Ultimamente il nostro DECS ha preso il vezzo di pavoneggiarsi, ma le piume per far la ruota ce le devono mettere i comuni, sui quali si abbatteranno presto i costi per alcune misure a favore delle scuole elementari. Già da quest’anno tutto il servizio di sostegno pedagogico – nato proprio nei comuni grazie alla lungimiranza di alcuni direttori, che negli anni ’70 avevano saputo guardare oltre il proprio naso – è finito sotto le ali del Cantone, anche se, per il momento, di miglioramenti non se ne sono visti. È probabile che ancor prima di giugno arriveranno altre riforme strutturali che, nelle intenzioni, vorrebbero migliorare la qualità delle scuole comunali: diminuzione del tetto massimo di allievi per classe e aumento dei compiti dei direttori, con l’obiettivo di estendere questa figura a tutti gli istituti e a tempo pieno. Il ministro Bertoli ha inoltre promesso che arriverà anche l’aumento dei salari dei docenti.
Tutte queste misure sono dispendiose, mentre i margini decisionali dei comuni, ai quali toccherà una fetta consistente delle uscite, saranno ulteriormente sottoposti a rigorosa cura dimagrante. Come non dar ragione, date le circostanze, al municipale locarnese Giuseppe Cotti, che, in un’intervista rilasciata a Marco Bazzi su liberatv, ha proposto di abolire lo statuto di scuola comunale? Bertoli ha replicato, ma non ha convinto: «È vero che le competenze comunali sono limitate, anche se restano delle peculiarità molto importanti come la nomina dei docenti e la gestione delle infrastrutture». Urca! E ancora: «Confidiamo molto nel ruolo che giocano gli enti locali. Proprio per questo abbiamo proposto la generalizzazione della figura del direttore delle scuole elementari, che sarà a tutti gli effetti una figura comunale», senza però dire che le nuove mansioni dei direttori saranno semplicemente tolte agli ispettori, quegli ispettori già ridotti di numero una decina di anni fa, dopo aver convinto tanti comuni a dotarsi del direttore.
Passi per l’adeguamento dei salari e, con tante riserve, per il numero di allievi per classe. Ma, di grazia, qual è lo scopo di riversare sui direttori tanti attuali compiti degli ispettori, tenendo conto che, sino a oggi, nessuna legge obbliga i comuni ad averlo? Un paio di anni fa ero stato interpellato, assieme a due colleghi, dal gruppo operativo «Flussi e competenze» per esaminare la problematica delle scuole comunali dal punto di vista dei flussi finanziari tra Cantone e comuni e delle conseguenti competenze decisionali. Avevamo proposto una mezza rivoluzione copernicana, attraverso una politica sussidiaria che tenesse conto delle tante differenze da una scuola comunale all’altra. Ma non se ne fece nulla, anche se i comuni hanno dimostrato in tanti decenni di saper gestire bene le loro scuole, vivibili e di buona qualità.
Al di là di chi si assumerà i costi, resta l’amarezza di fronte all’interpretazione banale del senso delle pari opportunità. La solita indifferenza alle differenze – in questo caso tra comuni e relative cittadinanze socio-economicamente disuguali – porterà (forse) vantaggi ai comuni più ricchi: gli altri che s’arrangino. Perché una cosa è sicura: con una diversa politica sussidiaria da parte dello Stato e un reale grado di autonomia, i comuni sarebbero in grado di affrontare anche i tanti problemi nuovi generati da questi tempi rapidi e spesso confusi, al di là di ogni tentativo di omologazione.
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I politici, il DECS e l’indifferenza alle differenze
Il presidente dei giovani liberali radicali ticinesi ha scritto nei giorni scorsi, riferendosi all’iniziativa dei Verdi che propone di abolire i famigerati livelli della scuola media, che nutre «dubbi nell’ideologia che vuole dipingere gli individui tutti uguali e senza differenze nel processo di apprendimento»; nel contempo continua a professare la sua fede «nella scuola pubblica e laica». Non è chiaro cosa c’entri, in questo contesto, il carattere pubblico e laico della scuola col resto del discorso. Qualche giorno prima un parlamentare di area liberale, praticamente un parente politico di quell’altro, aveva chiesto una sorta di «Vaticano II per la scuola pubblica», perché «nella scuola pubblica già oggi non c’è un’unica velocità di crociera, ma ci sono velocità e qualità diverse». Toh: detta così sembra una novità tutta contemporanea. Certo che, nella scuola privata, tutti pedalano in gruppo, a buona velocità. Così si evitano discussioni. Forse è necessario chiarire un paio di cose. A chi è contrario a certe selezioni precoci messe in atto dai sistemi scolastici non passa per la testa che tutti siano identici e imparino allo stesso ritmo e con le medesime modalità. Sarà banale ricordarlo, ma il processo di crescita di una persona è influenzato da un’infinità di variabili e anche da una buona dose di fatalità: c’è chi nasce con la camicia e chi nudo come un verme, chi vede la luce all’ombra dell’ateneo e chi nel ghetto. La camicia o la nudità non generano il quoziente intellettivo. La storia della scuola è costellata di donne e uomini che hanno saputo differenziare il loro insegnamento per rispondere alle diversità dei loro allievi. Anche oggi, nella nostra scuola, vi sono Insegnanti che sanno diversificare la loro azione quotidiana e raggiungere magnifici livelli di istruzione e di educazione, senza nascondersi dietro i comodi alibi dei livelli, della burocrazia di Stato che tende ad appiattire, dei troppi allievi, dei genitori protettivi e bellicosi e, a volte, delle scarse risorse finanziarie.
Una scuola in cui si insegna sul serio e si ottengono risultati elevati è possibile: e non solo in Finlandia. Richiamando proprio il paese dei mille laghi è quasi automatico rammentare che c’è una differenziazione che l’insegnante deve mettere in atto tra le quattro mura dell’aula e c’è un’altra differenziazione, altrettanto se non più importante, che sarebbe compito dello Stato. Prendiamo il sostegno pedagogico, quell’utile servizio per rinforzare l’azione degli insegnanti titolari alle prese con quegli allievi che si ritrovano agli estremi della curva di Gauss. Lo Stato assegna delle unità di sostegno pedagogico agli istituti su basi quantitative: tot sezioni o allievi, tot docenti di sostegno. L’applicazione della norma è tutta quantitativa: si dà per scontato che la proporzione di allievi che richiede quel servizio è costante in ogni sede scolastica. Lo stesso discorso vale per il numero massimo di allievi per classe, che sul medio termine sarà quasi certamente ritoccato verso il basso. Non servono conoscenze straordinarie per sapere che le cose non stanno così. In realtà siamo di fronte a un’organizzazione scolastica almeno un po’ miope, che ruota attorno al presupposto che i diciannove allievi di una classe pongono i medesimi problemi e richiedono le stesse attenzioni in qualsiasi sede, da Barbengo a Camignolo ad Ambrì. Lo Stato, per farla breve, se ne fa un baffo delle diversità sociali, culturali ed economiche. Questo modo ostinato di fingere la messa in atto delle leggendarie «pari opportunità» diventa così la prova lampante dell’indifferenza alle differenze, un’attitudine ipocrita già denunciata negli anni ’60 dal sociologo Pierre Bourdieu. E fa venire in mente una vignetta senz’altro iperbolica. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane. «Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio: il compito è uguale per tutti. Arrampicatevi sull’albero».
E se tornassimo a parlare di pedagogia, quella vera?
La nostra (ormai decrepita) Legge della scuola stabilisce che «L’istituto è l’unità scolastica in cui si organizzano la vita e il lavoro della comunità degli allievi e dei docenti, con il concorso di altri agenti educativi, segnatamente dei genitori, al fine di conseguire gli obiettivi specifici del proprio ordine o grado». Tra le tante tortuosità che costellano i novantanove articoli – naturalmente senza contare tutti i testi legislativi che discendono dalla Magna Charta – s’incontrano anche le norme sulla gestione di ogni singolo istituto, che sono una caterva: sotto le autorità scolastiche – dal Consiglio di Stato giù giù fino agli «Organi di promovimento, di coordinamento, di vigilanza e di organizzazione amministrativa» – si citano, nell’ordine, la direzione, il collegio dei docenti, l’assemblea degli allievi, l’assemblea dei genitori e il consiglio d’istituto. Non si può poi scordare che «Allo scopo di integrare la propria funzione educativa, la scuola si vale della collaborazione del mondo della cultura, dell’informazione e dell’economia». Il men che si possa dire è che l’intricata rete di poteri, effettivi o supposti, fa sì che alla fine ognuno si arrangia come può; nel frattempo tutti, ma proprio tutti, possono dire la loro o spararla grossa, col risultato che non si capisce più niente e tutto resta sempre più o meno com’è.
Da un po’ di tempo in qua si sprecano le soluzioni magiche per risolvere i gravi problemi in cui si dibatte la scuola, con particolare attenzione a quella dell’obbligo, vale a dire quella scuola che ogni allievo deve frequentare tra i sei e i quindici anni di età. La precisazione sulla perentorietà della frequenza non è questione di poco conto, dato che rappresenta una precisa scelta dello Stato, che vuole istruire ed educare i suoi cittadini, indipendentemente dal sesso, dal ceto, dalla razza, dalla religione, dalla nazionalità o dall’ideologia. Naturalmente non è sempre stato così; quando nacque la scuola pubblica e obbligatoria i problemi erano ben altri. Si pensi che la prima Legge della scuola ticinese, del 1804 e fatta di soli quattro articoli, decretava che «In ogni Comune vi sarà una scuola, ove s’insegnerà almeno leggere, e scrivere, ed i principj di aritmetica». Si noti l’avverbio, che introduce gli assi portanti della scuola. Ma il Gran Consiglio dell’epoca aveva da sciogliere un nodo mica da poco: «Tutti i Padri di famiglia, Tutori, e Curatori sono obbligati mandare i loro figlj, e minorenni alla scuola», con multe fino a dieci franchi per i renitenti all’istruzione dei pargoli, da versare «nella cassa de’ poveri del luogo, ove esiste la Scuola». A oltre duecento anni da quelle prime norme fondatrici dell’Istituzione scolastica, non ci si scandalizza nemmeno più se quasi la metà degli allievi esce dalla scuola media con licenze da far piangere e se una porzione significativa degli altri non ce la fa a superare il primo biennio del medio superiore. Eppure i costi non sono proprio bruscolini. Più volte ho sostenuto, in questa rubrica, che la pedagogia non la studia quasi più nessuno e che è diventata sempre più ignota anche a molti professionisti della scuola. Invece sarebbe tempo di tornare a riflettere sulle modalità, i metodi, le strutture e gli strumenti per raggiungere quel magnifico obiettivo che è l’educazione e l’istruzione del maggior numero possibile di futuri cittadini, mirando a risultati elevati per tutti. Si potrà continuare a lungo, soprattutto nei luoghi della politica, del DECS e della formazione degli insegnanti, a discutere di specializzazioni didattiche, di numero di allievi per classe, di educazioni specifiche (sessuale, religiosa, ambientale, emotiva, civica e chi più ne ha più ne metta), senza dimenticare mense e trasporti. Ma senza una fondamentale premessa comune che stabilisca quali sono le nostre scelte fondamentali non raggiungeremo lo straccio di un risultato: a quel punto tanto varrebbe riesumare la scuola del bel tempo che fu, così spesso citata a modello.
Le scuole comunali ai Comuni: perché no?
