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Una scuola più adatta al presente: siamo pronti per un grande esercizio di democrazia?

Ridefinire insieme scopi e modalità di lavoro della scuola è necessario, ma va fatto senza fretta e con ampia partecipazione

Con il titolo L’autorevolezza perduta, il deputato e maestro di scuola elementare Aron Piezzi ha pubblicato su laRegionedel 24 novembre un articolo che merita attenzione. L’attacco è inflessibile: quando nella scuola emergono problemi, la risposta del Decs somiglia a una segreteria telefonica che ripete sempre lo stesso messaggio: più personale, più costi. Per Piezzi una visione contorta, perché servirebbe ben altro, tra cui segnala il ridimensionamento degli altisonanti principi pedagogici in voga (l’allusione al Piano di studio ticinese, su cui ho già scritto, è manifesta) e un ritorno alla centralità del maestro.

È bene chiarirlo subito: l’autorevolezza non coincide affatto con la centralità dell’insegnante. L’autorevolezza la si costruisce in aula, giorno dopo giorno, senza che nessuna riforma possa supplire a pigrizia, sciatteria, noia, indifferenza o – semplicemente – incapacità. Ricordo una classificazione fulminea di Franco Zambelloni, filosofo e insegnante, durante un incontro di riflessione sul profilo professionale degli insegnanti. Partì citando Jean Piaget: L’arte dell’educazione è come l’arte medica: un’arte che non si può praticare senza “doni” speciali, ma che contemporaneamente esige conoscenze esatte e sperimentali, relative agli esseri umani su cui viene esercitata. Tali conoscenze non sono anatomiche e fisiologiche, come quelle del medico, ma psicologiche; tuttavia non sono meno indispensabili e la soluzione dei problemi della scuola attiva o della formazione della ragione ne dipendono precisamente nel modo più diretto.

Insegnare nel III millennio, perciò, presuppone un corpus di solide conoscenze professionali che permettano in seguito di gestire serenamente la quotidianità dell’anno scolastico: in tal senso avremo un docente-artigiano in grado di svolgere in maniera professionale il mandato che gli è affidato dallo Stato, nella consapevolezza che nella scuola – per usare un sottile ritratto del prof. Zambelloni – coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi.

Anch’io ho fatto il maestro, ormai mezzo secolo fa, un’esperienza che ancora oggi ricordo con entusiasmo. Quando iniziai erano in vigore i Programmi del 1959, introdotti da alcuni «Criteri direttivi» che già allora insistevano sulla professionalità del docente: un programma è solo uno schema che l’insegnante deve rendere vivo, sta scritto. E ancora: la scuola ha una sola legge, quella del migliore sviluppo del fanciullo, e il metodo – qualunque esso sia – è buono se risponde alle esigenze morali, intellettuali e fisiche del bambino concreto, immerso nel suo ambiente particolare.

In apertura del documento c’era un’Avvertenza che oggi suona quasi profetica: il programma va adattato da ogni insegnante alla realtà della sua scuola, in accordo con l’ispettore. Premessa indispensabile: preparazione quotidiana e costante aggiornamento culturale. È forse qui che si comincia a intravedere l’autorevolezza evocata da Piezzi: una responsabilità professionale ampia, affidata all’iniziativa del singolo maestro, che richiede, ancora oggi, un impegno che non tutti sono disposti a onorare.

Il 1974, l’anno dei miei esordi “pedagogici”, fu anche quello in cui il Gran Consiglio approvò, tra molte controversie, la legge sulla scuola media, che faceva strame del ginnasio, di cinque anni, pensato per chi intendeva proseguire i suoi studi; e la scuola maggiore, di tre anni, per chi si indirizzava verso un apprendistato. L’innovativa sperimentazione partì nel ’76; i miei allievi, nel settembre del ’78, furono tra i primi a entrare nella fase di generalizzazione.

Nel 1984 arrivarono i nuovi programmi della scuola elementare, che sostituirono quelli del ’59. La centralità dell’insegnante rimase, anzi, venne arricchita dalla consapevolezza della complessità connaturata al compito educativo. Cambiò invece l’impianto culturale e pedagogico: non più la sequenza disciplinare tradizionale – che nel ’59 apriva con istruzione religiosa, educazione morale e civile, esercitazioni di vita pratica – ma un principio più ambizioso: la scuola elementare ha il compito di porre le basi perché ogni individuo possa, nel corso della vita, sviluppare le proprie facoltà e diventare consapevole della dignità, della libertà e della cultura proprie della condizione umana.

