutti i giorni. Dal momento che il trattamento risulta abbastanza faticoso, lo si interrompe due giorni alla settimana, e a volte anche per una o più settimane consecutive. Ho sentito molti medici lamentarsi di importanti ricadute durante questi periodi. Altri non si lamentano di avere più tempo per mangiare e dormire, o anche per formarsi a nuove terapie.
Parlando con i medici, ho potuto constatare che molti avevano l’impressione di non essere efficaci come avrebbero desiderato. Tutti sono convinti della necessità di un trattamento di lunga durata. Ma certi mettono in causa l’organizzazione ospedaliera. Si rendono conto che i bambini affidati alle loro unità di cura si situano a differenti livelli dal punto di vista della regressione della malattia. In alcuni si nota una specie di guarigione spontanea, per cui ci si potrebbe accontentare di un trattamento leggero. In altri il trattamento è stato iniziato già nella prima infanzia e i progressi sono soddisfacenti. Con altri non è ancora stato intrapreso niente e il loro stato risulta preoccupante. Malgrado ciò questi bambini diversi sono ugualmente assoggettati alla prima fase del trattamento di base non appena compiono i sei anni. Questa prima fase non giova a tutti nello stesso modo; anzi, le differenze aumentano di anno in anno. Esiste la possibilità, per una minoranza, di raddoppiare l’applicazione della stessa fase, ma tutti i medici coi quali ho parlato non hanno nascosto il loro scetticismo a questo proposito:
«Se almeno, dicono, si potesse modulare il trattamento, individualizzarlo! Ma è impossibile. Ogni caso merita una terapia adattata al suo stato, dei medicamenti particolari. Ma l’amministrazione ci assegna gli stessi medicamenti per tutti. All’inizio dell’anno, riceviamo una dotazione proporzionale all’effettivo dei nostri malati. Non esiste possibilità d’ottenere altro. Ci viene imposto un piano di trattamento molto stretto, che occorre rispettare entro la fine dell’anno. Ciò restringe la scelta dei metodi terapeutici. D’altra parte la nostra libertà su questo punto risulta parecchio teorica. I primari e i capi clinica sono ancorati a certi metodi. È a questi metodi che si limita la nostra formazione.
Se ce ne allontaniamo, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Ma ciò che ci manca è soprattutto il tempo. Dedicando due ore al giorno a ogni malato, il trattamento progredirebbe in modo ottimale. Per alcuni un’ora sarebbe largamente sufficiente, per altri occorrerebbero almeno tre ore. La guarigione sarebbe garantita in nove anni o in molto meno. Meglio non pensarci. Immaginate: i bambini più giovani vengono all’ospedale sei ore al giorno, noi dobbiamo trattare collettivamente tutto il gruppo, o per lo meno alcuni sotto gruppi. Alcuni malati sono abbastanza autonomi per curarsi quasi da soli. Altri s’aiutano. Ma succede raramente. Sapete, sono bambini. La maggior parte non si rende conto della gravità del loro stato. Durante l’infanzia e l’adolescenza non soffrono, la malattia non ha delle conseguenze. Non immaginano quanto succederà se non si fa nulla. Alcuni provano con tutti i mezzi a sottrarsi al trattamento! Bisogna riconoscere che non tutti i giorni è divertente…»
Di medici scoraggiati ne ho incontrati parecchi. Alcuni pensano che non si può far nulla con un numero così alto di malati. Altri pretendono che si organizzi il trattamento differentemente, così da poter curare tutti in meno tempo. Ma, dicono, l’amministrazione ospedaliera è soprattutto desiderosa di mettere ordine e gestire questo immenso insieme di malati e medici. Parlando in privato, certi amministratori ammettono che la separazione delle fasi di trattamento è discutibile, e che, in ogni caso, non è vantaggiosa per ogni bambino. Riconoscono pure che certi aspetti del trattamento sono inutili per una parte degli ammalati. Ma preferiscono amministrarli comunque. Ciò evita noie con i genitori, ai quali preme che i loro figli guariscano. Non appena alcuni genitori sentono dire che in un ospedale non si dispensa lo stesso trattamento che negli altri, ne fanno uno scandalo. Alcuni medici, amaramente, pensano che molti loro colleghi approfittino della situazione, applicando i trattamenti standard senza troppo riflettere, redigono periodicamente i loro rapporti e si dicono che, dopotutto, quando una malattia è così generalizzata, non si può pretendere di guarire tutti.
