Con tutte le volte che ho scritto peste e corna dei livelli A e B della scuola media e di tutte le forme di selezione più o meno dissimulata che avvinghiano la nostra scuola come una malerba, sono naturalmente favorevole all’iniziativa parlamentare dei Verdi, che vuole abolire i livelli nel secondo biennio: anche se poi bisognerà vedere quel che ciò potrà significare. Si fa in fretta a togliere, ma bisognerebbe avere le idee in chiaro su dove si vuole andare, ciò che non è per nulla evidente, al di là delle solite dichiarazione in perfetto stile politichese. Il consigliere di Stato Manuele Bertoli ha subito dichiarato che vale la pena discuterne: «Qualcosa che non funziona effettivamente c’è. Il tema quindi non è eludibile e non può essere liquidato con una presa di posizione dipartimentale. La riapertura del dibattito sulla scuola media è essenziale». Aggiungerei: su tutta la scuola dell’obbligo, visto che con HarmoS inizierà persino due anni prima, a quattro anni. Però è ormai cominciato il teatrino della politica istituzionale, quella che volentieri fa in modo di non guadagnarsi la P maiuscola. Generazione Giovani, il movimento giovanile del PPD, ha già reagito «esprimendo stupore e contrarietà verso un’iniziativa che se approvata, farebbe solo del male alla qualità della formazione dei giovani ticinesi». Perché tanto sbigottimento affidato a un comunicato stampa, appena poche ore dopo la presentazione dell’atto parlamentare? Scrivono gli stessi giovani del PPD: «A spingere la stesura di un comunicato stampa ci ha pensato il Consigliere di Stato On. Manuele Bertoli che, a fronte delle sue prime reazioni, sembra purtroppo sostenere la tesi dell’abbandono dei gruppi differenziati d’insegnamento nelle materie di matematica e tedesco». Si guardi attentamente quel «purtroppo», che non lascia presagire nulla di buono nell’ipotesi che si apra un utile dibattito – e tenuto conto che nessuno può tirarsi fuori da una situazione che disgraziatamente è congenita: perché c’è davvero qualcosa che non gira come dovrebbe. Mentre scrivo son trascorsi solo pochi giorni dalla presentazione della proposta dei Verdi, ma è già polemica. Magari, quando la rubrica apparirà, altri pronunciamenti avranno contribuito a esporre posizioni più o meno precostituite, secondo i dogmi di ogni partito, movimento o associazione.
Eppure quando la deputata Francesca Bordoni Brooks, sul Corriere del 4 aprile, aveva buttato un pesante sasso nello stagno, proponendo di «dividere questa scuola media unica per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali», nessuno era insorto con uguale tempismo e toni da vigilia dell’apocalisse. Sarà stucchevole, ma viene in mente la nota battuta attribuita ad Andreotti: a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina. In altre parole: vuoi vedere che il mantenimento dell’attuale scuola media, magari con un inasprimento delle regole per separare il grano dal loglio, trovi molti più consensi di quel che non si scriva e si dica, da destra a sinistra e ritorno? In fondo, tanto per fare un esempio, la scuola media, classe 1974, era nata coi livelli A e B, ma senza la nota di condotta e i mezzi punti per valutare le diverse materie. A pochi anni dalla sua generalizzazione, però, la nota di condotta e i mezzi punti erano stati riabilitati se non a furor di popolo, almeno a furor d’insegnanti. Di grazia: qualcuno è in grado di dire in maniera comprensibile a che serve la nota di condotta, questa specie di casellario giudiziale ante litteram? E qualcuno sa spiegare, con la dovuta trasparenza, qual è la differenza tra un 4½ e un 5? Mi verrebbe da dire che le cose o si sanno o non si sanno: il resto son solo diavolerie scolastiche, fumo negli occhi per convincerci che le note siano un fatto oggettivo e scientifico. E pensare che siamo solo all’inizio dell’opportuna contesa: c’è da credere che la discussione sull’iniziativa verde riserverà tanti momenti spassosi, a cavallo tra farsa e tragedia, a seconda delle diverse sensibilità.
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E se tornassimo a parlare di pedagogia, quella vera?
La nostra (ormai decrepita) Legge della scuola stabilisce che «L’istituto è l’unità scolastica in cui si organizzano la vita e il lavoro della comunità degli allievi e dei docenti, con il concorso di altri agenti educativi, segnatamente dei genitori, al fine di conseguire gli obiettivi specifici del proprio ordine o grado». Tra le tante tortuosità che costellano i novantanove articoli – naturalmente senza contare tutti i testi legislativi che discendono dalla Magna Charta – s’incontrano anche le norme sulla gestione di ogni singolo istituto, che sono una caterva: sotto le autorità scolastiche – dal Consiglio di Stato giù giù fino agli «Organi di promovimento, di coordinamento, di vigilanza e di organizzazione amministrativa» – si citano, nell’ordine, la direzione, il collegio dei docenti, l’assemblea degli allievi, l’assemblea dei genitori e il consiglio d’istituto. Non si può poi scordare che «Allo scopo di integrare la propria funzione educativa, la scuola si vale della collaborazione del mondo della cultura, dell’informazione e dell’economia». Il men che si possa dire è che l’intricata rete di poteri, effettivi o supposti, fa sì che alla fine ognuno si arrangia come può; nel frattempo tutti, ma proprio tutti, possono dire la loro o spararla grossa, col risultato che non si capisce più niente e tutto resta sempre più o meno com’è.
Da un po’ di tempo in qua si sprecano le soluzioni magiche per risolvere i gravi problemi in cui si dibatte la scuola, con particolare attenzione a quella dell’obbligo, vale a dire quella scuola che ogni allievo deve frequentare tra i sei e i quindici anni di età. La precisazione sulla perentorietà della frequenza non è questione di poco conto, dato che rappresenta una precisa scelta dello Stato, che vuole istruire ed educare i suoi cittadini, indipendentemente dal sesso, dal ceto, dalla razza, dalla religione, dalla nazionalità o dall’ideologia. Naturalmente non è sempre stato così; quando nacque la scuola pubblica e obbligatoria i problemi erano ben altri. Si pensi che la prima Legge della scuola ticinese, del 1804 e fatta di soli quattro articoli, decretava che «In ogni Comune vi sarà una scuola, ove s’insegnerà almeno leggere, e scrivere, ed i principj di aritmetica». Si noti l’avverbio, che introduce gli assi portanti della scuola. Ma il Gran Consiglio dell’epoca aveva da sciogliere un nodo mica da poco: «Tutti i Padri di famiglia, Tutori, e Curatori sono obbligati mandare i loro figlj, e minorenni alla scuola», con multe fino a dieci franchi per i renitenti all’istruzione dei pargoli, da versare «nella cassa de’ poveri del luogo, ove esiste la Scuola». A oltre duecento anni da quelle prime norme fondatrici dell’Istituzione scolastica, non ci si scandalizza nemmeno più se quasi la metà degli allievi esce dalla scuola media con licenze da far piangere e se una porzione significativa degli altri non ce la fa a superare il primo biennio del medio superiore. Eppure i costi non sono proprio bruscolini. Più volte ho sostenuto, in questa rubrica, che la pedagogia non la studia quasi più nessuno e che è diventata sempre più ignota anche a molti professionisti della scuola. Invece sarebbe tempo di tornare a riflettere sulle modalità, i metodi, le strutture e gli strumenti per raggiungere quel magnifico obiettivo che è l’educazione e l’istruzione del maggior numero possibile di futuri cittadini, mirando a risultati elevati per tutti. Si potrà continuare a lungo, soprattutto nei luoghi della politica, del DECS e della formazione degli insegnanti, a discutere di specializzazioni didattiche, di numero di allievi per classe, di educazioni specifiche (sessuale, religiosa, ambientale, emotiva, civica e chi più ne ha più ne metta), senza dimenticare mense e trasporti. Ma senza una fondamentale premessa comune che stabilisca quali sono le nostre scelte fondamentali non raggiungeremo lo straccio di un risultato: a quel punto tanto varrebbe riesumare la scuola del bel tempo che fu, così spesso citata a modello.
L’UDC, l’economia e la formazione dei maestri
L’UDC svizzera ha rispolverato il vecchio adagio popolare secondo cui la pratica val più della grammatica. I suoi delegati, riuniti in quel di Ebnat-Kappel a fine marzo, hanno mosso guerra alle alte scuole pedagogiche, colpevoli di non riuscire «ad assicurare un ricambio sufficiente di docenti, né a preparare efficacemente i candidati insegnanti alla loro futura professione», soprattutto a causa di una «formazione eccessivamente universitaria». L’UDC-pensiero in materia è semplice, quasi banale: «La scuola primaria deve dotare gli allievi di attitudini e di conoscenze che permettano loro di seguire con successo una formazione professionale e d’assumersi in seguito la responsabilità della propria vita. L’UDC svizzera esige dunque una formazione degli insegnanti di scuola primaria più vicina alla pratica e una collaborazione più stretta fra la scuola e l’economia». Lasciamo perdere la tesi secondo cui la scuola elementare deve tendere a fornire manodopera all’economia: vi si intravede il progetto di una selezione molto precoce, così che quei tanti allievi che stentano, a nove o dieci anni, con l’italiano e l’aritmetica non si facciano venire troppi grilli per la testa e, finito il primo segmento della scuola dell’obbligo, si ficchino, rassegnati o meno, in qualche filiera che li porti, buoni e ubbidienti, a qualche onesto mestiere.
Credo a due concetti, in quest’ambito. Il primo è che la scuola dell’obbligo, istituita, organizzata e sorvegliata dallo Stato, ha il dovere di garantire a ogni bambino e ragazzo non solo le ormai antiquate «pari opportunità», ma anche di mirare all’uguaglianza dei risultati a un livello molto elevato: e sappiamo che vi sono sistemi scolastici che ci riescono. Il secondo è che per raggiungere questo obiettivo abbiamo bisogno di insegnanti di alto livello professionale, morale e umano: perché non si tratta solo di montare orologi o di installare rubinetti, bensì di educare Cittadini, compresi quelli che svolgeranno i lavori meno qualificati. Mal si comprende, tra l’altro, come mai l’UDC non si occupi anche dei docenti della scuola media: si vede che negli altri cantoni la scuola obbligatoria secondaria fila via liscia come l’olio.
Il difetto delle alte scuole pedagogiche non risiede tanto nel livello della formazione, bensì nei suoi contenuti, che assai spesso rispondono a complicati teoremi di psicologi, didattici e «scienziati dell’educazione» in genere, saltando invece a piè pari le realtà della scuola dell’obbligo, fatte di allievi e studenti in carne e ossa, con alle spalle le storie più disparate, a volte drammatiche, calate in contesti territoriali molto variegati e che vivono e crescono in famiglie che, di frequente, non sanno che pesci pigliare per far quadrare i conti a fine mese: in barba a quell’economia che l’UDC vorrebbe come partner privilegiato della scuola e della formazione (empirica!) dei maestri. Tra le tante debolezze ci sono poi delle scelte politiche che non per forza concorrono a chiarire le necessità della scuola dell’obbligo e i profili professionali dei suoi insegnanti. Dato per scontato che occorre conoscere le discipline che si insegnano – compreso il significato, vissuto e tangibile, del concetto di Diritto – ci si potrebbe chiedere quale sia il senso di dover ottenere il diploma di maturità per iscriversi alla magistrale. Siamo così convinti che per fare la maestra d’asilo o il maestro di scuola elementare (o, ancora, il prof di scuola media) sia necessario passare attraverso quelle forche caudine della selezione selvaggia che sono gli odierni licei di massa? È proprio vero che, per diventare un insegnante di elevato livello professionale, servano le snervanti trafile dei programmi di chimica, fisica, biologia, matematica, lingua due e tre del liceo, che peraltro generano un danno incalcolabile con il deprezzamento di tante materie umanistiche, italiano storia e filosofia in testa? Forse servirebbe un indirizzo di studi intermedi tra scuola per apprendisti e liceo: non solo per gli insegnanti, ma anche per tante professioni analoghe.
A che ci serve una scuola magistrale griffata?
Non c’è verso di venirne fuori. Puntuale come un orologio svizzero, ecco che si riparla del DFA, vale a dire il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI, che neanche quindici anni fa si chiamava ancora Scuola magistrale – e tale rimane, al di là dei restyling semantici. L’ultima volta è successo in Gran Consiglio a metà marzo, quando si trattava di discutere il resoconto sul suo mandato di prestazione. Naturalmente da più d’uno schieramento politico sono giunte, fuori tempo massimo, nuove recriminazioni sulla decisione di consegnare la Magistrale alla SUPSI, con un mandato in bianco. Ma c’era poco da colorare, tre anni fa. Nel frattempo la SUPSI ha fatto quel che ha potuto, anche grazie alla nomina della direttrice sbagliata, che dopo poco più di un anno è stata gentilmente congedata. Tuttavia è inutile continuare a girare in tondo attorno alla direttrice e alla fretta che contraddistinse il passaggio di questa scuola da mamma DECS a una più disinteressata nutrice, tanto che Manuele Bertoli, direttore del DECS, a un certo punto del dibattito è sbottato: «Sarebbe improvvido ricominciare la discussione sulla scelta fatta nel 2009 di trasferire l’Alta scuola pedagogica sotto la SUPSI. Sostanzialmente, non credo che la collocazione dell’istituto sia il problema centrale. L’idea di fondo è corretta, perché la SUPSI è un istituto che prepara alla professione. Concentriamo quindi le energie sulla soluzione dei problemi»: sante e appropriate parole, che, c’è da sperarlo, metteranno la parola FINE a questo continuo girare attorno ai problemi veri, che sono molti e importanti. E vengono da lontano.
La vecchia Magistrale seminariale, che diplomava i suoi maestri a vent’anni, poteva essere un po’ in difficoltà verso la seconda metà degli anni ’70, dopo aver rifornito le scuole comunali di centinaia e centinaia di insegnanti. Anche grazie alla diffusione dei licei, il Parlamento decise di abbandonare quel modello e di passare a una scuola post-liceale, della durata di due anni: era il debutto della terziarizzazione. Nondimeno la Magistrale che nacque negli anni ’80, fors’anche a causa della grave disoccupazione che aveva colpito le scuole comunali, non ha saputo costruire un modello formativo collaudato e, soprattutto, efficace. Col suo travaso acritico nell’Alta Scuola Pedagogica, avvenuto giusto dieci anni fa, la frittata avrebbe raggiunto il culmine, grazie ai suoi orpelli caduti sull’istituto locarnese chissà da dove: dapprima il cosiddetto «Modello di Bologna», coi suoi diplomi anglofoni e i suoi organigrammi modulari; eppoi, praticamente in contemporanea, i dogmi della famigerata CDPE, ovverosia la Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione. Nell’ultimo decennio i diktat della CDPE hanno rappresentato l’alibi di tanti mali della Magistrale. La Conferenza, infatti, è responsabile del riconoscimento dei diplomi a livello nazionale; se si vuole che la patente di maestro di scuola elementare – pardon, il Bachelor of Arts SUPSI in Insegnamento nella scuola elementare – possa essere impiegata, per dire, anche nell’Appenzello interno o nella Vallée de Joux, occorre sottostare alle sue regole. Forse, però, è giunto il momento di rinunciare al marchio CDPE senza troppi rancori, mettendolo nello stesso cassetto in cui è stata riposta la prima direttrice del DFA. Il divorzio potrebbe agevolare la nuova direzione della Magistrale, la cui nomina potrebbe essere imminente. C’è da ricostruire praticamente ex novo una scuola che si è persa nelle nebbie delle tecnocrazie didattiche imperanti e che, alle condizioni di oggi, non sarebbe in grado di fornire al nostro Cantone – figuriamoci agli altri – un numero sufficiente di insegnanti che dovrà sostituire sul breve termine l’esercito dei baby boomer, che si apprestano ad andare in pensione. Al posto di una scuola griffata, ci serve una scuola che sappia formare docenti preparati ed eticamente perfetti, in grado di educare, insegnare e (ritornare a) far cultura.
Come sostituire i maestri col computer e spendere meno
Un caro amico, che vive da qualche anno negli USA, dopo aver letto la puntata del 1° febbraio di questa rubrica (Il tablet a scuola al posto dei libri?) mi ha segnalato un ampio servizio del New York Times dedicato proprio al tema dell’uso massiccio dell’informatica per insegnare nella scuola dell’obbligo. E ti pareva che il canto delle sirene non giungesse dalla patria dello zio Sam. Il prestigioso quotidiano della Grande Mela riferisce l’«esempio fulgido» dell’esperienza del distretto scolastico di Mooresville, nella Carolina del Nord (Mooresville’s Shining Example – It’s Not Just About the Laptops, nell’edizione del 12 febbraio). Tre anni fa quel distretto, 4’400 studenti, ha avviato un programma differenziato di insegnamento per gli allievi dal 4° al 12° grado, in pratica quasi tutta la scuola dell’obbligo. Nel 2011 la percentuale di promossi ha raggiunto il 91%, con un incremento in tre anni di quasi 11 punti. Insomma, una specie di miracolo che è stato possibile grazie ad alcune misure accompagnatorie, a cominciare da programmi informatici mirati per le diverse discipline di studio, che gli studenti seguono secondo le loro attitudini e i loro ritmi: il sogno di tutti gli insegnanti che sono tali. Non poteva mancare, nella patria del libero mercato e della concorrenza, una rilevante riduzione del corpo insegnante, con le «classi» passate dai 18 allievi dell’era tradizionale ai 30 dell’uovo di Colombo tecnologico, con il comprensibile taglio di 65 posti di lavoro, tra i quali 37 insegnanti. E poi vuoi mettere? «Chi ha ancora bisogno del mappamondo nell’era di Google Earth?» Ecco lì un altro segno di oculatezza. Sta di fatto che, dopo la cura da cavallo, la scuola di Mooresville è diventata una tra le più a buon mercato di tutti i distretti e, nel contempo, al secondo posto per numero di promossi. Anche da noi c’è chi sta facendo le sue pensate, come ha riferito La Regione del 17 febbraio, annunciando l’istituzione di un gruppo di lavoro sulle nuove tecnologie nell’insegnamento. «Se usati bene», scrive l’articolista, «i nuovi strumenti potrebbero permettere di personalizzare gli obiettivi d’apprendimento. Gli studenti più deboli, o quelli più forti, potrebbero così adattare lo studio al loro ritmo». Invece negli USA, paese pragmatico quant’altri mai, la trovata è già divenuta concretezza, coi risultati riportati dal NYT.
Per quanto mi riguarda, prediligo una scuola che persegua la formazione di teste ben fatte, per usare la felice espressione di Edgar Morin, piuttosto che quella, sempre più alla moda, che antepone le teste ben piene. In altre parole, preferisco di gran lunga la scuola con gli insegnanti in carne e ossa, pancia cuore e cervello, che quando va bene riescono pure a mettere la giusta passione in quel che insegnano e sanno fare educazione civica e cultura, confrontati con un gruppo di persone e non solo con gli sterili contenuti dei programmi scolastici. Credo che le moderne tecnologie possano configurarsi come strumenti didattici estremamente potenti ed efficaci, a condizione che siano subordinate alla pedagogia e non diventino esse stesse «La» pedagogia. Certo che se questa stravaganza pedagogica dovesse riuscire ad attecchire anche da noi – e, coi tempi che corrono, non vi sarebbe nulla di cui stupirsi – lo Stato risparmierebbe un bel po’ di soldoni e risolverebbe pure il problema della penuria di insegnanti di certe discipline, come la matematica, che ogni tanto viene insegnata da persone che conoscono la materia, ma che non hanno la minima idea di cosa significhi far scuola ed educare i futuri cittadini. Detto questo è pur necessario che tutti insieme ci diamo da fare per migliorare in fretta la qualità della nostra scuola, senza tanti se e ma. Sarebbe una sciagura culturale e civile se fossimo sostituiti dalle macchine e dalla cultura made in USA, ma continuare a tirar fuori i soliti alibi, alla ricerca snervante di presunti elementi strutturali inadeguati, non fa altro che gonfiare le mire dei liberisti e dei tecnocrati a oltranza.