Una dichiarazione d’intenti tutt’altro che marginale, al punto da proporre, almeno sulla carta, una programmazione che superasse le “materie” consuete: l’ambiente – non solo fisico, ma umano, linguistico, culturale – come riferimento per la scelta dei contenuti e per la costruzione dei sussidi didattici. L’allievo arrivava in aula con una prima esperienza del mondo: compito della scuola era dotarlo degli strumenti per interpretarla, complicarla, renderla più consapevole.

Non proprio una bazzecola.

Se guardiamo alla situazione attuale, il dibattito sul piano di studio continua a dimostrare quanto complesso sia mantenere autorevolezza e centralità del maestro. Su un punto, dunque, Piezzi non sbaglia: invocare la “centralità del maestro” è legittimo e anche necessario quando ci si trova in un sistema che spesso confonde autorevolezza con burocrazia o con nuovi ruoli intermedi: qualcuno deve pur rispondere delle sue scelte. Ma, come lui sa perfettamente, dietro la parola autorevolezza si nasconde un’intera galassia: capacità, carattere, formazione, etica professionale, empatia, talvolta anche temperamento, un mosaico che non può essere decretato per via legislativa e che nessuna nostalgia può restituire intatto.

Resta poi sul tavolo il difficile problema del piano di studio della scuola dell’obbligo. Stando a Piezzi, “come PLR, su stimolo dell’associazione LaScuola (che associa i maestri liberali), abbiamo proposto, nel settembre del 2024, l’iniziativa denominata Per lo studio e la realizzazione di una nuova scuola media. Attendiamo con fiducia un riscontro da parte del Dipartimento”.

Senza fronzoli diplomatici, mi sento di dire che l’entrata in materia è pessima. Quel che leggo tra le righe è che ci si vuole sbarazzare in fretta del piano di studio in vigore, che, di per sé, potrebbe anche starci. Ma, come è noto, la gatta frettolosa fa i micini ciechi. A conduzione PLR il nuovo piano nascerebbe semplificato, magari con un linguaggio meno misterioso. Ma ci vorrebbe comunque qualche anno, compresi i tanti compromessi da negoziare con gli altri partiti.

Perché prima di mettersi a enumerare obiettivi (legittimi), finalità (utopiche) e aderenza al paese in cui il Piano sarà operativo, sarebbe utile porsi qualche importante domanda: in quale mondo vivranno i nati dei prossimi decenni, cioè da 20/30 anni dopo in là? Non sappiamo come saranno il Ticino e il resto del mondo già nei prossimi anni ’30. Cosa ci dovrebbe essere nel Piano? Alcuni alti obiettivi particolarmente richiesti oggi? Una formazione per trovare almeno un posto di lavoro, magari a salari ticinesi? Oppure una scuola davvero in grado di perseguire le finalità citate nella Legge della scuola del 1990: più umanesimo, dalla letteratura alla matematica, dalla storia alla fisica alle arti. E come sarà organizzata la scuola per sviluppare come si deve le competenze necessarie per affrontare quel futuro?

Parafrasando Marshall McLuhan, se The medium is the message – cioè se il mezzo di comunicazione ha un significativo impatto sulla società rispetto a ciò che intende trasmettere – siamo sicuri che sopravvivranno la centralità del maestro, il calendario scolastico odierno, le valutazioni e le discipline tradizionali?

Scritto per Naufraghi/e

La politica che comincia a scuola e rischia di portare a scuola il peggio della politica

Ai progetti che prefigurano sedicenti “Consigli comunali dei bimbi” meglio opporre modelli di funzionamento collettivo e collegiale delle classi, affinché la scuola sia laboratorio di convivenza e collaborazione, non copia dei consessi politici attuali

Quello della mancanza di giovani che si dedicano alla politica attiva – scriveva laRegione nel 2021, informando di una mozione di due consiglieri comunali del Ppd chiassese – è un tema ricorrente a ogni elezione comunale. Per cercare d’invertire questa tendenza, a Chiasso potrebbe presto nascere un Consiglio comunale dei bambini e delle bambine. Al Municipio viene chiesto di istituire l’organo nella formula adottata dalla Città di Mendrisio, con l’invito a «coinvolgere il corpo docenti nella definizione dello stesso e la raccomandazione di chiedere riscontro a chi ha già messo in atto progetti simili».

Pochi giorni fa – come da programma, verrebbe da dire – il legislativo di Chiasso ha deciso l’istituzione del Consiglio comunale dei bimbi, con una votazione quasi bulgara, malgrado il parere negativo della Commissione della legislazione (‘È un progetto lontano dai bisogni reali degli allievi’). La parola passa ora ai docenti, chiamati a trasformare i proclami politici in pratiche pedagogiche; benché, scrive ancora laRegione, «il corpo docenti [abbia] espresso in maniera chiara la perplessità sul progetto e il disagio ad accettare che la politica comunale entri in maniera invasiva nell’attività didattica», mentre questa decisione obbligherebbe la scuola «a occuparsi del Consiglio comunale dei bambini e delle bambine malgrado venga riconosciuto da qualsiasi esperto del settore quanto sia negativo imporre un progetto che non sia condiviso».

Accordo o meno, a me pare una trovata poco sensata e piuttosto esclusiva. Qual è il senso di “copiare” il mondo degli adulti, soprattutto in quest’epoca che ha ridimensionato i partiti e moltiplicato i movimenti? In questa maldestra imitazione del Consiglio comunale, manca tutto: non ci sono i partiti e le loro opinioni e non c’è un organo esecutivo che renda operative le sue risoluzioni. Si può provare a immaginare quali saranno gli “eletti” che saranno eletti per rappresentare tutti i “cittadini” dell’istituto, o chiedersi se sarà possibile disertare le urne: una copia conforme porterebbe a tassi elevati di astensione al voto.

Cosa c’è da imparare, civicamente e culturalmente parlando? Davvero si crede di recuperare questi futuri cittadini alla politica, senza che venga almeno un po’ da ridere? C’è un’unica certezza: sarebbe l’ennesima gara scolastica, vinta quasi di sicuro dagli “eletti” di sempre. Oddio, si sarebbe potuto optare per qualcosa di più semplice, tipo l’assemblea comunale, consesso ancora presente in alcuni comuni con la popolazione ridotta; ma nella sostanza sarebbe cambiato poco.

E allora? Allora c’è che il mestiere del politico bisognerebbe impararlo pian piano, fin dalla più tenera età. Parlando di politica e di istituzioni, Massimo Cacciari si è chiesto: Tu ti affideresti a un medico che non ha fatto un’ora di medicina, a un ingegnere che non sa come stanno in piedi due mattoni? E invece in politica ti va bene che venga il primo che capita per la strada? In anni in cui la società pareva più semplice la politica godeva di un certo prestigio, e spesso il percorso di chi era motivato cominciava dal partito, per poi tentare l’elezione nel Consiglio comunale, quello vero.

Anni prima, una parte seppur minoritaria del mondo della scuola aveva ideato delle pratiche pedagogiche piuttosto affascinanti. Il più noto esponente della democrazia dentro l’aula è sicuramente Célestin Freinet, che, accanto ad alcune scelte pedagogiche e didattiche molto originali – la tipografia scolastica, il giornalino, lo studio per progetti, la cooperazione tra allievi – aveva dato un posto di rilievo alla possibilità che alla voce dei suoi allievi fosse garantito uno spazio concreto per partecipare attivamente al processo educativo.

Qualche anno dopo, Fernand Oury (1920-1997), nato in una cittadina suburbana, una banlieue, diventò maestro nella stessa scuola che aveva frequentato da bambino, alloggiato in un edificio come ce n’erano tanti e come ce ne sono ancora, a più piani, con le aule che s’affacciano sui corridoi e i suoi cortili per la ricreazione: una situazione lavorativa ben diversa da quella di Freinet, nella sua scuoletta di campagna, senza cortili ma con la campagna tutt’intorno. Racconta Philippe Meirieu in un cortometraggio di qualche anno fa (Y a-t-il une autre loi possible dans la classe ?), che all’inizio, le cose non sono state facili per lui: non sapeva bene cosa fare con quei bambini rinchiusi in una «scuola-caserma». E poi un giorno quell’uomo delle città periferiche incontrerà un grande insegnante dei campi, Célestin Freinet. Questo incontro sarà decisivo”.

Sarà infatti proprio Oury a sviluppare all’interno della sua classe una sorta di assemblea istituzionale (Le Conseil, il Consiglio), integrata nella vita scolastica, con l’intento di organizzarsi affinché ogni studente impari come la vita collettiva possa aiutare ogni studente a prendere a carico il proprio lavoro, come evitare che l’insegnante debba chiedere il silenzio ogni cinque minuti, come gli studenti avanzati in una disciplina possano aiutare quelli in difficoltà, come rendere le lezioni ex cathedra più efficaci e le valutazioni più formative…

Non un gioco, dunque, ma un tempo istituzionalizzato, con alcune regole di funzionamento – la regolarità e il rispetto del calendario degli incontri; la preparazione e l’ordine del giorno; la definizione dei suoi compiti, perché il “Consiglio” non è un luogo di chiacchiere per questioni del tutto secondarie, né un organo onnipotente, al di là e al di sopra delle Leggi; la definizione dei ruoli, perché nessun “Consiglio” può funzionare senza un presidente e un segretario di seduta, con compiti definiti e rispettati; la regolare presenza di un verbale, che funga da memoria delle decisioni prese. E, per finire, il pragmatismo dell’insegnante, dato che il “Consiglio” non è un organismo autogestito senza adulti. Fernand Oury : «Il Consiglio comprende i bambini e l’insegnante. Non si tratta affatto di lasciare che i bambini decidano tutto. Senza questo, non sarebbero bambini. Avevano discusso, ad esempio, del destino di un ragazzo molto noioso e molto fastidioso. Avevano deciso di mettergli una pietra intorno al collo e di buttarlo nella Senna, cosa che mi sembrava una decisione molto ragionevole a mio parere. Ho quasi votato a favore… ma solo quasi! Mi sono fermato.»

Per farla breve: una proposta dall’alto contenuto pedagogico e democratico, che porta a capire come deve funzionare la democrazia, che insegna a esprimersi e ad ascoltare, che obbliga a confrontarsi civilmente, al posto dell’agire di pancia; che presuppone che anche una classe è una comunità che non può funzionare senza legge; e che c’è un’affascinante alternativa all’autoritarismo e al suo contrario, il caos.

Nota. Per la descrizione del «Consiglio», invero molto succinta, ho riportato, con una certa libertà, alcune parti del volumetto che ha accompagnato, a suo tempo, la vendita del cortometraggio citato (Philippe Meirieu, Fernand Oury. Y a-t-il une autre loi possible dans la classe?, 2001, Parigi, Éditions PEMF).

Scritto per Naufraghi/e

I docenti non vendono scarpe

Le ingerenze e le pressioni delle famiglie sugli insegnanti sono frutto di un’idea mercantile di scuola fatta di concorrenza fra istituti e fra allievi. Ma la scuola pubblica è un’altra cosa

Pochi giorni fa mi è saltato all’occhio un titolo incredibile su un giornale francese: À Neuilly-sur-Seine, les profs ont le sentiment d’être «les employés des parents d’élèves». Anticipa l’occhiello: Nell’opulenta città dell’Hauts-de-Seine, le famiglie hanno preso l’abitudine di richiedere molto al team pedagogico e di intromettersi negli affari della scuola. A volte, anche in modo eccessivo.

Racconta Julie, insegnante di scuola elementare: «Ciò che all’inizio sembra voglia di collaborare si rivela poi un’ingerenza. A Neuilly i genitori sono molto invadenti. Si permettono di suggerirmi idee per le lezioni, di richiedere servizi o di commentare l’avanzamento del programma in un modo che mi fa sentire la loro domestica». Aggiunge Léa: «Dobbiamo costantemente giustificarci con i genitori, tranquillizzarli se la classe accanto non è allo stesso punto del programma. Non hanno fiducia e alcuni si comportano come se tutto fosse dovuto. Ho l’impressione di lavorare per loro più che per i miei alunni. È spossante».

«Quando sono arrivata a Neuilly, la prima cosa che mi hanno detto è stata: ‘Fai attenzione ai genitori, perché metà di loro conosce il sindaco e l’altra metà conosce l’ispettrice», ricorda Léa. Insomma, si può immaginare la situazione, che genera un clima di lavoro energivoro e frustrante.

Non conosco direttamente situazioni simili nel nostro Cantone, ma qualche episodio l’ho pur percepito già qualche anno fa, così come in tempi più recenti ho sentito insegnanti che citano proprio il comportamento arrogante di alcuni genitori come fattore di stress. So di chi ha gettato la spugna e ha cambiato aria, proprio nel senso di abbandonare la scuola e fare altro. E sono numerosi i docenti impazienti di andare in pensione il prima possibile.

Se ne parla poco, se non tra colleghi e nei corridoi. Eppure, per dirne una, la difficoltà nel trovare insegnanti è evidente. Ne avevo scritto poco tempo fa (La scuola come istituzione, non come servizio), e già in quell’articolo si intravedevano comportamenti prepotenti che ritroviamo oggi nel servizio sulla scuola di Neuilly-sur-Seine, cittadina di 60 mila abitanti alle porte di Parigi, «uno dei luoghi di residenza preferiti dall’affermata e ricca borghesia francese», come la descrive la solita Wikipedia. Ed è proprio con l’ostilità di alcune famiglie che si confrontano sempre più spesso i docenti della scuola dell’obbligo.

Ancorché in altri anni, la scuola, da parte di chi ci lavora, godeva di un’ottima reputazione; oggi sono probabilmente tante le cause della disaffezione, o peggio. Sullo sfondo c’è sicuramente la forte pressione sulla scuola affinché risponda alle più fantasiose richieste formative a un alto livello di competenza, ciò che fa a pugni con la preminenza del principio, nella scuola dell’obbligo, di non occuparsi solo dei suoi allievi più fortunati. Per la scuola e per i suoi insegnanti ci sono così il piano di studio della scuola dell’obbligo, oltre 200 pagine fitte; il percorso formativo richiesto a maestri e professori, sempre più in bilico tra le promesse del DFA e le tante realtà che si incontrano in classe; la situazione socio-geografica in cui operano gli insegnanti, quasi 150 sedi di scuola comunale e 36 istituti di scuola media; la marea di compiti che fa parte del loro cahier des charges, non sempre del tutto pertinenti con la pedagogia e la didattica.

Insomma, mi pare che sia sempre più indifferibile la necessità di mettere mano a tutto l’impianto che regge la pubblica educazione – sì, uso volutamente questo bel sostantivo, Educazione, benché sempre più spesso, già nell’aula del parlamento, si sottintenda che la scuola deve “limitarsi” a istruire – si veda al proposito anche la recente querelle sull’agenda.

Invece ai piani alti della politica scolastica si mette in scena, anno dopo anno, l’obsoleto teatrino delle riforme-cerotto e del numero di allievi per classe: e pensare che la legge-quadro della scuola ticinese risale al 1990, e per certi versi è figlia di una legge settoriale, quella della scuola media, che l’anno prossimo compirà giusto giusto mezzo secolo.

«Gli anni 2000 ­– ha dichiarato il pedagogista francese Philippe Meirieu agli autori dell’articolo su Neuilly-sur-Seine – hanno segnato l’arrivo delle prime indagini comparative internazionali, delle classifiche e del Programma internazionale per la valutazione degli studenti (PISA). Progressivamente, il paradigma democratico che regolava il servizio pubblico scolastico e che richiedeva che tutti fossero trattati allo stesso modo, è stato sostituito da un paradigma mercantile che promuove la competizione tra istituzioni e individui. La scuola è diventata un mercato e l’obbligo di fornire mezzi è diventato l’obbligo di ottenere risultati. Questo ha portato alcune famiglie a pensare che i docenti dovessero essere sottoposti alla stessa concorrenza dei venditori di scarpe e che l’istituzione scolastica dovesse rendere conto molto accuratamente del trattamento individuale riservato ai loro figli».

Nelle laiche Tavole della legge della nostra scuola si stabilisce che essa mira a crescere persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà, in collaborazione con le famiglie – c’è scritto proprio collaborazione, non collaborazionismo. Si specifica poi che le famiglie sono un organo consultivo – cioè non sono le famiglie che fanno e disfano. Sembrerebbe invece che più nessuno se ne ricordi, tanto da chiedersi se siano ancora in molti a pensarle così, le finalità della scuola, e se questi principi abbiano ancora un posto speciale nella cassetta degli attrezzi dei nuovi insegnanti.

Continuo a credere, ed è una delle certezze che conservo da prima di avere il diritto di voto, che la scuola pubblica e obbligatoria sia un cardine della democrazia.

 

Scritto per Naufraghi/e

Philippe Meirieu, in collaborazione con Daniel Hameline, aveva pubblicato curato e pubblicato nel 2010 un’interessante contributo dedicato Aux parents d’élèves qui ne liront jamais ce livre. À leurs enfants: L’École et les parents: la grande explication. Per certi versi è obsoleto, ma vi si possono ancora trovare diverse ottime spiegazioni. Il libro è esaurito, ma nel sito del prof. Meirieu si trova una versione scaricabile gratuitamente.

L’agenda e la zizzania politica

Una polemica stucchevole imperversa da giorni a proposito del diario scolastico quale presunto strumento di indottrinamento. Un polverone che sa di tristemente elettorale

La polemica attorno all’Agenda della Svizzera italiana continua a tener banco. Il consueto diario scolastico per la scuola media, edito dal Dipartimento dell’Educazione e da quello della Socialità e della Sanità, ha come fil rouge per il 2023-24 Lo sguardo altrui: istruzioni per l’uso. Accanto ad alcune schede che informano e aiutano a riflettere, ci sono dieci storie raccontate, ognuna, con due disegni e un breve dialogo: dieci piccole storie per parlare di malintesi e pregiudizi, di come ci si sente e di come si vorrebbe essere. Nulla che sia fuori dall’ordinario, come dev’essere nello spirito di uno strumento di lavoro che accompagnerà allieve e allievi lungo tutto l’incombente anno scolastico.

Siamo in un ambito complementare ai contenuti disciplinari della scuola. Nell’agenda, per intenderci, non vi sono valutazioni, esercizi, compiti a casa e giudizi di valore. Tutt’al più ci sono degli spunti per riflettere o discuterne. È così da tanti anni, non solo dall’arrivo dei “rossi” al DECS – come insinuano i Torquemada nostrani – e senza scordare che la direzione socialista del Dipartimento dell’educazione, dopo decenni di gestione PLRT, non fu per nulla un golpe.

Eppure quest’anno si è scatenato il putiferio. Tra le dieci piccole storie, il vicesindaco di Locarno ne ha scovata una che gli è andata di traverso e che ha voluto condividere urbi et orbi: Giuseppe Cotti boccia l’agenda scolastica: “Banalizza la diversità di genere”. Non si contano gli interventi che intasano il Ticino massmediatico (e social) ormai da una decina di giorni e che hanno acceso i pruriti di una pedagogia codina. Ci vuole però una buona dose di malignità per leggere in quei brevi dialoghi dei pensieri chissà quali intenti di indottrinamento, tesi a far sì che i nostri adolescenti abbraccino, affascinati!, il cosiddetto terzo sesso, che ha peraltro una gamma di coniugazioni assai variegata.

Qualche esempio di tanto sdegno è forse utile annotarlo: «Con il pretesto dell’inclusione, della lotta al bullismo e alla discriminazione, nonché della tutela delle minoranze, ai ragazzi viene insegnata l’ideologia secondo cui maschio o femmina sono sensazioni interiori o percezioni, proprio come si legge nell’agenda che sarà presto distribuita agli scolari ticinesi» (Helvethica Ticino). Oppure: «La scuola rossa colpisce ancora: propaganda gender nell’agenda ufficiale del DECS. Inaccettabile il tentativo del Cantone di lavare il cervello ai bambini fin dalle elementari con l’ideologia ‘‘arcobaleno’’» (Lorenzo Quadri, Consigliere nazionale Lega, sul Corriere del Ticino). E ancora: «Si cerca di far passare che essere fluidi, dubbiosi sul proprio sesso – quando biologicamente e di fatto, o si è maschi o femmine [tertium non datur, secondo lorsignori] – siano scelte di tendenza e accattivanti. Ogni individuo è libero di sentirsi maschio, femmina e magari in futuro anche cane, gatto o canarino, ma non deve essere la scuola a promuovere e a mostrare come normale, delle anomalie comportamentali che toccano un’estrema minoranza della popolazione» (Piero Marchesi, consigliere nazionale UDC, su laRegione).

Suvvia, sarebbe fantastico se con dieci righe e due disegni fosse possibile – per usare un verbo un po’ sguaiato – indottrinare i nostri ragazzi alle leggi della matematica e delle scienze naturali, a insegnare in fretta e a un alto livello l’italiano e le altre lingue, insieme alle loro culture di riferimento, a conoscere e amare il variegato patrimonio delle arti. A meno che non si creda per davvero che sia possibile inventarsi un gender prêt-à-porter, così come si sceglie una t-shirt o un taglio di capelli.

Due parole, infine, devono essere spese sulla distribuzione dell’agenda in quinta elementare. Da un lato si dovrebbe rammentare che questo diario fa parte del materiale dell’ultimo anno della scuola primaria da quando è stata istituita la scuola media: era parso, ad alcuni insegnanti degli anni ’70, che poteva essere utile imparare a usare questo strumento, che nel precedente ginnasio mieteva tante vittime già al primo anno, quando il passaggio dal maestro al professore poneva molti problemi di organizzazione della settimana e della gestione di compiti a casa e test annunciati. Nel frattempo l’agenda si è evoluta nei suoi contenuti, pensando però, giustamente, agli alunni della scuola media. Sulla diffusione automatica dell’agenda già in 5ª, quindi, si potrebbe anche discutere, ma non certo per entrare nel merito delle farneticazioni sulle sue nefaste influenze.

Non può che essere giudicata preoccupante la scelta di alcuni Municipi di non distribuire l’agenda, come deciso a Tresa, Lugano, Massagno, Mendrisio e altri comuni. Ma, fortunatamente,  c’è chi rimette i puntini sulle i, in attesa che il Cantone intervenga con la necessaria severità per ricordare che la direzione generale della scuola spetta al Consiglio di Stato e non certo ai singoli municipi. Bene ha fatto, quindi, la sindaca di Castello, Alessia Ponti: «Non sta ai Municipi ergersi a paladini della moralità», ha commentato sul CdT di ieri. «I nostri bambini hanno affrontato temi anche molto più delicati, come la guerra in Ucraina. Tutto sta a come viene trattato l’argomento, ma è proprio del ruolo del docente saper usare le parole e la delicatezza giuste. E i nostri docenti si sono dimostrati molto tranquilli e consapevoli a tal riguardo».

Parole sante.

Scritto per Naufraghi/e

Xenofobia, razzismo e rispetto fra i banchi di scuola

Discriminazioni e diritti calpestati passano più o meno sotterraneamente ogni giorno fra i gesti e le parole di allievi, docenti e famiglie. Urge una nuova sensibilità

Il Codice penale svizzero si occupa dettagliatamente, ormai da trent’anni, di Discriminazione e incitamento all’odio. Lo fa con l’art. 261bis, che tratta di razzismo, xenofobia e dintorni: sarebbe utile leggerlo a scuola, assieme alla Costituzione, e spiegarlo a insegnanti, alunni e genitori; e rinfrescarne regolarmente la memoria.

Simonetta Caratti, su laRegione del 17 luglio, ha pubblicato un commento particolarmente interessante. «Imparare cos’è il razzismo sin da piccoli, evita di diventare adulti discriminatori. È una sfida che riguarda l’intera società, in particolare la scuola, dove si stanno moltiplicando le segnalazioni di casi di razzismo, soprattutto verso persone afrodiscendenti».

Così continua: «Che ci sia chi gira la testa dall’altra parte è deludente. L’apertura si insegna con l’esempio quotidiano di tolleranza, prendendo posizione e condannando apertamente i comportamenti razzisti. Specialmente docenti, direttori e chi sta sopra. L’esempio deve venire dall’alto in una società che è permeata da un razzismo strutturale. Se un ragazzino cresce a pane e pregiudizi, c’è da sperare che in classe incontri un adulto che sappia mostrargli altri punti di vista, che allarghi il suo angusto modo di giudicare, che lo renda attento alle parole divisive che feriscono».

Purtroppo l’educazione alla tolleranza, all’empatia, al rispetto, al diritto, alla democrazia è un po’ come l’educazione civica. Certo, la si può confinare dentro una materia scolastica, coi suoi test e gli immarcescibili voti impressi sul libretto: come ha fatto recentemente il nostro Cantone. Ma, sin qua, non si vedono, neanche di sfuggita, risultati di qualche tipo; non fosse così, non saremmo qui a parlare di razzismo.

Negli anni ’80 del secolo passato la scuola del nostro Cantone fu confrontata per la prima volta con un’immigrazione che non parlava italiano. Oddio, l’affermazione è vera solo fino a un certo punto, perché prima c’era stato un altro fenomeno migratorio che parlava tedesco, ma non erano Gastarbeiter. Per i migranti germanofoni del secondo dopoguerra, spesso ricchi e cólti, si creò il primo servizio per gli alloglotti. La Legge della scuola del 1958 si era occupata di loro, e così aveva statuito: Il comune può istituire corsi preparatori di lingua italiana destinati agli allievi di altra lingua che non sono in grado di seguire normalmente le lezioni comuni (art. 94, Corsi per allievi d’altra lingua).

Giunsero, negli anni seguenti, bresciani, bergamaschi, vigezzini, ma parlavano italiano. Durante il boom economico, che fu anche il boom di quella speculazione edilizia che, d’altra parte, continua imperterrita, i migranti in Svizzera erano per lo più italiani del meridione, che i predecessori lombardo-veneto-piemontesi chiamavano terroni. Nel resto della Svizzera squillò l’allarme, e nel giugno del 1970 il popolo svizzero andò alle urne per esprimere il proprio parere sulla campagna contro l’inforestierimento, promossa da James Schwarzenbach, politico di estrema destra: tra La barca è piena e Cercavamo braccia, sono arrivati uomini. La proposta fu respinta dal 54% dei votanti.

Poi cominciarono a confluire in Ticino altre famiglie, provenienti da diverse parti dell’Europa e del mondo, chi per motivi economici, chi per ragioni di guerra e di sopraffazione. E non parlavano italiano. I numeri esplosero a macchia di leopardo in alcuni centri ticinesi. Già nel 1983 si riscoprì quell’art. 94 della legge scolastica per mettere in piedi i primi corsi per i nuovi alloglotti. A Locarno, nell’ultimo decennio del ’900, si registrarono percentuali attorno al 20%. Erano famiglie di rifugiati e lavoratori ai quali non mancava solo la lingua italiana. Erano storie di sofferenza e di emarginazione, che le fragili proposte interculturali non riuscivano a scalfire, così come si era disarmati di fronte al clima razzista e xenofobo che strisciava in un mainstream neanche tanto velato.

E allora: ha ragione Simonetta Caratti? Certo. Ci sono tante “cose” che si possono fare a scuola, sin dalla più tenera età, a partire dalla condanna ferma e rigorosa di chi osa voltare la testa dall’altra parte di fronte a ogni episodio di discriminazione più o meno palese. Ma di ciò di cui parla il 261bis del Codice penale ci sono occasioni a iosa, a scuola, per parlare, fare cultura, educare. Di ciò che il codice penale dovrebbe punire sono piene le arti – la letteratura, la poesia, la musica, la pittura, la religione, il teatro, il cinema. Ci sono i piccoli e grandi episodi della quotidianità, che si possono spiegare e commentare: anche quella dei giornali, dei TG, dei settimanali, dei social (si vedano, in questa sede le esternazioni social dentro un gruppo Facebook privato di sostenitori di Lega e Udc).

Chissà se i giovani formati o abilitati dalla SUPSI per insegnare nelle nostre scuole conoscono – per citarne uno non a caso – i lavori di Janusz Korczak, pedagogista, scrittore e medico polacco che fa parte a buon diritto della storia della scuola e dell’educazione? Ha scritto Erri De Luca: «Passai per via Krochmalna, dove abitavano i Singer, e per via Sliska, dove c’era l’orfanotrofio diretto da Janusz Korczak, che s’incamminò coi suoi centonovantadue bambini allineati verso i vagoni aperti della Umschlagplatz. Se riferiti a persone, i numeri vanno scritti per me in lettere. Le cifre vanno bene per ogni contabilità, tranne che per le vite umane. Per loro ci vogliono le lettere: centonovantadue bambini. Con quella schiera disciplinata e muta Korczak entrò nudo nei tre recinti concentrici del campo di Treblinka fino agli stanzoni dell’asfissia».

Poi, naturalmente, servono modelli significativi: in famiglia, a scuola, nella politica, in radio, in TV, su giornali, portali e blog. Oggi più di ieri il consenso attorno ai valori etici da trasmettere attraverso l’esperienza e la conoscenza non ruota più attorno a un modello riconosciuto di Società civile. La scuola, quindi, sembra assomigliare sempre meno al Paese in cui opera: ma tant’è, la confusione è universale. Così ci si potrebbe chiedere, credo legittimamente, se nel Piano di studio della nostra scuola ci sia spazio per quel che taluni considerano argomenti di nessuna importanza: la xenofobia, il razzismo, il rispetto. Il diritto.

 

Il trailer del film Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki (2011), umanissimo film che dovrebbe far parte della formazione di ogni giovane.

Scritto per Naufraghi/e