Altri, per contro, pensano che li si tratti da utopisti e sognatori, pretendono che adattando veramente i trattamenti ai malati, sarebbe possibile guarire tutti, e in ogni caso evitare, dopo i sei anni di trattamento di base, di indirizzare i malati verso le varie trafile di cure differenti.
Bisogna sapere, in effetti, che alla fine del trattamento di base si procede all’esame dello stato di ogni giovane malato, stabilendo un pronostico. Per alcuni, si è già persa ogni speranza di guarirli completamente. Li si orienta quindi verso qualche anno di trattamento finale, che permetterà loro di sopravvivere nella società, con uno statuto inferiore e un minimo accesso ai beni alimentari o quant’altro. Per gli altri la guarigione sembra possibile o addirittura certa, e la società, in questi casi, fa uno sforzo speciale per loro. Sei anni di trattamento post «obbligatorio» – quindi al di là del trattamento base – garantiranno a coloro che ne sono degni lo status più invidiabile e il più ampio accesso al consumo.
Non tutti si rassegnano a questa gerarchia sociale ed economica, basata sul grado di guarigione; così il sistema ospedaliero è al centro di continui dibattiti. Questa società interamente medicalizzata, dove tutta l’organizzazione è retta dalla necessità di curare una malattia generalizzata, non è che una delle strane strutture che il viaggiatore interstellare incontra quando si interessa alle civiltà primitive identificate in galassie lontane. Sulla malattia stessa non posso dire molto. Non ha nulla in comune con le poche malattie rare che rimangono sul nostro pianeta.
Le poche osservazioni che ho fatto mi hanno piuttosto ricordato alcune caratteristiche dell’organizzazione della nostra società quattro o cinquecento anni fa. Mi sembra che nel XIX e XX secolo non si disponesse ancora dei mezzi d’apprendimento istantanei. L’istruzione dei bambini preoccupava gli adulti, e l’avevano organizzata un po’ alla maniera della medicina sul pianeta Kafka. Un amico storico me lo ha confermato. Quando gli ho fatto notare che guarire una malattia e educare i bambini erano delle attività decisamente poco comparabili, mi ha ricordato che i filantropi della fine del XIX secolo solevano dire: «La malattia più grave, che tocca ognuno e che bisogna curare prioritariamente, è l’ignoranza!» Beninteso, non è che un modo di dire. Nondimeno mi rifiuto di credere che, anche diversi secoli fa, sulla Terra potesse esistere un sistema così assurdo per l’educazione dei bambini! Eppure, negli ultimi cento anni in cui ho viaggiato nell’universo, ne ho viste di società bizzarre!
1° aprile 2482
Philippe Perrenoud, sociologo, è nato nel 1944 e ha conseguito il dottorato in sociologia e in antropologia. Dal 1984 al 2009 è stato chargé de cours all’Università di Ginevra; in seguito, dal 1994, è stato professore ordinario, occupandosi di curricolo, di pratiche pedagogiche e di istituti di formazione. Con Monica Gather Thurler ha fondato e animato il Laboratoire de recherche sur L’innovation en Formation et en Éducation (LIFE).
I suoi lavori sulla fabbricazione delle disuguaglianze e dell’insuccesso scolastico l’hanno portato a interessarsi del «mestiere» di allievo, delle pratiche pedagogiche, della formazione degli insegnanti, del curricolo, del funzionamento degli istituti scolastici, delle trasformazioni del sistema educativo e delle politiche dell’educazione.
[Tratto dal sito della Facoltà di Psicologia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Ginevra. La traduzione italiana è mia].
Oggi voglio parlare del numero di allievi per classe, non quello assiomatico secondo cui più allievi ci sono, meno imparano; ma quell’altro, che serve per istituire una scuola o, più spesso, per sopprimerla. Tra le tante variabili che portano all’apertura di una nuova scuola, ce n’è una più micidiale di altre, perché la norma vuole che ogni sezione non può avere meno di 13 né più di 25 allievi, al di là di un’indicazione del regolamento che invita a tenere conto delle caratteristiche socioculturali degli allievi, che è una definizione come minimo un po’ vaga.
