A proposito di delitti e di pene nelle aule e di un recente intervento sulla scuola del filosofo Umberto Galimberti
Il portale orizzontescuola.it ha recentemente pubblicato una sorta di intervista al filosofo Umberto Galimberti, che se la prende a 360° col mondo della scuola in occasione di un’iniziativa del Comune di Modena sul tema «Prendersi cura delle nuove generazioni: la scuola va in città», una tre giorni di conferenze e seminari con pedagogisti, scrittori e urbanisti. Cari professori, dovete riconoscere se avete un interesse vero per l’insegnamento o se invece è un ripiego, afferma Galimberti: un argomento che aveva già solleticato un altro filosofo, Karl Popper. Sono stato un insegnante – aveva detto durante un congresso – e mi sono sempre molto interessato alla riforma scolastica, una riforma tremendamente semplice, ma difficile da realizzare. Basterebbe consentire a ogni insegnante che trovi di aver sbagliato mestiere di uscire dalla scuola senza alcun svantaggio economico o di altro tipo. C’è molta gente nella scuola che ha sbagliato mestiere, ma non si può essere un bravo insegnante senza amare seriamente la professione.
Tra tutti i temi toccati dall’illustre filosofo – autore, peraltro, di un bel libro: Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi (Feltrinelli, 2019) – ce n’è uno che mi interessa particolarmente, quello delle punizioni a scuola, una sorta di codice penale che si manifesta con una gamma che va dal rimbrotto alla sospensione: sanzioni che fanno parte del “profilo identitario” della scuola stessa, benché sia difficile capire a quali condizioni sia anche utile, educativo, soprattutto laddove il «reo» non riconosce il progetto della scuola e, dunque, non vi aderisce.
Cosa fa la scuola con i bulli?, si domanda Galimberti. Li sospende. Mi ero occupato anch’io di questo tipo di sanzione. L’occasione era stata una decisione del Gran Consiglio zurighese, che, chiamato ad esprimersi sulle sanzioni da adottare nei confronti degli scolari più indisciplinati, aveva inasprito le norme sull’espulsione, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Per la cronaca: la scuola media ticinese contempla nel suo «dei delitti e delle pene» la sospensione dall’insegnamento o dalla scuola fino a dieci giorni (o anche più, quando il comportamento di un allievo pregiudica manifestamente la regolarità della vita scolastica).
Avevo scritto in quell’occasione che «paradossalmente il fatto di allontanare un allievo dalla scuola perché la prende a calci finisce col rendergli un favore e magari creargli l’aura di eroe di fronte ai suoi pari. Certo, la classe ritroverà un po’ di tranquillità; nel contempo l’espulso dedurrà che la frequenza non è poi così importante e costruirà egli stesso la sua scuola: quella dell’arte di arrangiarsi che, in condizioni estreme di esclusione sociale (e assai spesso, in questi casi, familiare), può facilmente spianare la strada verso la criminalità. E allora? Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se il rimedio non potrebbe risiedere in un intelligente supplemento di scuola, proprio per evidenziarne l’importanza. Rompi le scatole durante la lezione di scienze, ti dai al turpiloquio e fai lo scemo, insulti l’insegnante e – perché no? – lo aggredisci fisicamente? Va bene. Ti condanno a seguire un corso parallelo di filosofia, di letteratura, di storia, di diritto e di storia dell’arte. Non ti farò esami e non ti darò note, non sarà un corso che avrà ricadute dirette sulla pagella. Però, ragazzo mio, ti obbligherò a stare un po’ di ore sui libri, ti farò scrivere e pensare, discuterò con te, cercherò di capire da dove vengono la tua avversione e il tuo odio. Il tutto potrebbe durare anche più dei tre mesi della sospensione; ma, come minimo, non sarai stato in giro a oziare e a delinquere».
È un po’ quello che ha scritto anche Galimberti: Bisogna tenerli a scuola, i ragazzi, e insegnare loro i sentimenti. I sentimenti non sono qualcosa di innato, sono un fenomeno culturale, cioè si imparano. S’imparano con la letteratura. La letteratura insegna l’angoscia, il coraggio, la noia, il suicidio, la gioia. Allora riempiamo la scuola di letteratura, non di computer. La scuola deve occuparsi di formazione dell’uomo. Un competente che non ha tratti umani a che serve?
Oddio, bisogna pur dire a chiare lettere che i “castighi” scolastici, di cui la sospensione è il grado più terribile del disprezzo delle regole, non è l’unico modo per emarginare un alunno o escluderlo del tutto. E certamente non è il più diffuso. Perché ci sono pratiche che, in tanti casi, si ripetono giorno dopo giorno e, per finire, convincono la ragazza o il ragazzo della propria inadeguatezza. Sono situazioni che, per lo più, avviliscono gli studenti, che non sempre hanno la lucidità per migliorare la loro situazione scolastica. Ma in altri casi sfociano in bullismi e cafonate di vario genere.
Se la scuola è una cosa seria, tanto vale essere conseguenti e credere fermamente che nessuno possa essere condannato a priori. La scuola pubblica deve educare e integrare, invece di decretare l’emarginazione di chi, solitamente, emarginato lo è già.
Scritto per Naufraghi/e
Note
KARL POPPER, “La ricerca di un mondo migliore”, in Nuova civiltà delle macchine – Rivista trimestrale di analisi e critica, Anno II, n° 3 (7), Estate 1984 | Atti del convegno «1984: comincia il futuro», 3/5 maggio 1984 a Locarno
La mia ampia citazione è dall’articolo Quando la scuola non sa più che pesci pigliare (Corriere del Ticino, 28.05.2011).