Aveva cominciato l’attuale ministro dell’educazione Gabriele Gendotti a chiedersi, già nel 2002, se non fosse giunto il tempo di passare le scuole comunali – vale a dire le scuole dell’infanzia ed elementari – sotto le premurose e calde ali del Cantone, con l’obiettivo principale di annullare le diverse disponibilità finanziarie dei Comuni e garantire a ogni allievo una scuola di uguale livello, a prescindere dallo stato dei forzieri del suo luogo di residenza. A quell’epoca Gendotti non aveva esitato a indicare la cantonalizzazione di queste scuole come uno dei temi della prossima legislatura. Nel frattempo di legislature ne sono passate due e un po’, ma fortunatamente non se n’è fatto nulla, o quasi. È di questi giorni la notizia che un primo passo in questa direzione sarà compiuto dopo il rinnovo dei poteri cantonali. Nel recente messaggio al Parlamento su alcune modifiche nei rapporti tra Cantone e Comuni in materia scolastica, il Consiglio di Stato preannuncia che «il progetto di “cantonalizzazione” del Servizio di sostegno pedagogico delle scuole elementari (…) sarà oggetto di un messaggio separato»: siamo insomma a una di quelle operazioni di maquillage legislativo di cui avevo parlato di recente (CdT del 19.10). Giusto un anno fa l’Associazione dei Comuni Urbani, in una sua lettera alla piattaforma di dialogo Cantone-Comuni sulla modifica di flussi finanziari e competenze, aveva osservato che «nell’ottica della ricerca di una nuova organizzazione dei rapporti tra Cantone e Comuni, si ritiene senz’altro necessario un esame della fattibilità di cambiamenti più radicali quali la cantonalizzazione completa del settore scolastico». La provocazione, in sé, non faceva una grinza, se solo si pensa che allo stato attuale delle cose le scuole comunali sono quasi del tutto cantonali, dal momento che i margini di intervento dei Comuni sono ben poca cosa. Tuttavia, come aveva osservato Fabio Pontiggia su questo giornale (7.1.2010), «mancava solo il coraggio di dire: stop, non se ne fa nulla perché non serve a nulla. Qualcuno l’ha avuto», il coraggio. E aggiungeva: «Se c’è qualcosa che funziona bene in Ticino (…) è proprio il settore delle scuole comunali».
Giunti a questo punto, invece, converrebbe chiedersi se l’effettivo potere dei Comuni sulle proprie scuole non potrebbe rappresentare un incentivo incomparabile per intraprendere un auspicato salto di qualità: cominciando proprio dal sostegno pedagogico, da lasciare lì dov’è. Chi meglio degli operatori delle scuole comunali e dei loro amministratori politici sarebbe in grado di adattare le sue strutture scolastiche alle peculiarità della propria popolazione? Il cantone, casomai, dovrebbe dettare le regole principali del gioco – in particolare quali competenze devono avere gli allievi al termine della quinta elementare, oltre ai paletti già fissati dal concordato sull’armonizzazione della scuola obbligatoria – e mettere in atto un principio di sussidiarietà che tenga conto delle diversità locali e non solo della forza finanziaria. Al resto dovrebbero pensare i Comuni, tenendo conto anzitutto di quelli nuovi che nasceranno dalle aggregazioni. Va da sé che non si tratta di mettere queste scuole in concorrenza tra loro, bensì di garantire per davvero le pari opportunità, indipendentemente dal luogo di residenza (città, periferia o valle), dal ceto sociale, dalla provenienza culturale. Realtà socio-culturali ed economiche diverse hanno esigenze diverse, che non possono essere affrontate con regole paralizzanti quali il numero di allievi per classe o il rapporto tra numero di sezioni e docenti di sostegno pedagogico. Un’effettiva autonomina dei Comuni nella gestione delle proprie scuole aprirebbe oltre al resto altre accattivanti opportunità di miglioramento dell’insegnamento, attraverso scelte pedagogiche, etiche e istituzionali che solo chi conosce a menadito la propria realtà, piccola o grande che sia, è in grado di valutare e rendere operanti. Voglio però essere realista: questo è un dibattito che non inizierà nemmeno, tanto siamo prigionieri delle nostre tradizioni, ormai ancestrali, senza curarci troppo della loro efficacia. In fondo le mense e i doposcuola paiono più importanti.
Qual è il numero ideale di allievi per classe?
La scuola ticinese è inerte perché ha troppi allievi per classe. La loro riduzione è «la misura cardine per permettere una svolta positiva» contro «l’immobilismo progettuale nel settore della scuola dell’obbligo». Lo ha detto la VPOD Docenti, come ha riportato La Regione del 27 marzo, mentre il concetto era già stato ribadito in precedenza dal segretario della VPOD Raoul Ghisletta, che, in un articolo pubblicato dal foglio bellinzonese (23 marzo), mi aveva messo alla berlina con Diego Erba, poiché entrambi saremmo colpevoli di «dormire sugli allori» e di attuare una politica suicidaria «per la scuola pubblica e soprattutto per la società ticinese». Tuttavia ricondurre l’immobilismo della nostra scuola al numero di allievi per classe è, a dir poco, un luogo comune un po’ stantio. Per chiarezza: non sono sic et simpliciter contro la riduzione del numero di allievi per classe. Reputo però che una diminuzione lineare e generalizzata sarebbe controproducente e superflua, per diverse ragioni sulle quali mi sono già chinato. Semmai, ancor prima di chiedere riforme strutturali sui generis, converrebbe esaminare quali sono gli spazi che già l’attuale legislazione concede, almeno a parole. Vediamo. Le regole in vigore stabiliscono che le monoclassi possono avere da un minimo di 13 a un massimo di 25 allievi, ma indicativamente tra 20 e 25. Aggiungono pure che il dipartimento può autorizzare o imporre deroghe ai parametri indicati quando le caratteristiche socioculturali degli allievi richiedono un’assistenza particolare. Qui sta semmai la duplice spregiudicatezza del DECS, che ha solitamente come punto di riferimento il massimo degli allievi e che mai ha considerato la necessità di considerare l’importanza delle caratteristiche socioculturali degli allievi, che in nessun caso si ripartiscono equamente in ogni istituto del cantone. L’ho già scritto in questa rubrica: «l’equità numerica di una classe dipende soprattutto dalle caratteristiche individuali di ogni allievo e dalla natura degli obiettivi che si perseguono. Definire un numero tot di allievi per ogni classe da Airolo a Chiasso a prescindere dalle differenze che sussistono da una sede scolastica all’altra è un po’ come decidere che tutti dobbiamo pagare le stesse imposte: cioè un’ingiustizia» (7.10.09).
Di ammuffita, invece, sembra esserci proprio la questione del numero di allievi per classe, che si affaccia alla ribalta a scadenze regolari, benché negli anni esso sia concretamente calato senza portare chissà quali successi sul piano della riuscita scolastica degli allievi più iellati. Ben altri sarebbero invece i correttivi da invocare per modificare una struttura scolastica immutata sin dal XIX secolo e copiata pari pari dalle prime scuole dei preti: un’aula, un maestro e un gruppo di allievi. La blasonata scuola finlandese, che Ghisletta evoca così spesso, offre ben altre caratteristiche che contribuirebbero a migliorare anche la nostra scuola. Intanto la Finlandia applica per davvero una politica mirata di aiuto alle scuole, a dipendenza delle loro peculiarità. Poi, solo per fare qualche esempio, le note fanno la loro prima apparizione dopo la scuola dell’obbligo; la ripetizione di classe non esiste; accanto ad alcune discipline obbligatorie, ogni allievo ha un discreto margine di manovra per scegliere altre materie che completano il suo curricolo; le ore settimanali di lezione sono una ventina a 7 anni e arrivano a 30 con l’accesso al liceo. Ma, soprattutto, si reputa che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro: tutte cose che ho già scritto in questa rubrica (24.10.08). Per il resto, checché ne dica Ghisletta, se fossi capo della divisione della scuola del DECS avrei ben altre visioni. Ma sono solo un direttore di scuola comunale.