Con questo espediente si sono chiuse tante scuole periferiche, lasciando intendere, con la complicità di troppi operatori del settore, che le pluriclassi sono ripieghi da campionati minori, da creare solo se proprio non se ne può fare a meno. Sulla base di questo assunto si è proceduto, sin dagli anni ’70, alla creazione di consorzi scolastici, che, assai spesso, hanno annientato in un sol colpo le scuole di tutti i villaggi di una regione. Dubito che queste scelte politiche siano riuscite a migliorare il livello formativo rispetto alle scuole di paese di un tempo, creando per contro nuovi costi e disagi – si pensi ai trasporti giornalieri da comuni e frazioni verso i centri scolastici.
Avevo collaborato al progetto di aggregazione dei comuni della sponda sinistra della Maggia, poi bocciato in votazione popolare nel 2011. Uno studio assai articolato sull’organizzazione delle scuole della collina locarnese aveva rimarcato un principio che ritengo di grande validità e di profondo senso civico: «Si può ritenere che la presenza della scuola sul territorio del comune rivesta un’importanza fondamentale, non fosse che a livello di identità e di attaccamento al proprio territorio. Molti comuni che, a suo tempo, optarono per le chiusure delle loro scuole, si sono assai rapidamente trasformati in anonimi quartieri-dormitorio. Un comune senza bambini che lo percorrono per andare a scuola è un comune senz’anima. Frequentare la scuola nel proprio comune è la prima condizione per conoscerlo».
In quest’ordine di idee è intrigante l’iniziativa parlamentare, del tutto in controtendenza, dei deputati Nicola Pini, Giacomo Garzoli e cofirmatari. Tenuto conto che le scuole comunali «rappresentano un elemento di vitalità senza il quale una regione sembra davvero destinata a morte certa dal profilo culturale e comunitario» propongono che si tenga conto delle caratteristiche socioculturali degli allievi, del contesto socioeconomico e della morfologia territoriale della regione, per eludere la regola pignola del 13/25. Auspicano dunque «che la sensibilità verso questo aspetto possa essere largamente condivisa, in modo da offrire un elemento di sbarramento alla tendenza allo spopolamento delle periferie e di speranza verso un futuro in cui si possa finalmente intravedere un’inversione di tendenza favorevole a uno sviluppo di tutto il Cantone».
È difficile dire come andrà a finire. Molte scuole, ormai, hanno chiuso i battenti. I villaggi che hanno aderito ai consorzi ben difficilmente inseriranno la retromarcia. Ma forse è ancora possibile, in alcune zone, invertire la rotta. Nei panni di una giovane famiglia che vuole allontanarsi dalle città e da certe periferie adibite a dormitori, vorrei che i miei figli frequentassero la scuola elementare in paese e che vi si recassero a piedi, percorrendo e imparando a conoscere le sue vie e viuzze, gli edifici, i campi e le piazzette: anche perché la pluriclasse è cool.
L’iniziativa parlamentare dei deputati Nicola Pini e Giacomo Garzoli, firmata pure da Sebastiano Gaffuri, Franco Celio e Walter Gianora, può essere scaricata qui.
«Occorre essere lungimiranti. Investire nella scuola significa investire nei giovani e dunque nel futuro». In vista del voto popolare sull’iniziativa «Rafforziamo la scuola media» è iniziata la solita lagna. Anche in tempi tecnocratici e burocratici come questi, è difficile dissentire: investire nella scuola – meglio, nell’educazione – significa ambire a un futuro migliore. «Non ho ancora sentito un argomento contrario a questa iniziativa che non siano i costi – ha affermato Raoul Ghisletta, primo firmatario dell’iniziativa – e sappiamo benissimo che i costi sono il grande tabù di questo cantone». Dissento, ma andiamo oltre.
Come ha riferito questo giornale, «durante il dibattito parlamentare, il Consigliere di Stato aveva invitato a rinviare le discussioni finché non fosse stata presentata “La scuola che verrà”, la riforma elaborata dal DECS che mira a riorganizzare l’intero sistema dell’obbligo». Concordo, al di là del parere di Fabio Camponovo, altro sostenitore dell’iniziativa, secondo il quale «Dire di no in nome di un progetto che deve ancora esser posto in consultazione ci appare specioso se non subdolo. È ancora da dimostrare che il progetto di Bertoli sia migliore e meno dispendioso dell’iniziativa. Investire nella scuola non è mai stato semplice, se poi ci si mette anche il DECS a remare contro, le cose si complicano». Ben vengano le complicazioni, perché il problema, naturalmente, non è lì, la domanda è un’altra.
