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La scuola delle pari opportunità e della differenziazione

Nell’era di un piano di studio, autoritario e complesso, che finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione

Quando si parla si scuola, soprattutto di scuola dell’obbligo, piace a molti sciacquarsi la bocca con le pari opportunità e la differenziazione. Quasi mai si riesce a capire cosa si intenda per differenziazione. Le pari opportunità che si vorrebbero a scuola, invece, sono più esplicite. Di solito chi le evoca intende dire che a ogni allievo vengono garantite identiche condizioni di partenza: gli stessi programmi, gli stessi supporti didattici, gli stessi insegnanti (il prof. Zambelloni, una volta, osservò ironicamente che nella scuola coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi).

Ad esempio, Sergio Morisoli, oggi parlamentare UDC, scrisse che «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali (CdT 12.08.2012)». Circola una vignetta che, col dovuto cinismo, illustra questa diffusa versione delle pari opportunità. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane, e sullo sfondo un albero. Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio. Il compito è uguale per tutti: arrampicatevi sull’albero». È quel che succede a scuola. Un mese dopo l’inizio dell’anno scolastico c’è già chi arranca, non capisce, resta indietro. Poi arriveranno gli specialisti, i genitori saranno convocati e sentiranno dirsi che il pargolo ha tante difficoltà. Magari a fine anno sarà bocciato (oggi si dice «rallentato»), e l’anno dopo dovrà rifare anche quel che aveva già imparato.

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

Rivolgendosi alla politica per contraddire quella sorta di mainstream che si è appropriato di due parole – pari opportunità – per farne un comodo alibi, continuava così: «Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare».

L’attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo richiama una dichiarazione d’intenti della Conferenza intercantonale dell’istruzione pubblica della Svizzera romanda e del Ticino, che, tra tante enunciazioni, afferma che «La Scuola pubblica assume compiti di educazione e di trasmissione di valori sociali, tra i quali la promozione delle pari opportunità a livello di riuscita scolastica». Un dichiarazione per lo meno ambigua, soprattutto alla luce delle quasi 300 pagine che dovrebbero contestualizzare gli obiettivi della scuola obbligatoria attraverso i «piani disciplinari», le sue «aree» e le sue materie.

I programmi delle scuole obbligatorie del 1959 – Scuola elementare e maggiore, scuola di economia domestica e di avviamento professionale – di pagine ne avevano 74. E così introducevano il discorso: «Un programma non può essere che uno schema offerto all’insegnante perché lo trasformi in cosa compiuta e viva». Diciamo che c’era una diversa stima degli insegnanti e dei loro allievi.

Ora invece siamo confrontati con un piano di studi velleitario e illusorio, che ha bisogno, per funzionare in qualche modo, di tante figure professionali che si accalcano nelle aule, frammentano le competenze, diluiscono le responsabilità. Nella scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico, di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, psicologi, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che dovrebbe essere il vero regista di ciò che succede nella sua aula. Invece quel Piano di studio, autoritario e complesso, finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione, per chi deve insegnare e per chi deve apprendere. Vedremo presto se ci saranno la volontà politica e la capacità e di ricreare una scuola serena, in cui insegnare e imparare tornino a essere momenti da ricordare per tutta la vita con almeno un po’ di piacere.

Scritto per Naufraghi/e

Nel mio blog si trovano numerosi articoli sul tema delle pari opportunità nella scuola. Alcuni sono stai pubblicati su giornali o riviste (soprattutto nella rubrica «Fuori dal’aula», che ho firmato sul Corriere del Ticino per quasi vent’anni). Altri sono apparsi solo nel blog. Tra questi mi piace richiamare Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità? (16.05.2016).

Lezioni sulla scuola dentro spazi pubblicitari

Attraverso tesi stravaganti l’imprenditore Alberto Siccardi ammonisce, a pagamento, sui mali della scuola pubblica e le virtù di quella privata

Da qualche anno gli unici due quotidiani ticinesi rimasti pubblicano con regolarità un’intera pagina gestita dalla società anonima Spazio libero SA, su – si legge nello statuto societario – «temi di attualità all’attenzione dei cittadini e delle cittadine del Cantone Ticino». È una propaganda politica che stride soprattutto con la linea editoriale del bellinzonese “LaRegione”, anche se, in fondo, è un problema suo: quando servono soldi non ci si scandalizza per così poco – e i lettori non sono obbligati a soffermarsi sulle inserzioni pubblicitarie.

Sono un frequentatore casuale e distratto di quelle pagine. Ma qualche giorno fa (vedi “LaRegione” e “Corriere del Ticino” del 2.3.23) un paio di parole in un titolo hanno attirato la mia attenzione: «La scuola, i figli, l’educazione che vogliamo». Confesso che mi è scappata la parolaccia.

L’articolo (chiamiamolo così benché sia, appunto, un’inserzione pubblicitaria) se la prende in entrata col ’68 e i sessantottini, accusati di aver commesso una montagna di danni culturali e morali, di aver preso possesso della scuola e non essersi più schiodati da lì. Oddio, ricordo abbastanza bene quegli anni. Quando il ’68 esplose in Ticino (occupazione dell’aula 20 della scuola magistrale) avevo quindici anni e frequentavo il ginnasio.

Ho in mente, nei primi anni ’70, taluni eccessi, sia alla scuola magistrale che nelle aule ticinesi, ma bisogna stare attenti a non buttar via il bambino con l’acqua sporca. Non si può scrivere, come fa il nostro “opinionista”, ovvero l’imprenditore Alberto Siccardi, che «I nostri ragazzi oggi si dividono sostanzialmente in due gruppi, a seconda della famiglia da cui provengono: i conservatori e i partigiani dei cambiamenti. Frequentano le stesse scuole ma in aula prevale la tendenza al cambiamento, che è invece avversato dai ragazzi conservatori e dai loro genitori. Molti insegnanti sono rimasti al ’68 e hanno preso la leadership nella scuola».

A parte che gli insegnanti che hanno vissuto il ’68 sono tutti in pensione, qualcuno riesce a immaginarsi alti funzionari dell’allora DPE – penso ad Armando Giaccardi, Sergio Caratti o Diego Erba, per fare qualche nome di quegli anni – coimputati del «variegato terremoto culturale» che ha annientato anche «la triade famiglia-scuola-Chiesa [che] non insegna più gli stessi valori» di una volta? Mi piace ricordare i consiglieri di Stato, tutti liberali radicali, che hanno guidato la nostra scuola dagli anni ’70: Bixio Celio, Ugo Sadis, Carlo Speziali, Giuseppe Buffi e Gabriele Gendotti, non certo pericolosi comunisti al soldo di Mosca, senza che nessuno se ne accorgesse per quasi mezzo secolo.

In realtà la scuola ticinese è una buona scuola, coi suoi pregi e i suoi difetti. Come tante scuole in giro per l’Europa è piuttosto conservatrice, quantunque vada di moda dire che la scuola sia un “cantiere sempre aperto”. A partire dagli anni ’70 molte cose sono cambiate, sono nate nuove leggi, nuove prospettive, nuove materie di studio. La democratizzazione degli studi ha diffuso i licei nel cantone, consentendo a tanti giovani di frequentare ancor oggi i politecnici e le università elvetiche, nonché ottimi centri di formazione e specializzazione professionale. Tra i tanti, i principali punti nodali della formazione sono la difficoltà, assai diffusa tra i docenti, di rinnovare il proprio modo di insegnare e di comunicare con le nuove generazioni, e l’isolamento in cui si è cacciata la Svizzera nei confronti dell’Europa: altro che sessantottini al potere e rivoluzionarismo senza data di scadenza.

Naturalmente il prototipo di scuola che vagheggia Siccardi in “Spazio libero SA” porta negli USA, il cui sistema scolastico è esaltato in poche righe: in sostanza, quel che interessa è la possibilità di accedere alla scuola privata. Si dà per scontato che il ’68 ha fatto macelli anche lì, con la divisione culturale tra le famiglie conservatrici e quelle più aperte ai cambiamenti. Viene in mente la polemica di qualche anno fa, tutta americana, tra evoluzionisti e creazionisti, per decidere cosa si dovesse insegnare nelle scuole della nazione, Adamo ed Eva o Darwin – tanto per ricordare che, anche nella patria di grandi educatori come John Dewey e Jerome Bruner, eccellenze scientifiche e umaniste possono scontrarsi col peggiore bigottismo.

Ma ecco la soluzione. Scrive “Spazio libero SA” che la voragine culturale provocata dal ’68 «Ha portato in molti degli Stati americani alla istituzione di voucher per gli studenti che rifiutano la scuola statale “progressista” e vogliono frequentare quella privata, appositamente creata allo scopo di dare democraticamente ad ognuno la possibilità di scegliere l’educazione che preferisce. Si parla di assegni di 7’000 dollari all’anno! Così facendo si creano due mondi politico-sociali».

C’è una data che il Ticino non può scordare: 18 febbraio 2001. Quel giorno si votò sull’iniziativa popolare denominata «Per un’effettiva libertà di scelta della scuola». Lanciata nel 1997 da ambienti di destra, chiedeva un contributo per le famiglie i cui figli frequentavano una scuola privata. Al voto popolare la proposta fu respinta dal 74.1% degli elettori ticinesi.

 

Scritto per Naufraghi/e

La banalizzazione del merito

In un’epoca durante la quale ci si appella sempre più frequentemente al merito e alla meritocrazia, il nuovo governo italiano, insediato il 23 ottobre, ha istituito il Ministero dell’istruzione e del merito.

Ha detto Luciana Littizzetto durante la trasmissione televisiva Che tempo che fa del 30 ottobre 2022:

Vi accanite col merito nella scuola, ma vogliamo parlare della politica? Se c’è un campo dove non ci si arriva tutti per merito è proprio la politica… Non è che aprendo le porte del parlamento pensi: “Ehi, sono finito al CERN, per caso!?” Il merito vale per tutti, tranne che per i politici?

[…] Abbiamo avuto ministri dell’istruzione che volevano far passare i neutrini dentro tunnel che non c’erano, Ministri dei trasporti che parlavano del trasporto su gomma nel tunnel del Brennero, che non è stato ancora realizzato… Ministri degli esteri che l’unica lingua che conoscevano era quella di vitello quando la ordinavano al ristorante… Quindi se proprio vogliamo partire con il merito in questo paese, inizierei sì dalle scuole, ma durante le elezioni e non durante le lezioni”.

Nel frattempo il Gran consiglio ticinese, nella sua seduta del 17.10.2022, ha approvato l’iniziativa parlamentare generica «Rinnoviamo la scuola dell’obbligo ticinese», che era stata presentata nel 2018 dall’Unione Democratica di Centro – che di centro ha solo il nome: 43 sì, 21 no e 19 astenuti. Stando alle cronache, la maggioranza favorevole è stata favorita dalla concordanza dei deputati liberali e della lega dei ticinesi.

Va da sé che, tra i 61 punti irrinunciabili ma negoziabili che costituiscono il proposito rinnovatore della destra ticinese, non poteva mancare l’imperativo di promuovere e offrire dei percorsi selettivi e meritori sia per gli allievi che per i docenti. Gli altri 60 punti, in sostanza, portano lì.

Continuo a credere che le finalità della scuola dell’obbligo siano altre. Proprio oggi si è conclusa a Bruxelles la 3ème Biennale internationale de l’Education Nouvelle (Convergenza per la nuova educazione), promossa da numerose associazioni internazionali, che aveva al centro dei suoi lavori anche l’aggiornamento del Manifesto per l’Educazione Nuova: il mondo che vogliamo, i valori che difendiamo.

E nel medesimo ordine di idee, mi piace segnalare l’interessante contributo di Marco Viscardi, docente all’Università degli studi di Napoli, pubblicato su DOPPIOZERO all’indomani dell’istituzione del Ministero dell’istruzione e del merito: Il merito è una fantasia. L’articolo può anche essere scaricato qui in formato PDF.

«Se il cucciolo d’uomo non impara, muore»

Nessuno nasce imparato è un bel volumetto sull’educazione, sull’imparare e l’insegnare, sull’apprendimento formale, che si impara (o si dovrebbe imparare) a scuola; e quello informale, che si impara, spesso casualmente, fuori da quel 10% occupato dalla scuola.

Un anno ha 365 giorni, un giorno 24 ore, ovvero 8’760 ore all’anno. I primi anni di vita sono passati prevalentemente in famiglia.

La scuola in Ticino dura 36.5 settimane (notare lo 0.5), a 5 giorni la settimana e 5 ore di lezione al giorno fanno 912 ore all’anno.

Stimiamo che un bambino trascorra un tempo analogo con attività sportive, musicali, campi sci, campi scout e altro.

Facciamo un rapido calcolo: 1000 ore a scuola, 1000 in attiviti di tempo libero, 6700 in famiglia: un bambino passa l’80% del tempo in famiglia, il 10% a scuola, e il 10% in attività associative o sportive.

Però quando si parla d’insegnamento e apprendimento ci si concentra solo sul 10%. Magari ci sono più occasioni di apprendimento e stimoli d’insegnamento nel restante 90%, ma per queste competenze non si danno diplomi e non si determina la vita professionale delle persone.

Scrive l’autore che Questo non è un libro di pedagogia e non intende proporre riforme delle strutture formative istituzionali. In effetti la lettura è piacevole, fa riflettere e a volte anche divertire. Con un linguaggio semplice ma non banale – a tratti disincantato, sornione, appassionato – Martinoni tratta temi centrali della formazione e della crescita attraverso metafore, immagini, aforismi, cioè il modo che gli è sembrato più diretto per esprimere realtà complesse e contraddittorie. Come per esempio imparare a camminare.

Il bambino che impara a camminare è “imparato” dalla forza di gravità, dal dolore nel cadere, dal sorriso della mamma, dalle braccia che lo accolgono. Qualcuno impara prima, qualcun altro dopo, ciascuno con metodologie proprie: dallo spostarsi a quattro zampe, a cercare un sostegno esterno, a tentare i primi passi eretti, ognuno con un proprio ritmo. La mamma non t’insegna a camminare, ma tu non impari da solo, in uno spazio vuoto.

Mi torna spesso l’immagine del piccolino che abbandona fiducioso le braccia di chi gli vuol bene per conquistare il mondo.

Nessuno nasce imparato si legge quasi con golosità, perché ognuno entrerà in quelle storie, che possono rievocare nel lettore esperienze personali, emozionanti o dolorose, del proprio percorso di crescita. Il professionista ci troverà tracce delle sue fonti, da Johann Heinrich Pestalozzi (i tre gruppi fondamentali: la testa, il cuore e le mani) a Ivan Illich («Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti») a tanti altri.

Ma – avverte l’autorevole autore – Non ho fatto citazioni in questo breve testo. Tuttavia ribadisco che ho molti debiti, con persone, autori, eventi: dovrei fare un elenco molto lungo. Quando sei attento a imparare acquisti molti debiti e sicuramente dimenticherei i più importanti. In questa sede mi limito a esprimere la mia riconoscenza e a citare alcune fonti, come esempio e per non avere l’aria di aver improvvisato tutto.

Tutti gli apprendimenti fondamentali, aver fiducia, camminare, parlare sono vitali. Non dimentichiamoci che l’uomo nasce prematuro, senza le competenze per sopravvivere. Non è come il puledro che dopo poche ore cammina. Se il cucciolo d’uomo non impara, muore. La madre, il padre, il sole, il freddo, il cibo gli “imparano”.

Ripeto, se non impara muore. Imparare è vitale.

Un bel volume, che vale la pena di leggere. Un racconto che si può cominciare da pagina uno oppure dalla fine, una lettura intrigante per chi ha a cuore l’educazione di tutti.


MAURO MARTINONI, Nessuno nasce imparato – Le persone e le cose che mi hanno imparato, mi hanno insegnato, 2021: Giampiero Casagrande editore, 118 pagine, ISBN 978.88.7795.261.5, €-CHF 10


Mauro Martinoni, nato nel 1941, ha conseguito il dottorato in Psicologia all’Università di Zurigo. Ha gestito nell’ambito pubblico e privato progetti di innovazione e di creazione di nuove strutture, tra le quali l’Università della Svizzera Italiana (USI) e la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI). È stato membro di varie commissioni federali nel campo universitario e della pedagogia specializzata.

La scuola non deve abbandonare nessuno

Ormai siamo alla frutta, pur avendo saltato diverse portate. Così è arrivato il momento di chiudere con la domanda delle domande: ma che scuola è la scuola dell’obbligo ticinese, quella che termina con la licenza di scuola media (anche se non a tutti va bene)? Dipende dai punti di vista.

Nei confronti internazionali la scuola ticinese esce sempre con buoni voti. Prendiamo PISA, che è la verifica più conosciuta e che ogni tre anni valuta in tre ambiti – lettura, matematica e scienze – il livello dei quindicenni di una sessantina di paesi industrializzati. Da noi le analisi si concentrano su paesi simili al nostro: i paesi confinanti, alcuni paesi bilingui (tra cui il Canada) e la Finlandia, che sin dalle prime indagini PISA ha ottenuto risultati tra i migliori del mondo. Per contro, non avrebbe un gran senso il confronto con paesi culturalmente diversissimi.

Se guardiamo i punteggi ottenuti nell’ultimo rilevamento (2018) vediamo che la scuola svizzera è risultata, in media, tra le migliori di questo gruppo e che quella ticinese è tra le migliori in Svizzera. Ma le medie, come si sa, descrivono alcune cose e ne tralasciano altre. In tutti i paesi scolarizzati ci sono i primi della classe, in proporzioni diverse. Ma dall’altra parte della classifica ci sono quelli così tanto lontani dalla media da risultare del tutto incompetenti nei tre settori considerati. In Svizzera sono circa uno su dieci.

Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde». Non siamo più negli anni ’50 dell’Italia rurale – non lo siamo più da un pezzo – eppure, ancor oggi, c’è un numero importante di ragazzi che a venticinque anni non ha in mano lo straccio di un diploma: tanto che il cantone Ticino ha istituito la norma che mira ad assicurare che tutti i giovani residenti, dopo la scuola obbligatoria e fino alla maggiore età, siano seguiti e accompagnati in un progetto individuale di formazione che permetta loro di ottenere un diploma – ad esempio un certificato di formazione professionale. È difficile pensare che, tra gli allievi malmessi già alla fine della scuola obbligatoria, non vi siano quelli che si erano già persi prima, e che continueranno a brancolare senza un orizzonte.

I confronti internazionali servono anche a mettere in luce queste difficoltà dei sistemi formativi, benché di solito si tenda a mettere sotto i riflettori i cannonieri, le partite vinte e il posto in classifica. Il paese ha bisogno anche dei suoi campioni, ma il compito della scuola dell’obbligo è un altro. Sono convinto che per mirare all’educazione di futuri cittadini consapevoli, critici e liberi serva in primo luogo un ambiente sereno, che accolga e accompagni tutti. Il numero dei «fuori classifica», sommato a quello dei «minimo per la sufficienza», non fornisce grandi garanzie di cooperazione e di crescita. La competizione per stare a galla assorbe troppe energie preziose.

Non so in cielo, ma a scuola non è vero che gli ultimi sono beati, anzi. D’accordo, non siamo al punto di quegli stati dove la competitività scolastica esasperata ti porta a buttarti giù da un ponte se boccheggi o fallisci. Ma forse sarebbe utile sostenere con maggiore convinzione quelle discipline, che già fanno parte dei piani di studio, come la storia, la geografia e le arti – senza scordare la filosofia – che contribuirebbero a un’educazione civica più viva e sensata.

Insomma, proprio per chiuderla qui: «La scuola potrebbe fare di più!», per usare un’espressione che le è tanto cara.


Qualche nota, oltre l’articolo

In occasione di tutti i miei articoli pubblicati sul Caffè a partire dal 1° novembre, il giornalista Andrea Bertagni ha curato le Analisi di tanti operatori della scuola ticinese sui temi che avevo proposto. È stato certamente un lavoro non facile, anche perché i tempi sono sempre stati molto stretti. Lo voglio ringraziare per questo lavoro prezioso. Non ho mai messo il naso nelle sue scelte, solo in pochi casi posso dire che conoscessi la persona invitata a parlare dei «miei» temi. Questa è l’ultima Analisi pubblicata, un colloquio con la maestra Raffaella Moresi, che, appunto, non conosco.


Oggi il Caffè è uscito per l’ultima volta. Ha scritto in prima pagina il suo direttore Lillo Alaimo:

GRAZIE. Questa è l’ultima edizione del Caffè, nato 28 anni fa come quindicinale e 23 anni fa diventato settimanale. Un grazie particolare va ai lettori che in questi anni ci hanno premiati. Riconoscenza va a coloro che hanno contribuito alla nascita e alla crescita di questo giornale. Non può mancare un augurio a quanti e a quanto verrà dopo il Caffè, «la Domenica».

Poche parole che dicono molto sulla chiusura del domenicale, che era stata annunciata, sempre in prima pagina, sull’edizione del 9 maggio.

Segnalo due articoli pubblicati in quei giorni su Naufraghi/e:

Questa è stata l’ultima puntata della mia collaborazione con il Caffè. Era iniziata il 12 luglio di un anno fa, con una seria di cinque articoli, Verso la ripresa delle lezioni – si andava  all’apertura di un nuovo anno scolastico, dopo le tribolazioni di Covid-19 – l’ultimo dei quali era apparso sull’edizione del 30 agosto. Poi la collaborazione è continuata sulla scorta di un accordo con il direttore Lillo Alaimo, che non ho neanche rispettato fino in fondo [La formazione scolastica alla prova del tempo. Materia per materia così la scuola si rinnova].

Quest’ultimo contributo parla, indirettamente, del perché non ho rispettato a 360° la proposta di Lillo Alaimo (ma gliel’avevo detto, non ho ordito nessun intrigo).

È stata una bella esperienza. Grazie.