La storia delle idee pedagogiche – che non si deve confondere con la storia delle istituzioni scolastiche – è un percorso che dura da secoli, innescata da quei pensatori che, nell’antichità, erano pure scienziati o matematici: basti pensare ad Aristotele, che già nel IV secolo a. C. affermava che le cose che bisogna imparare, «prima di farle noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra». Col passare dei secoli il quadro si è vieppiù affollato e ha arricchito il dibattito di idee e sperimentazioni con gli sguardi del medico, dello psicologo, del sociologo…
Continuo a essere convinto che la storia delle idee pedagogiche sia un strumento che non può mancare nella cassetta degli attrezzi di chi opera nella scuola. È una storia appassionante, con temi che, anche in tempi recenti, non hanno mancato di innescare discussioni accese. Si pensi a Pestalozzi, che nel 1798 accoglieva a Stans gli orfani della rivoluzione francese, bambini e ragazzi allo sbando: «erano nella condizione alla quale conduce l’estrema degenerazione della natura umana. Arrivavano con occhi pieni d’angoscia e con fronti cariche di rughe della diffidenza e della preoccupazione, alcuni pieni di audace sfrontatezza, abituati alla mendicità, all’ipocrisia e ad ogni falsità, altri oppressi dalla miseria, pazienti ma sospettosi, incapaci di amore e timorosi».
Nella storia della pedagogia vi sono molte vicende appassionanti. Potrei raccontare di Janusz Korczak e dei suoi ragazzi del ghetto di Varsavia, dove elaborò interessanti strategie per risolvere i conflitti tra allievi – prima di essere deportato con i suoi ragazzi nel campo di sterminio di Treblinka nel 1942. O quella di un altro medico, Jean-Gaspard Itard, convinto che fosse possibile educare chiunque (la sua storia è quella raccontata dal film «Il ragazzo selvaggio» di Truffaut). O, ancora, delle esperienze di Jean Piaget, Don Lorenzo Milani, Maria Montessori, Célestin Freinet, la nostra Maria Boschetti-Alberti, tanto per citare qualche nome tra i più popolari.
Quest’anno ricorre il centenario della fondazione della Lega internazionale per l’educazione nuova (LIEN), che fu fondata a Calais nel 1921 e che, nel 1927, tenne a Locarno il suo IV congresso, con oltre mille partecipanti provenienti da ogni continente. Nelle intenzioni dei suoi fondatori LIEN riunisce e promuove quel movimento che, ancora oggi, si ispira alla scuola attiva, alla collaborazione e alla cooperazione tra allievi. Essa appartiene alla storia delle idee pedagogiche e quel congresso fu ospitato dalla scuola normale di Locarno.
A festeggiare il centenario dell’Educazione nuova anche in Ticino non ci sarà però il DFA, erede istituzionale della scuola normale di un secolo fa. Da oltre un trentennio la formazione dei docenti non passa più dalla storia delle idee, degli ideali, e, sì, a volte anche delle utopie, che per tanti anni hanno ispirato le politiche scolastiche e contribuito a costruire le democrazie.
Credere che sia possibile reinventare una nuova pedagogia per questi tempi complicati dimenticando la storia dell’educazione – che a volte si è incrociata con la storia della scuola – è una scelta vanitosa o imprudente, perché la cultura professionale non può nascere dal nulla. Le epoche e i contesti economici, culturali e sociali dove questa storia ha proseguito il suo percorso non erano semplici, né banali.
A questo punto ci si potrebbe pure chiedere chi sono i cattivi maestri.
Nota aggiuntiva
Mi piace, in questa occasione, pubblicare il parere del prof. Franco Zambelloni, interpellato da Andrea Bertagni, giornalista del Caffè, e pubblicato dal domenicale insieme al mio articolo (uscito col titolo Non si può non conoscere la storia della pedagogia).
«Zambelloni ha insegnato filosofia e pedagogia nei licei del Cantone Ticino», ha scritto Bertagni. Ma Zambelloni è pure stato direttore della scuola magistrale di Lugano, che ebbe vita breve negli anni ’70.
In quegli anni la massa di studenti che frequentavano la magistrale “storica”, quella di Locarno, per diventare insegnanti di scuola dell’infanzie, elementare e di economia domestica indusse l’istituzione di una sede a Lugano, dapprima solo per le prime tre classi (il quarto anno, quello più professionalizzante, si svolgeva ancora a Locarno), poi come istituto completo e autonomo, alla guida del quale si alternarono Franco Zambelloni e Alberto Cotti.