Non stravedo per la «Scuola che verrà». Tuttavia, pensando ai temi proposti da questa e altre iniziative popolari, non ho mai nascosto la testa sotto la sabbia. Mense e doposcuola sono una grana del dipartimento della socialità: la scuola ha ben altri crucci. Nel contempo ho sempre detto che la diminuzione lineare del numero massimo di allievi per classe ha lo stesso quoziente di ottusità di ogni intervento analogo. Ma la scuola che potrebbe esserci – e che ha bisogno del contributo di tutti, senza minacce e senza aut aut politici e/o sindacalistici – è un degno tentativo per cambiare qualcosa alla sostanza stessa della scuola.
La scuola obbligatoria è forse quella che, tra tante istituzioni pubbliche, si è riprodotta negli anni infinitamente uguale a sé stessa. Se scordiamo i suoi programmi e le sue didattiche, la scuola assomiglia ancora maledettamente a quella di metà ottocento. Perfino l’esercito e la polizia, che nell’immaginario collettivo si collocano dalla parte della massima prudenza di fronte al cambiamento, hanno saputo adeguare le proprie strutture all’evoluzione della società. Mi verrebbe addirittura da dire, con riferimento all’esercito: malgrado i ricorrenti tagli budgetari. La scuola no, è ancora aggrappata a consuetudini ormai secolari: un maestro, un’aula, un tot numero di allievi, i «miei» allievi. A parte qualche ammirevole artigianato, qual è il mestiere che seguita a essere così refrattario al lavoro in équipe? Senza citare il calendario scolastico, che assomiglia spaventosamente a quello uscito, oltre cent’anni fa, dalle estenuanti trattative col mondo agricolo, che aveva bisogno di mani per mungere e braccia per i lavori nei campi. Ma sono finiti i tempi in cui la scuola dettava i ritmi a Roma e al mondo…
Senza ironia alcuna: d’accordo, credere nella forza dell’educazione significa investire nei giovani e nel futuro del Paese. Ma, di grazia, qualcuno mi può dire che scuola si vuole?
Uno dei capisaldi della scuola ticinese è l’inclusione: il sistema cerca infatti di accogliere al proprio interno il maggior numero di allievi, evitando il più possibile separazioni di tipo strutturale. Questo implica di riflesso la presenza di classi maggiormente eterogenee, come succede nei sistemi scolastici con i migliori risultati, ma di più difficile gestione se non accompagnate da adeguate misure pedagogiche. Partendo dal presupposto che la scuola ticinese intende mantenere, se non rafforzare, la sua natura inclusiva, è necessario un cambiamento che, pur preservando i principi della scuola attuale, permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe. Maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile potrebbero essere delle risposte a queste sfide.
I «casi difficili»
In un commento al mio articolo W l’eterogeneità, W le pluriclassi!, Doriano Buffi, direttore di scuola comunale, ha toccato il tema dell’inclusione riferendosi ai cosiddetti casi difficili (si veda in calce all’articolo il suo primo commento un po’ maldestro, seguito dalla mia reazione e dalla sua precisazione). L’argomento rimanda dritti dritti al lodevole proposito dipartimentale, e fanno bene i suoi vertici politici e pedagogici a mirare al nobile obiettivo di accogliere all’interno dei normali canali scolastici il maggior numero possibile di allievi, evitando separazioni di tipo strutturale. Giustamente lo stesso Dipartimento auspica «un cambiamento che (…) permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe» attraverso «maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile».
In tanti anni di esperienza ho avuto spesso a che fare con casi difficili, a volte già alla scuola dell’infanzia, e ben prima che si cominciasse a parlarne come di un problema. Detto per inciso: si sa che quando si comincia a parlare di qualche nuovo fenomeno è perché i casi si stanno moltiplicando e, sovente, i buoi sono almeno sull’uscio, pronti a uscire dalla stalla. Chiuso l’inciso.
Quei casi sono triplicemente difficili. Lo sono perché i bambini o i ragazzi soffrono assieme alle loro famiglie. Lo sono perché l’insegnante e gli altri allievi si vedono l’ambiente di lavoro disturbato pesantemente, un ambiente costruito in tanti mesi di impegno assiduo o magari, invece, ancor tutto da creare. E lo sono pure per le cosiddette autorità scolastiche al fronte – ispettori, direttori, capigruppo del sostegno pedagogico – che sanno molto bene come gli strumenti a loro disposizione siano fragili o inesistenti e, soprattutto, richiedano tempi lunghi per essere attivati. Si creano così situazioni drammatiche, grondanti frustrazioni a 360 gradi, senza parlare del pietoso festival delle arrampicate sui vetri, nell’estenuante tentativo di limitare i danni in attesa di escogitare una soluzione precaria.
In questi casi non è lecito intervenire nell’ambito dell’inclusione a priori. Si deve capire che questi casi difficili non possono essere affrontati all’interno della classe, nemmeno con la presenza in aula di personale supplementare, peraltro mai a tempo pieno e quasi mai disponibile dall’oggi al domani. Per contro occorrerebbero strutture in grado di proteggere questi allievi e le loro famiglie e, nel contempo, di intervenire sulle cause che provocano i comportamenti devianti, con l’obiettivo di raggiungere l’inclusione nel tempo più breve: per taluni potrebbero essere poche settimane, per altri anni interi. La presenza di un bambino difficile in una sezione di scuola dell’infanzia o elementare ha effetti devastanti, con ricadute incontrollabili su tutta la scuola. Sono casi che annichiliscono la necessaria serenità che serve per mettere in atto il già difficile compito di educare all’interno di un gruppo attraverso il lavoro dell’imparare.
Tenere in classe questi seppur pochi casi difficili sarà anche politicamente corretto, ma alla fine è logorante e, nel contempo, non fa il bene della scuola né, ovviamente, di quegli stessi allievi. Siamo insomma confrontati con casi psichiatrici. Dalle maestre e dai maestri delle scuole dell’infanzia ed elementari, che sono dei generalisti, non possiamo continuare a pretendere che, oltre a tutti i compiti che son stati loro assegnati negli ultimi quarant’anni, siano pure in grado di affrontare situazioni che neanche gli specialisti saprebbero gestire in situazioni analoghe.
I diversi «non difficili»
Diversa è la vicenda, invece, di alcuni allievi che non sono di per sé casi difficili, ma finiscono assai spesso in quel benemerito settore scolastico che si chiama scuola speciale. Penso, in particolare, a quei bambini o ragazzi dalle capacità intellettive lievemente ridotte, leggeri ritardi che rendono particolarmente difficile la loro inclusione nelle classi «normali», essenzialmente a causa del fatto che nelle classi «normali» – le virgolette sono naturalmente una scelta consapevole – vige il primato della prestazione prettamente scolastica, appesantito da un accanimento valutativo e sommativo che non giova a nessuno. Questa indifferenza alle differenze, che si traduce, ad esempio, nella certificazione annuale, cozza in maniera apertamente contraddittoria contro quella differenziazione dell’insegnamento e quei percorsi personalizzati di cui parla il Dipartimento.
Vi sono allievi che finiscono a scuola speciale perché non raggiungono determinati obiettivi dei programmi nei tempi prestabiliti, tempi che sono fissati dalle statistiche della psicologia cognitiva e da quelle, più empiriche, dell’esperienza. Ho visto ragazzi finire a scuola speciale perché, ad esempio, dopo aver rinviato l’inizio della scuola obbligatoria e aver ripetuto poi una classe, rischiavano di ritrovarsi con delle competenze scolastiche inadeguate per l’età, mentre il corpo era già quello di un preadolescente. Per questi ragazzi l’alternativa alla scuola speciale poteva essere il disimpegno della scuola: li si aiutava a cavarsela in qualche modo per tirare a campare fino al termine della scuola elementare, assegnando delle sufficienze che nascondevano gravi lacune e che si aggravavano col trascorrere degli anni. Qualcuno sarebbe riuscito a barcamenarsi fino ai quindici anni, qualche altro sarebbe diventato un caso difficile.
Ancora una volta, quindi, W la massima eterogeneità. Per una volta mi sento di sognare anch’io coi vertici del Dipartimento dell’Educazione: la scuola indicata, quella dell’inclusione, è l’unica che può Educare per davvero. Ma occorre azzerare le contraddizioni interne, la più vistosa delle quali resta la selezione dei «migliori», o quantomeno la loro classificazione, attraverso programmi scolastici ingiustificabili, che sono soggettivamente valutati a scadenze ravvicinate e regolari – con tanto di promozioni e bocciature – senza tener conto delle differenze individuali. Le pari opportunità sono state una conquista; oggi, tuttavia, non devono impedire di mirare alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del risultato massimo a cui ognuno può spingersi.
Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola