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Come sostituire i maestri col computer e spendere meno

Un caro amico, che vive da qualche anno negli USA, dopo aver letto la puntata del 1° febbraio di questa rubrica (Il tablet a scuola al posto dei libri?) mi ha segnalato un ampio servizio del New York Times dedicato proprio al tema dell’uso massiccio dell’informatica per insegnare nella scuola dell’obbligo. E ti pareva che il canto delle sirene non giungesse dalla patria dello zio Sam. Il prestigioso quotidiano della Grande Mela riferisce l’«esempio fulgido» dell’esperienza del distretto scolastico di Mooresville, nella Carolina del Nord (Mooresville’s Shining Example – It’s Not Just About the Laptops, nell’edizione del 12 febbraio). Tre anni fa quel distretto, 4’400 studenti, ha avviato un programma differenziato di insegnamento per gli allievi dal 4° al 12° grado, in pratica quasi tutta la scuola dell’obbligo. Nel 2011 la percentuale di promossi ha raggiunto il 91%, con un incremento in tre anni di quasi 11 punti. Insomma, una specie di miracolo che è stato possibile grazie ad alcune misure accompagnatorie, a cominciare da programmi informatici mirati per le diverse discipline di studio, che gli studenti seguono secondo le loro attitudini e i loro ritmi: il sogno di tutti gli insegnanti che sono tali. Non poteva mancare, nella patria del libero mercato e della concorrenza, una rilevante riduzione del corpo insegnante, con le «classi» passate dai 18 allievi dell’era tradizionale ai 30 dell’uovo di Colombo tecnologico, con il comprensibile taglio di 65 posti di lavoro, tra i quali 37 insegnanti. E poi vuoi mettere? «Chi ha ancora bisogno del mappamondo nell’era di Google Earth?» Ecco lì un altro segno di oculatezza. Sta di fatto che, dopo la cura da cavallo, la scuola di Mooresville è diventata una tra le più a buon mercato di tutti i distretti e, nel contempo, al secondo posto per numero di promossi. Anche da noi c’è chi sta facendo le sue pensate, come ha riferito La Regione del 17 febbraio, annunciando l’istituzione di un gruppo di lavoro sulle nuove tecnologie nell’insegnamento. «Se usati bene», scrive l’articolista, «i nuovi strumenti potrebbero permettere di personalizzare gli obiettivi d’apprendimento. Gli studenti più deboli, o quelli più forti, potrebbero così adattare lo studio al loro ritmo». Invece negli USA, paese pragmatico quant’altri mai, la trovata è già divenuta concretezza, coi risultati riportati dal NYT.
Per quanto mi riguarda, prediligo una scuola che persegua la formazione di teste ben fatte, per usare la felice espressione di Edgar Morin, piuttosto che quella, sempre più alla moda, che antepone le teste ben piene. In altre parole, preferisco di gran lunga la scuola con gli insegnanti in carne e ossa, pancia cuore e cervello, che quando va bene riescono pure a mettere la giusta passione in quel che insegnano e sanno fare educazione civica e cultura, confrontati con un gruppo di persone e non solo con gli sterili contenuti dei programmi scolastici. Credo che le moderne tecnologie possano configurarsi come strumenti didattici estremamente potenti ed efficaci, a condizione che siano subordinate alla pedagogia e non diventino esse stesse «La» pedagogia. Certo che se questa stravaganza pedagogica dovesse riuscire ad attecchire anche da noi – e, coi tempi che corrono, non vi sarebbe nulla di cui stupirsi – lo Stato risparmierebbe un bel po’ di soldoni e risolverebbe pure il problema della penuria di insegnanti di certe discipline, come la matematica, che ogni tanto viene insegnata da persone che conoscono la materia, ma che non hanno la minima idea di cosa significhi far scuola ed educare i futuri cittadini. Detto questo è pur necessario che tutti insieme ci diamo da fare per migliorare in fretta la qualità della nostra scuola, senza tanti se e ma. Sarebbe una sciagura culturale e civile se fossimo sostituiti dalle macchine e dalla cultura made in USA, ma continuare a tirar fuori i soliti alibi, alla ricerca snervante di presunti elementi strutturali inadeguati, non fa altro che gonfiare le mire dei liberisti e dei tecnocrati a oltranza.

La scuola e quella smisurata voglia di misurare tutto

Viviamo un’epoca che chiama a gran voce le misure. Tutto dev’essere misurato, soppesato, monetizzato. Tutto dev’essere utile. Sarà per questo che talune discipline che una volta qualificavano la scuola, come la poesia, la storia o la filosofia, oggi non sono più così di moda: si possono valutare solo in parte, perché è difficile quantificare le conoscenze degli allievi e degli studenti a questo livello. Oltre a ciò sono materie poco spendibili e che non riempiono il borsello, a meno che uno, da grande, non abbia in testa di fare il poeta, il filosofo o il professore di storia. Ma è di per sé frustrante, o per lo meno sospetto, che un ragazzino o un adolescente scelga di fare un lavoro così inutile. A scuola, si sa, per misurare si usano le note. Nella scuola dell’obbligo esse vanno dal 3 al 6 e il 4 rappresenta la sufficienza. Quand’ero un ragazzino, dei libretti pieni di 4 si diceva ch’erano costellati di sedie, forma elegante per dire che valevano poco. Ma quella era una scuola che si limitava a mettere in fila gli allievi dal più al meno bravo. C’erano i maestri larghi di manica e quelli più tirchi. Capitava che se prendevi un 5 in qualche disciplina poco amata, a casa ti chiedevano le note dei tuoi compagni: il tuo 5 valeva 5 solo se i tuoi compagni avevano preso 3½ o 4, neanche il tuo 5 fosse La Gioconda.
Negli anni ’70 si cominciò a riflettere su questi meccanismi iniqui. La scuola media, ad esempio, debuttò senza la nota di condotta e senza i mezzi punti, che furono però reintrodotti già nei primi anni ’80. Dal canto suo la scuola elementare mantenne le note a fine anno e introdusse il «Libretto delle comunicazioni ai genitori», che compariva in dicembre e verso aprile. Questo documento, voluto in prima istanza proprio dagli insegnanti, intendeva mettere in primo piano cosa l’allievo aveva imparato e quali erano stati i suoi progressi. Consci dell’importanza della collaborazione dei genitori, la scelta era stata quella di instaurare un dialogo formale tra i due principali poli educanti: scuola e famiglia, appunto. Quel libretto ha resistito per oltre un trentennio, anche se, nel parlare comune, fu ribattezzato abbastanza in fretta «Libretto dei giudizi»: insomma, sembra che la scuola non riesca ad assolvere il suo mandato, che è quello di istruire e di collaborare a educare, se non può sputar sentenze ed emettere giudizi a volte impietosi, altre servili.
Il mese scorso tutti i genitori degli allievi di scuola elementare sono stati invitati dall’insegnante a un colloquio obbligatorio, durante il quale è pure stato consegnato il nuovo «Libretto delle comunicazioni ai genitori», generalizzato quest’anno dopo tre o quattro anni di atti preparatori, fasi sperimentali, corsi di formazione. Un passo avanti? C’è da dubitarne. Oltre alla denominazione, è rimasta una stringata descrizione del livello raggiunto in ogni disciplina. Di nuovo c’è l’incontro coatto con le famiglie a metà anno, nonché una valutazione, già a partire dalla 2ª elementare, che al posto delle note usa i soliti aggettivi raffermi: buono, discreto, sufficiente… In fin dei conti un passo indietro, anche se l’idea era quella di farne un paio in avanti, magari con l’intenzione di riuscire a instaurare una comunicazione trasparente, di cui il genitore potesse farne qualcosa, oltre che prenderne atto. Però è quel che il collegio degli ispettori e un gran numero di direttori hanno voluto a tutti i costi. Gian Piero Bianchi, ispettore oggi in pensione, si era opposto a questa riformetta; ha detto di recente a laRegione: «Come si può dare una nota all’amore per la lettura?». Domanda tutt’altro che retorica, anche perché si sono reintrodotte a metà anno le tanto criticate note, cha sono la fiera della soggettività, ma non si è ancora avuta l’ingegnosità di definire cosa sa un allievo che intasca un «Molto buono» in italiano, rispetto a quello reputato solo «Buono». In attesa che qualcuno dica cosa è obbligatorio sapere, la valutazione resta insufficiente.

L’autorevolezza è una virtù da guadagnarsi

In principio fu il dottor Spock. Il pediatra statunitense divenne famoso in Europa verso la fine degli anni ’60 come il teorico del permissivismo nell’educazione dei bambini sin dalla nascita. Il sessantotto contribuì in modo importante alla diffusione delle sue teorie in materia di educazione, se solo si pensa al ruolo che ebbe la scuola in quegli anni che chiedevano a gran voce ampie riforme; ed è certo che la voglia di «immaginazione al potere» ha accelerato la diffusione delle sue idee libertarie in tema educativo. Ho frequentato la Magistrale a quell’epoca e non posso sicuramente scordare quali fossero i chiodi fissi della formazione professionale, con accostamenti spesso sufficientemente confusi. In ogni modo è in quegli anni che nasce la disputa, invero un po’ strumentale e ambigua, tra autorità e autorevolezza, tra autoritarismo e permissivismo. La natura del dibattito mi è tornata in mente leggendo un articolo del prof. Filippo Ciceri, insegnante di scuola media, apparso sul Corriere del 10 dicembre. Argomentando attorno alla contrapposizione tra autorevolezza e autoritarismo dell’insegnante, che secondo l’autore è poco più di uno slogan, una forzatura o una fregatura, Ciceri scrive che «Ogni insegnante, in quanto tale, non solo merita ma necessita che gli sia riconosciuta, di base, la giusta autorità». Il problema di oggi – e in ciò come non dare ragione al prof. Ciceri? – è che su tali concetti si fonda, spesso in maniera del tutto confusa, la formazione pedagogica dei futuri insegnanti.
L’autorevolezza del docente, in effetti, poggia le basi su due elementi distinti ma altrettanto fondamentali. Il primo è rappresentato dalla padronanza delle conoscenze e delle competenze che si insegnano. Per banale che sia, non si può, poniamo, insegnare la storia senza conoscerla a menadito. Il secondo elemento, non meno importante del primo, è dato dalla professionalità specifica dell’insegnante, che non può limitarsi a essere «uno che sa le cose». Insegnare è sempre stato un mestiere difficile, costantemente in bilico, come diceva Piaget, tra arte e scienza. Sicuramente è necessaria una certa dose di predisposizione (una volta la si chiamava vocazione), che da sola, tuttavia, non basta. Il riconoscimento sociale e politico della «giusta autorità» dell’insegnante non si ottiene per grazia divina o per decreto legislativo. È però ora e tempo che il nostro Stato si liberi di una legge della scuola incartapecorita (di cui ho scritto il 10 ottobre dell’anno scorso) e che si doti di una Magna Charta al passo coi tempi, rispettosa delle necessità odierne e che chiarisca diritti e doveri di ogni componente della scuola. Ma è altrettanto urgente che l’istituto che abilita gli insegnanti contribuisca concretamente a formare docenti con una professionalità ai limiti dell’eccellenza, basata – nell’ordine – su aspetti istituzionali, etici, deontologici, pedagogici e didattici. Più in là sarà pure necessario che lo Stato si doti degli strumenti adeguati per verificare che l’eccellenza dei suoi docenti si rifletta sul paese. Essere insegnante, soprattutto nella scuola dell’obbligo, significa in primo luogo conoscere e condividere il progetto politico dello Stato, che, mica per caso, obbliga tutti i bambini e i ragazzi a frequentare la scuola tra i 4 e i 15 anni di età. Come ha scritto oltre vent’anni fa il sociologo Philippe Perrenoud, c’è una chiara differenza tra un organismo di selezione e una scuola: «A scuola, prima di valutare, certificare, selezionare, si suppone che si debba insegnare». Purtroppo sappiamo che il docente fragile, che non sa insegnare, diventa facilmente autoritario e usa le note e i test come armi improprie. La vera rivendicazione, invece, è quella di poter annoverare un numero vieppiù consistente di insegnanti autorevoli, affinché sia ristabilita la «giusta autorità» della Scuola, e che lo Stato esiga e garantisca la loro formazione continua e il pieno rispetto delle regole. Sennò si genera solo un autoritarismo torvo, di cui nessuno sa che farsene, soprattutto in un mondo in cui il killeraggio è sempre più di moda.

La formazione dei docenti tra politica e missione della scuola

La dottoressa Nicole Rege Colet, direttrice defenestrata consensualmente dal DFA della SUPSI, ha rilasciato una lunga intervista al Giornale del Popolo (29.11.11) in cui spiega i retroscena, dal suo punto di vista, della separazione dall’ex scuola magistrale. Lo slogan di base, che dà il titolo all’intervista, recita: «Mentre preparavo il futuro volevano restare al passato». C’è da sperare che la voglia di futuro fosse il mandato assegnatole dalla SUPSI e non un suo pallino personale. Racconta visioni di un certo interesse, l’ex direttrice, e per certi versi raggiunge Gianni Ghisla, che aveva pubblicato un’articolessa piuttosto intrigante sulla Regione del 18 novembre. Che l’accanimento – evidente – contro di lei affondasse le radici nel suo essere donna è una panzana bella e buona; che molti l’avversassero, dal PS alla Lega saltando tanti di quelli in mezzo, perché veniva da fuori, è probabilmente una realtà, benché per ragioni diverse da uno schieramento all’altro. Rege Colet, tuttavia, piazza anche un paio di argomenti che non possono essere ingoiati come il solito rospo del detto comune. Afferma ad esempio: «… resto convinta che in Ticino si debba fare un salto tremendo in fatto di formazione dei docenti». E aggiunge, poco più in là: «Io vengo da Ginevra, da un mondo accademico di lunga data». Che Ginevra sia un’università con una storia durevole non lo si può mettere in dubbio. Che la facoltà di psicologia e scienze dell’educazione abbia un blasone ragguardevole è altrettanto evidente. Ma i tempi stanno cambiando e i docenti ginevrini, certo non unici in Svizzera, non hanno proprio nessun motivo per metterla giù dura: nei diversi rapporti PISA, Ginevra sgambetta assieme al Ticino sugli ultimi vagoni delle graduatorie nazionali. Questo per dire che anche la gloriosa scuola ginevrina, quella di Édouard Claparède, Adolphe Ferrière e Jean Piaget, sta conoscendo le sue decadenze, forse a causa del tragico modello di Bologna, che ha omologato tutte le scuole terziarie d’Europa, o forse per altre ragioni più imperscrutabili.
Scrive ancora l’ex direttrice: «Certo è che dopo il 10 aprile il vento è cambiato, anche se io inizialmente non ci ho badato molto perché, ripeto, in Svizzera romanda fra Dipartimento dell’educazione e istituzioni universitarie non c’è un legame così stretto». E come no? Per tornare a Ginevra, a metà degli anni ’90 era stata varata un’originale riforma della scuola primaria per la realizzazione di grandi ideali della pedagogia moderna. A parte il fatto che quella riforma è stata spazzata via con un colpo di spugna in tempi assai lesti, è risaputo che sul piano politico essa era decollata grazie a un rapporto privilegiato tra l’allora direttrice del dipartimento dell’educazione, la liberale Martine Brunschwig Graf, e alcuni baroni della facoltà, in un miscuglio di ideali e potere: altro che indipendenza dall’apparato politico! Nel caso del Ticino, inoltre, non si può dimenticare che la SUPSI non è un’università, ma una Scuola Universitaria Professionale, dove l’aggettivo rimanda alla formazione degli insegnanti. E dove insegnerà mai la maggior parte dei diplomati, se non nella Scuola della Repubblica, che attraverso la politica ne regge le sorti e ne traccia le direttive? Proprio per questa ragione il rapporto tra la politica e l’istituto di formazione dei suoi insegnanti dev’essere corretto e basato sul dialogo. Sarebbe una catastrofe se l’ex Magistrale, come ha fatto spesso in passato, sfruttando abilmente un certo disinteresse del DECS, si mettesse a fare e disfare le linee guida della nostra scuola. La terziarizzazione, parola magica e misteriosa già in voga quando si diede (breve) vita all’ASP, potrà anche essere un obiettivo sublime, ma ancor tutto da chiarire. Il «salto tremendo» non risiede, in sé, nel fatto di ottenere il bachelor o il master, al posto delle vecchie patenti e abilitazioni. Invece è fondamentale che i diplomati della SUPSI diano vita a una scuola di qualità. In altre parole: che sappiano insegnare.

La frittata al DFA, in attesa della prossima portata

E così, dopo due anni di schermaglie, il Consiglio della SUPSI ha congedato la direttrice del suo Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento (DFA), a causa delle «tensioni createsi all’interno», che «hanno innescato una spirale negativa che ha progressivamente deteriorato il clima di lavoro». Non si può scordare che il passaggio dell’istituto magistrale dal DECS alla SUPSI era stato accelerato anche perché, soprattutto dall’interno dell’istituto, giungevano continue critiche alla direzione dell’ASP, tanto che la SUPSI aveva optato per una direzione teoricamente al di sopra (e al di fuori) delle parti, con tanto di direttrice alloglotta. Per guidare la Magistrale del Paesello nel processo di ulteriore terziarizzazione, si era quindi operata una scelta esterna al provincialismo nostrano. Com’è finita, almeno per ora, l’abbiamo letto sui giornali del 5 novembre. Ora che la frittata è cotta a puntino, c’è solo da sperare di essere giunti al fondo della voragine e che la risalita, indipendentemente da chi sostituirà Nicole Rege Colet, tenga conto per davvero dei bisogni di formazione degli insegnanti di questo Cantone, senza concentrare troppo le attenzioni sull’odierno capro espiatorio.
Alla fine degli anni ’80 la Magistrale era passata da seminariale – vi si accedeva dopo il ginnasio – a post-liceale. Una decina di anni dopo ci si era addentrati entusiasti nella stagione della «terziarizzazione», con l’inaugurazione dell’ASP. Infine, nel 2009, il Parlamento aveva consegnato l’ASP alla SUPSI, firmando una cambiale in bianco e cedendo pure il controllo sull’istituto, il cui compito principale resta ancora quello della formazione e dell’abilitazione dei docenti delle scuole di questo cantone, dall’asilo al medio-superiore. (A dire il vero neanche prima il DECS si era curato troppo delle scelte strategiche in materia di formazione dei suoi insegnanti: ma sorvoliamo). «Terziarizzazione» è stata la parola chiave elevata a ruolo di manifesto; mai, però, che si sia discusso sul serio dei requisiti e delle competenze ineluttabili per insegnare nella scuola dell’infanzia, elementare, media e via di seguito. «Terziarizzazione», che comporta l’aumento degli anni di studio in età adulta, imparando pure a fare «Ricerca», è una parola fatata, che sembra risolvere di per sé i problemi della scuola, soprattutto di quella dell’obbligo. A ogni metamorfosi, tuttavia, i curricoli formativi dei futuri docenti sono nati dentro l’istituto magistrale: si vede che chi era lì sapeva le cose.
Da troppi anni l’istituto locarnese influenza la scuola ticinese con innovazioni pedagogiche e didattiche che nessuno le aveva richiesto e che non erano state discusse e condivise con la scuola reale, quella che giorno dopo giorno cerca di sviluppare i programmi di studio dei vari ordini: con quali tangibili miglioramenti è ancor tutto da scoprire, ricerca o non ricerca. Eppure anche in questo momento di grande crisi il co-presidente del collegio dei formatori ha confidato a La Regione «l’auspicio e la rivendicazione dei colleghi nel chiedere che in questa fase di transizione si creino le condizioni affinché la voce e le idee di chi è quotidianamente sul campo (insegnanti e studenti) possa avere uno sbocco concreto e importante nell’elaborazione condivisa degli scenari futuri del DFA». Ma quale campo? E condivisa da chi? Dopo tutti i pasticci e le discussioni animose, sarebbe ora che la Magistrale assumesse la giusta dose di umiltà e cominciasse seriamente a confrontarsi con le scuole comunali, medie e medie-superiori: nessuno, oggi, ha in saccoccia le giuste soluzioni a problemi di educazione e formazione sempre più complessi. Non le hanno né i dottori del DFA, né gli operatori direttamente coinvolti nelle sedi e nelle aule scolastiche. Continuare ognuno per la sua strada sarebbe però, come minimo, da irresponsabili: per parafrasare un noto adagio, la formazione degli insegnanti è troppo importante, per lasciarla completamente nelle mani del DFA.