L’avventura della vecchia scuola magistrale, però, stava per giungere al capolinea. È in quegli anni che, oltre allo storico liceo di Lugano, furono istituiti i licei di Bellinzona, Locarno e Mendrisio. Ed è pure di quegli anni la decisone di trasformare la scuola magistrale da seminariale (vi si accedeva a quindici anni) a post-liceale.
Per la cronaca: entrata in funzione nella seconda metà degli anni ’80, la magistrale post-liceale divenne poi Alta Scuola Pedagogica (ASP) nel 2002, più o meno in concomitanza con l’avvio del Processo di Bologna. A partire dal 2009/10 l’ASP – che era un istituto gestito interamente dal Cantone tramite il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport – confluì nella Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana come suo dipartimento (poi denominato DFA, Dipartimento Formazione e Apprendimento).
È comunque negli anni post-liceali che inizia la lenta discesa della pedagogia nella scala dei valori della cultura professionale degli insegnanti.
La scuola è fatta di tanti momenti diversi. Ci sono le lezioni, gli spazi di lavoro individuale – un tema, un disegno, una lettura – e quelli da svolgere in gruppo – un’osservazione scientifica, un problema matematico complesso. Poi ci sono l’educazione fisica, quella musicale e le attività creative. Ma i tempi della scuola sono scanditi anche dalle esercitazioni: perché la tavola pitagorica conviene saperla a memoria e i calcoli, mentali o scritti, bisogna esercitarli, dai più semplici ai più complessi. Anche l’ortografia e la grammatica passano dall’esercizio, senza scordare quelle tante e variegate nozioni che, messe insieme, permettono di affrontare problemi complicati un po’ in tutti gli ambiti della conoscenza e della cultura.
Il computer è una macchina del tutto stupida, ma è in grado di proporre esercizi tenendo conto di diversi parametri, affinché il compito da svolgere sia sempre quello più utile e appropriato e senza scoraggiarsi. La buona pratica dice che se un esercizio è troppo facile o troppo difficile serve a poco o niente. Ogni esercizio dovrebbe essere un po’ più difficile dell’ultimo che si è riusciti a risolvere, ma sappiamo che assai spesso la realtà dell’aula è un’altra. Dunque un’applicazione informatica sensata offre un’opzione didattica win-win, vale a dire con vantaggi per l’allievo, perché le finalità dell’esercizio sono più efficaci e mirate, e per l’insegnante, che può così occuparsi di attività didattiche e pedagogiche più interessanti. Non da ultimo, il computer non dà le note, ma si limita ad applicare una rigorosa valutazione formativa: ti segnalo l’errore e ti aiuto a superarlo, oppure ti informo che si può passare a cose più difficili.
Il tema della valutazione mi porta a citare un esempio concreto. Nei primi anni della scuola elementare si impara a leggere. Una volta superato il primo scoglio, che è quello di decodificare il testo scritto, comincerà il lungo percorso per formare lettori adeguati, cioè lettori con un’ottima comprensione e un’altrettanto ottima velocità. Sappiamo però che moltissimi allievi manifestano delle difficoltà – e il ventaglio è vastissimo – sin dai primi passi, accumulando in tal modo lacune che si ripercuotono su tutto l’apprendimento.
Su Scuola ticinese, periodico della divisione della scuola del DECS, è uscito recentemente l’articolo di tre ricercatori che hanno «messo a punto uno strumento per una valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione» di un testo. Si tratta di una serie di prove, da svolgere con un tablet, che consente di rilevare la natura delle difficoltà di ogni singolo allievo. «Capire a fondo come ‘funzionano’ gli allievi – scrivono i ricercatori – è indispensabile per poterli sostenere al meglio negli apprendimenti», cioè per intervenire con attività mirate.
Anche in questo caso, il computer ha la capacità di svolgere meglio un compito tutto sommato noioso. Ma non è una scatola magica. Puoi fargli suonare un notturno di Chopin, ma ci vuole il grande artista per restituirne l’emozione e la bellezza. Così è anche per la scuola: la macchina non può rimpiazzare l’insegnante, che continuerà a essere il regista del tempo scolastico, in modo che l’ambiente rimanga sereno e si arricchisca. Ma può rivelarsi un supporto prezioso, per migliorare alcune pratiche di routine e, nel contempo, per permettere al docente di occuparsi di questioni pedagogiche più sostanziali e piacevoli, a favore di ognuno.
Avevo già parlato della ricerca pubblicata su Scuola Ticinese, che ho citato anche oggi, seppur da un’ottica diversa (v. Le difficoltà di imparare tra ricerca e azione didattica, 15.04.2021): SARA GIULIVI, CLAUDIA CAPPA, MARCELLO FERRO, «Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?», in Scuola Ticinese,Periodico della Divisione della scuola Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, N° 339: Anno L, Serie IV, 1/2021, pp. 31-37
Da almeno un paio di decenni, se non di più, la nostra scuola dell’obbligo si china con attenzione su alcuni disturbi dell’apprendimento allo scopo di saperli riconoscere e proporre delle soluzione didattiche per tentare di affrontarli positivamente: penso, in particolare, a disturbi di origine neurobiologica, quali la dislessia o la discalculia.
I Disturbi Specifici dell’Apprendimento – noti in italiano con l’acronimo DSA – sono naturalmente molti e, per certi versi, le loro definizioni dipendono anche da tradizioni culturali e accademiche dei contesti scolastici nazionali e/o dalle aeree linguistiche; in tal senso la definizione generica di DSA può variare più o meno sostanzialmente da un paese all’altro. A questo proposito è curioso dare un’occhiata alle definizioni che ne dà Wikipedia nelle molteplici versioni: Disturbi specifici di apprendimento (DSA), Learning disability, Trouble d’apprentissage, Lernbehinderung, …
Al di là, tuttavia, delle definizioni, delle cause, delle ricerche, degli studi e dei riconoscimenti giuridici, è fondamentale il fatto che si tratta assai spesso di problemi di apprendimento che possono manifestarsi sin dall’età più tenera: così la scuola si accorgerà della difficoltà, senza necessariamente saperla riconoscere e, di conseguenza, trovandosi nell’imbarazzante situazione di non sapere quali strategie adottare per aiutare l’allievo a superarla – considerando pure che molti DSA si svelano proprio nell’ambito della lettura, della scrittura o dell’aritmetica, ciò che fa scattare, in un gran numero di casi, i malefici meccanismi dell’insuccesso scolastico.
Fatta questa premessa molto generica, segnalo un articolo molto interessante apparso sull’ultimo numero della rivista Scuola Ticinese, periodico della Divisione della scuola del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport: Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?, di cui sono autori Sara Giulivi, docente-ricercatore presso il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI (DFA), Claudia Cappa, ricercatrice presso l’Istituto di Fisiologia Clinica (CNR) di Pisa, e Marcello Ferro, ricercatore presso l’Istituto di Linguistica Computazionale (CNR) di Pisa.
Un dato allarmante
Gli autori partono da una constatazione: I risultati dell’ultima indagine internazionale OCSE-PISA sulle abilità di lettura e comprensione del testo restituiscono un quadro complessivamente allarmante, da cui la Svizzera, di fatto, non si discosta. Le prestazioni degli allievi ticinesi si collocano al di sopra della media nazionale; tuttavia il 17% dei ragazzi di 15 anni si colloca al di sotto del cosiddetto Livello 2 della scala OCSE-PISA, che corrisponde alle competenze di base considerate indispensabili per affrontare la vita di tutti i giorni e conseguentemente per garantire una partecipazione attiva nella società e future opportunità accademiche e professionali. Evidentemente è necessario agire in fretta, e a partire dalle fasi precedenti della scolarizzazione.
Per poi chiedersi: Da dove derivano le difficoltà che gli adolescenti incontrano quando si avvicinano a un testo scritto? Cosa si frappone, in maniera così significativa, al loro accesso al testo, alle loro possibilità di coglierne gli scopi, interpretarne i significati, metterne i contenuti in relazione con le conoscenze che già possiedono sul mondo?
Un protocollo formativo
I ricercatori hanno così messo a punto uno strumento per una valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo che ha un triplice obiettivo:
attuare una valutazione accurata delle abilità di lettura del bambino;
comprendere se può contare oppure no su una lettura efficiente;
in caso di difficoltà, progettare un sostegno mirato.
Il protocollo di valutazione, che è stato messo a punto e testato anche grazie alla partecipazione di alcune scuole elementari e medie nella Svizzera italiana e in Italia, permette di raccogliere abbastanza facilmente una grande quantità di dati da parte degli stessi insegnanti, attraverso una piattaforma informatica, offerta per la prima volta in italiano. I test che compongono il protocollo – sottolineano i ricercatori – sono da svolgere su tablet e valutano la decodifica, la comprensione del testo in lettura silente, la comprensione del testo tramite ascolto.
Siamo, a pieno titolo, dentro una delle scelte pedagogiche fondamentali per una scuola dell’obbligo coerente con le proprie finalità: dapprima una valutazione delle abilità (in questo caso di lettura), poi la differenziazione dell’insegnamento, per poter aiutare ogni alunno ad affrontare il percorso che porta ad essere un lettore adeguato.
Scrivono i ricercatori nella conclusione che Oltre alle difficoltà, lo strumento consente di mettere in evidenza anche le prestazioni eccellenti, grazie alla struttura dei test e alle caratteristiche dei testi e delle domande che li accompagnano. Capire a fondo come ‘funzionano’ gli allievi è indispensabile per poterli sostenere al meglio negli apprendimenti. Gli insegnanti hanno in questo senso una grande responsabilità. Uno strumento come quello che è stato elaborato può aiutarli in quella che forse è la loro principale sfida quotidiana: fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.
Nondimeno, una conclusione importante della ricerca appare già nella parte introduttiva dell’articolo. Scrivono gli autori che i docenti sono sempre più sensibili, informati e aggiornati sul tema delle difficoltà e dei disturbi della lettura. Ciò che ancora sfugge – proseguono – è l’estrema eterogeneità dei profili dei “piccoli lettori”, e la reale natura delle difficoltà che possono manifestarsi in età scolare. Consideriamo, per esempio, una delle cause di tali difficoltà: la dislessia, il disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) che impedisce l’automatizzazione della decodifica del testo scritto. Si tratta di un disturbo di origine neurobiologica; ciò non significa, tuttavia, che si manifesti in modi sempre uguali o costanti nel tempo.
Dalla ricerca alla pratica
È soprattutto con l’istituzione dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP, 2002) e il successivo passaggio dell’ASP alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), con l’acronimo DFA (Dipartimento Formazione e Apprendimento, 2009), che il ruolo della ricerca in educazione si è imposto come ambito di formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia, elementare e media: difficile dire con quali risultati concreti, anche solo tenendo conto della grande e mutevole complessità di ogni sistema scolastico.
Nel caso specifico della ricerca, riassunta nell’articolo di Scuola Ticinese, siamo di fronte a uno strumento che è serve ai ricercatori per rilevare e mettere in relazione le tante variabili che differenziano le cinque grandi tipologie di lettori:
Nel contempo il medesimo strumento può diventare un utile strumento per gli insegnanti, perché fornisce un quadro complessivo che dovrebbe guidare l’organizzazione dell’insegnamento, affinché ogni allievo prosegua il suo percorso di apprendimento mirando al traguardo più alto, quello caratterizzato dall’ottima comprensione del testo e dall’ottima velocità di lettura.
In mezzo c’è tutto il resto, vale a dire, per prima cosa, la determinazione degli elementi che intralciano l’apprendimento. Del resto gli stessi ricercatori ci mettono in guardia.
Ogni dislessia […] è diversa da ogni altra e ogni dislessia evolve nel tempo insieme all’allievo. […] I DSA possono cambiare per una molteplicità di fattori, che spaziano dalle caratteristiche cognitive ed emotive del singolo, a quelle dei contesti in cui vive, agisce, apprende: la scuola, la famiglia, gli spazi di svago e socializzazione. Riuscire a gestire a scuola questo genere di complessità significa creare le condizioni per trasformare potenziali barriere in trampolini di lancio; significa permettere a tutti gli allievi, anche a coloro che devono fare i conti con un disturbo o una difficoltà di lettura, di trarre il massimo dal luogo primariamente preposto agli apprendimenti e all’educazione. [Il grassetto è mio].
Siamo quindi confrontati con una prima necessità per colmare il divario tra la teoria e la pratica: l’insegnante dovrà essere in grado di leggere i risultati per declinarli dal punto di vista dell’insegnamento e dell’eventuale efficacia che si riscontra nell’apprendimento, affinché il protocollo, che è stato messo a punto e fornito su una piattaforma “tecnicamente” facile da usare (cioè il tablet), serva a stabilire quali siano le competenze didattiche a disposizione e/o a indicare la necessità di coinvolgere altri specialisti (lo psicologo, il logopedista, il pediatra, il docente di sostegno pedagogico…). C’è quindi una prima necessità, che tocca in particolare la didattica, per affrontare adeguatamente una difficoltà o per ampliare una capacità.
Non si può dare per scontato che lo strumento per la valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo messo a punto dai tre ricercatori passi dal livello scientifico a quello didattico e pedagogico come un semplice automatismo. Un conto, per fare un esempio, è registrare l’incapacità dell’allievo di rintracciare il significato generale del testo o di individuare relazioni temporali (ho pescato un po’ a caso due capacità/incapacità tra la decina elencata nell’articolo); un altro conto è sapere come intervenire con gli strumenti della didattica di fronte al risultato dell’applicazione de protocollo. Se non si agisce puntualmente per annullare il divario tra l’impianto teorico (che precede per forza di cose la messa a punta del protocollo) e l’uso pratico dei suoi risultati, si rischia che quest’ultimi si trasformino da informazioni per programmare la migliore azione educativa in sterile lista delle incapacità: ciò di cui, sul piano della selezione scolastica, non si sente proprio il bisogno.
Ma c’è un secondo elemento fondamentale, di natura più pedagogica, che si potrebbe definire come la capacità concreta di organizzare il lavoro in classe attraverso la differenziazione dell’insegnamento.
È in questo contesto che si colloca la formazione di base e continua degli insegnanti della scuola dell’obbligo. Il maestro della scuola primaria e il professore della scuola media non possono diventare degli specialisti di ogni singolo Disturbo Specifico dell’Apprendimento – e in questa accezione gli apprendimenti coinvolgono tutte le discipline. Come ha affermato Jean Piaget l’insegnamento è arte altrettanto quanto scienza; gli insegnanti sono dunque i professionisti dell’insegnamento, un po’ artisti e un po’ artigiani, che conoscono bene ciò che insegnano, ma che sono soprattutto capaci – per citare nuovamente i nostri ricercatori – di fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.
Il nodo gordiano della formazione degli insegnanti è proprio nella capacità di trasformare i limiti in soglie da spostare sempre più in là; in altre parole si tratta di capire perché, eticamente e istituzionalmente, sia importante differenziare l’insegnamento, come e con quali strumenti.
SARA GIULIVI, CLAUDIA CAPPA, MARCELLO FERRO, «Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?», in Scuola Ticinese, Periodico della Divisione della scuola Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, N° 339: Anno L, Serie IV, 1/2021, pp. 31-37
Ricordiamo bene l’impatto violento che la pandemia, in primavera, aveva avuto anche sulla scuola. L’inattesa calamità aveva messo in luce il valore della presenza di allievi e docenti negli spazi scolastici, ricordandoci la centralità educativa della convivenza e della comunicazione, un’essenza che supera la capacità di raggiungere gli obiettivi dettati dai programmi. A chi vagheggia una selezione sempre più precoce, conviene chiarire che la scuola dell’obbligo non ha tra i suoi tanti e difficili compiti quello di preparare gli allievi alla scuola che «viene dopo», attraverso una gerarchia che dalle scuole di maturità scende fino al certificato di formazione pratica.
Il nostro ministro dell’educazione, intervenuto proprio una settimana fa su queste pagine, a proposito di scuola dell’obbligo ha scritto che servono dei provvedimenti «che migliorino la personalizzazione dell’insegnamento e le possibilità per i docenti di differenziarlo in base alle diverse capacità degli allievi». Non si può fingere che le differenze prodotte dall’origine sociale, economica e culturale, dalla lingua, dalla religione e dalla propria storia siano solo fatalità.
Fin qui i tentativi per mirare a condizioni migliori per differenziare l’insegnamento ruotano attorno alla diminuzione del numero di allievi per classe e alla presenza di figure specializzate. A seconda del bisogno, nelle aule della scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico e di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.
Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che è il vero regista di ciò che succede nella sua aula. È piuttosto difficile capire i motivi che conducono la maggior parte dei sistemi scolastici a puntare tutto sul deus ex machina. Oggi non si parla più di vocazione, come s’usava in altri tempi, anche se la figura del maestro di scuola elementare o del professore della media ricordano per tanti versi i preti che, per primi, si occuparono dell’istruzione di bambini e ragazzi.
Forse bisognerebbe cominciare a pensare a una diversa organizzazione dell’insegnamento obbligatorio; per esempio l’insegnamento in équipe, vale a dire un gruppo di insegnanti che gestisce in comune l’equivalente di un numero di allievi che, normalmente, sarebbero ripartiti in due, tre o più classi. Lavorare insieme – come già succede in molti altri ambiti – offre alternative interessanti per gli insegnanti stessi, che potrebbero sviluppare dinamiche generatrici di successo educativo: nella relazione coi loro allievi e con le famiglie, e con originali possibilità di elaborazione e di sperimentazione della didattica e della valutazione.
Insegnare in équipe non è una soluzione magica; laddove è già una realtà segue logiche diverse l’una dall’altra. Ma ha l’indubbio pregio di mettere insieme docenti con bravure diverse, affinché la qualità del gruppo sia maggiore della somma delle capacità individuali. Lavorare con colleghi che hanno capacità, esperienze e passioni eterogenee diversifica i contributi, ma non toglie nulla ai singoli.
Eppure è un’impostazione di cui non parla nessuno. È legittimo sperare che prima o poi l’istituto che forma, abilita e aggiorna i nostri insegnanti cominci a guardare oltre la famosa siepe cantata dal poeta, per tornare a essere un luogo di riflessione e di stimolo anche al di là dei contenuti, delle didattiche e delle tecnologie.
Nei primi anni di vita di ogni bambino vi sono dei traguardi che inorgogliscono i genitori e rinforzano la loro capacità educativa, quasi sempre in modo informale e spontaneo. Un bel giorno, spesso in modo inatteso, il figlioletto ride e sgambetta felice. Allo stesso modo imparerà a riconoscerà i volti e le voci, a gattonare e muovere i primi passi maldestri, a dire qualche (quasi) parola; in seguito comincerà a usare il cucchiaio autonomamente, diventerà curioso e, pian piano, porrà domande su domande. Sono i traguardi che ritmano una crescita che durerà una vita intera. Gli studiosi, quando affermano che queste tappe si verificheranno a tale o tal altra età, si rifanno a osservazioni statistiche: proprio per questo offrono degli scarti che possono essere più o meno importanti. Camminare, parlare, capire, ascoltare, pensare sono capacità complesse, generate da un misto di caratteristiche fisiche e mentali, ricevute per trasmissione genetica, e di esperienze vissute dalla nascita in poi, spesso del tutto fortuite, altre volte frutto di meditati e consapevoli stimoli.
Un bel dì, però, arriva il tempo di sedersi dietro un banco di scuola per imparare a leggere e a scrivere. Questo momento coincide con i sei anni di età, che è il momento in cui il 70% dei bambini ha i prerequisiti che permettono tale apprendimento. C’è chi già scribacchia e leggiucchia, e chi che non è ancora del tutto pronto, benché manchi poco. Questo progetto di alfabetizzazione, in parte iniziato già due anni prima, non si limita naturalmente ai quattro cardini dell’imparare l’italiano – leggere, scrivere, ascoltare e parlare – ma coinvolge la matematica e l’educazione alla vita in una piccola comunità come la classe. Il processo di crescita si sposta dunque in un contesto che è diverso da quello della famiglia.
È qui che entrano in gioco la professionalità della scuola e dei suoi insegnanti, che si riconoscono nelle finalità e negli obiettivi della scuola dell’obbligo; che sanno programmare la loro attività sapendo che, malgrado le differenze individuali, tutti hanno il diritto di acquisire ciò che la scuola dello Stato si è impegnata a insegnare; che padroneggiano le discipline che insegnano e le didattiche che soggiacciono alle specificità di ognuna. In altre parole: gli insegnanti sono tenuti, istituzionalmente ed eticamente, a differenziare il loro insegnamento. Parrebbe invece che per poter imboccare la via della differenziazione sia necessario avere classi sempre più piccole.
Durante quell’ultimo mese di scuola in presenza degli allievi, ma metà per volta, ho sentito anch’io qualche insegnante gioire: finalmente ho così pochi allievi che posso addirittura differenziare. Non mi convince. Forse bisognerà ragionare su classi di una ventina di allievi – ma si sa che le origini sociali e culturali non si diffondono equamente in ogni quartiere. Più che aumentare la presenza di figure professionali e, nel contempo, puntare a ridurre gli allievi nelle classi, converrebbe investire soldi ed energie nella formazione degli insegnanti: perché la scuola non è nata per assomigliare alle famiglie. Nel frattempo il Decs dovrebbe riprendere un tema che era presente nel primo documento «La scuola che verrà», del 2014, dove si indicava la collaborazione tra docenti per una condivisione di obiettivi, decisioni e responsabilità: in altre parole l’insegnamento in équipe, che tra tanti vantaggi offre pure l’opportunità di far variare il numero di allievi in base al bisogno.
Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola