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Riempiamo la scuola di letteratura, non di computer

A proposito di delitti e di pene nelle aule e di un recente intervento sulla scuola del filosofo Umberto Galimberti

Il portale orizzontescuola.it ha recentemente pubblicato una sorta di intervista al filosofo Umberto Galimberti, che se la prende a 360° col mondo della scuola in occasione di un’iniziativa del Comune di Modena sul tema «Prendersi cura delle nuove generazioni: la scuola va in città», una tre giorni di conferenze e seminari con pedagogisti, scrittori e urbanisti. Cari professori, dovete riconoscere se avete un interesse vero per l’insegnamento o se invece è un ripiego, afferma Galimberti: un argomento che aveva già solleticato un altro filosofo, Karl Popper. Sono stato un insegnante – aveva detto durante un congresso – e mi sono sempre molto interessato alla riforma scolastica, una riforma tremendamente semplice, ma difficile da realizzare. Basterebbe consentire a ogni insegnante che trovi di aver sbagliato mestiere di uscire dalla scuola senza alcun svantaggio economico o di altro tipo. C’è molta gente nella scuola che ha sbagliato mestiere, ma non si può essere un bravo insegnante senza amare seriamente la professione.

Tra tutti i temi toccati dall’illustre filosofo – autore, peraltro, di un bel libro: Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi (Feltrinelli, 2019) – ce n’è uno che mi interessa particolarmente, quello delle punizioni a scuola, una sorta di codice penale che si manifesta con una gamma che va dal rimbrotto alla sospensione: sanzioni che fanno parte del “profilo identitario” della scuola stessa, benché sia difficile capire a quali condizioni sia anche utile, educativo, soprattutto laddove il «reo» non riconosce il progetto della scuola e, dunque, non vi aderisce.

Cosa fa la scuola con i bulli?, si domanda Galimberti. Li sospende. Mi ero occupato anch’io di questo tipo di sanzione. L’occasione era stata una decisione del Gran Consiglio zurighese, che, chiamato ad esprimersi sulle sanzioni da adottare nei confronti degli scolari più indisciplinati, aveva inasprito le norme sull’espulsione, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Per la cronaca: la scuola media ticinese contempla nel suo «dei delitti e delle pene» la sospensione dall’insegnamento o dalla scuola fino a dieci giorni (o anche più, quando il comportamento di un allievo pregiudica manifestamente la regolarità della vita scolastica).

Avevo scritto in quell’occasione che «paradossalmente il fatto di allontanare un allievo dalla scuola perché la prende a calci finisce col rendergli un favore e magari creargli l’aura di eroe di fronte ai suoi pari. Certo, la classe ritroverà un po’ di tranquillità; nel contempo l’espulso dedurrà che la frequenza non è poi così importante e costruirà egli stesso la sua scuola: quella dell’arte di arrangiarsi che, in condizioni estreme di esclusione sociale (e assai spesso, in questi casi, familiare), può facilmente spianare la strada verso la criminalità. E allora? Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se il rimedio non potrebbe risiedere in un intelligente supplemento di scuola, proprio per evidenziarne l’importanza. Rompi le scatole durante la lezione di scienze, ti dai al turpiloquio e fai lo scemo, insulti l’insegnante e – perché no? – lo aggredisci fisicamente? Va bene. Ti condanno a seguire un corso parallelo di filosofia, di letteratura, di storia, di diritto e di storia dell’arte. Non ti farò esami e non ti darò note, non sarà un corso che avrà ricadute dirette sulla pagella. Però, ragazzo mio, ti obbligherò a stare un po’ di ore sui libri, ti farò scrivere e pensare, discuterò con te, cercherò di capire da dove vengono la tua avversione e il tuo odio. Il tutto potrebbe durare anche più dei tre mesi della sospensione; ma, come minimo, non sarai stato in giro a oziare e a delinquere».

È un po’ quello che ha scritto anche Galimberti: Bisogna tenerli a scuola, i ragazzi, e insegnare loro i sentimenti. I sentimenti non sono qualcosa di innato, sono un fenomeno culturale, cioè si imparano. S’imparano con la letteratura. La letteratura insegna l’angoscia, il coraggio, la noia, il suicidio, la gioia. Allora riempiamo la scuola di letteratura, non di computer. La scuola deve occuparsi di formazione dell’uomo. Un competente che non ha tratti umani a che serve?

Oddio, bisogna pur dire a chiare lettere che i “castighi” scolastici, di cui la sospensione è il grado più terribile del disprezzo delle regole, non è l’unico modo per emarginare un alunno o escluderlo del tutto. E certamente non è il più diffuso. Perché ci sono pratiche che, in tanti casi, si ripetono giorno dopo giorno e, per finire, convincono la ragazza o il ragazzo della propria inadeguatezza. Sono situazioni che, per lo più, avviliscono gli studenti, che non sempre hanno la lucidità per migliorare la loro situazione scolastica. Ma in altri casi sfociano in bullismi e cafonate di vario genere.

Se la scuola è una cosa seria, tanto vale essere conseguenti e credere fermamente che nessuno possa essere condannato a priori. La scuola pubblica deve educare e integrare, invece di decretare l’emarginazione di chi, solitamente, emarginato lo è già.

Scritto per Naufraghi/e

Note

KARL POPPER, “La ricerca di un mondo migliore”, in Nuova civiltà delle macchine – Rivista trimestrale di analisi e critica, Anno II, n° 3 (7), Estate 1984 | Atti del convegno «1984: comincia il futuro», 3/5 maggio 1984 a Locarno

La mia ampia citazione è dall’articolo Quando la scuola non sa più che pesci pigliare (Corriere del Ticino, 28.05.2011).

La scuola come istituzione, non come servizio

Docenti e allievi, fra piani di studio e pressioni delle famiglie

Su La Regione del 17 giugno, Giuseppe Cotti, vicesindaco di Locarno, ha pubblicato un’interessante opinione col titolo «Non esiste scuola senza rispetto». Tocca in particolare due temi d’attualità. «Gli insegnanti – scrive – si sentono confrontati, con frequenza crescente, con un clima ostile da parte delle famiglie».

Cotti coglie bene uno degli aspetti scatenanti di questo grave malessere che attraversa la scuola, assieme alla sua società di riferimento: «La scuola non è un buffet à la carte né una Landsgemeinde. Non possiamo consentire che venga trattata come un’entità negoziabile in cui selezionare solo gli aspetti che ci soddisfano personalmente».

Concordo. Quasi trent’anni fa il pedagogista francese Philippe Meirieu aveva già lanciato questo monito in un autorevole libro – L’école ou la guerre civile (pp. 64-5), titolo quant’altri mai premonitore. «La scuola – si legge – deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati; deve tornare a essere un affare pubblico. In altre parole, la scuola non è un servizio, è un’istituzione».

Poi chiariva: «Cos’è un servizio? È un’organizzazione che “fornisce servizi” a un gruppo di persone. La Posta è un servizio, come la rete stradale. La qualità di un servizio si misura dalla soddisfazione dei suoi utenti. Tuttavia, in una repubblica, devono esistere almeno tre organizzazioni che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono istituzioni. Non si giudicano dalla soddisfazione dei loro utenti. L’educazione, durante il periodo dell’obbligo scolastico, deve obbedire a specifici valori. Non può diventare l’arena della competizione sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato».

Purtroppo, è quel che è successo e continua a succedere dentro quel mondo complicato che è la scuola dell’obbligo, schiacciata tra pressioni delle famiglie, piani di studio stipati di competenze trasversali, dimensioni curricolari e una sovrabbondanza di aree e discipline, col loro corollario di traguardi di competenza illusori: un piano di studio che porta dritti al menu à la carte. Tuttavia, è proprio da questo piano di studio che, spesso, le famiglie prendono spunto per accusare maestri delle scuole comunali e professori della scuola media del fatto che i loro figli non imparano le conoscenze e le competenze così copiosamente illustrate e commentate in quelle 200 pagine di buoni propositi – si fa ovviamente per dire.

Nel citato articolo, Cotti osserva pure che «“Penuria” oggi è la parola più sentita, nella politica svizzera. L’abbiamo sentita nei dibattiti sull’energia, sulla situazione idrologica, sui farmaci essenziali e, ovviamente, sulla manodopera. A quest’ultimo proposito, molti Dipartimenti cantonali dell’educazione si sono trovati in gravi difficoltà. La scarsità di docenti ha obbligato, per esempio a Zurigo, ad assumere anche persone che non possedevano le qualifiche necessarie per gestire una classe». Oddio, nulla di scandaloso nell’assumere insegnanti senza le qualifiche richieste – fatto questo che non mette al riparo da competenze professionali carenti: perché un conto sono i diplomi, un altro ciò che i docenti sono in grado di fare.

Tra l’altro è già successo, negli anni ’70, nel Vallese francofono. Anche in Ticino, una decina di anni fa, per far fronte a una carenza di insegnanti nella scuola elementare, si era “snellito” il curricolo formativo previsto dal Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI, mandando gli studenti dell’ultimo anno a “impratichirsi” a metà tempo come insegnanti contitolari nella scuola reale, come se fosse stato così difficile sapere che negli anni ’10 di questo secolo sarebbe iniziato un sostanzioso cambio generazionale, che chiamava a gran voce nuovi insegnanti, giovani e ben preparati.

Purtroppo, invece, siamo daccapo, con l’aggravante che, accanto a una riduzione del numero medio di allievi per classe, con proporzionale aumento delle classi di scuola, sono state inventate diverse figure professionali che, come formazione di base, esigono la patente di maestro: docenti d’appoggio, risorse casi difficili, operatrici per l’integrazione, docenti di lingua e integrazione…

Con tutto ciò, questa sorta di riforma della scuola, che è nata e cresciuta nel breve volgere di un decennio, ha coinciso con un importante ricambio generazionale, che ha messo sotto pressione il DFA, che è l’istituto chiamato a formare i docenti delle scuole comunali e abilitare all’insegnamento quelli del settore medio, una scuola che è più o meno coetanea di questa scuola dell’obbligo delle competenze.

Tuttavia è difficile capire se i docenti attualmente in carica sanno destreggiarsi dentro la ragnatela del piano di studio e, nel contempo, gestire le relazioni e la comunicazione con le famiglie dei loro allievi: perché organizzare la vita della classe, cioè un gruppo basato sul diritto e non sugli affetti, richiede la necessaria serenità e un congruo entusiasmo.

Scritto per Naufraghi/e

I tempi della scuola

A ridosso dei giorni di fine anno scolastico, qualche considerazione sul calendario

Esiste un tempo giusto per andare a scuola? C’è qualche dato più o meno scientifico che determini quante ore alla settimana è necessario stare a scuola? E, parallelamente, qualcuno è in grado di dire con sicurezza qual è la miglior durata dell’anno scolastico e come si devono alternare i momenti scolastici e quelli dedicati al riposo? È una questione in parte astronomica, quasi cosmologica, e in altra parte antropologico-religiosa. Forse.

È sotto gli occhi di tutti che anche al centro dell’organizzazione dell’anno scolastico ci sia il Sole. Quando la terra avrà compiuto quattro rivoluzioni intorno al Sole, il bimbo nato poco dopo il solstizio d’estate dovrà andare a scuola. Ma l’economia preme, così che molti cuccioli di homo sapiens vanno già a scuola dopo tre giri, mentre altri sono affidati ai nidi per l’infanzia anche prima di concludere il primo giro: sennò non si sopravvive.

Questo circuito planetario scandisce tutto il resto. Dopo quei primi due giri obbligatori si entrerà nella scuola elementare, dove si permarrà per cinque giri. Poi nuovo cambio, per altri quattro giri. Da lì in avanti ognuno potrà continuare a inventarsi qualcosa al termine di ogni giro. Se lo desidera e glielo concedono.

Correttezza vuole che non si taccia sulle penitenze: come un grande gioco dell’oca, capita che qualche poveretto sia costretto a fare dei giri di penalità, oggi chiamati “rallentamenti” (una volta si chiamavano “bocciature”, ma la sostanza è la stessa): perché durante il giro bisogna superare tante prove, così da poter accedere direttamente al giro successivo.

C’è poi un secondo aspetto, antropologico-religioso, che determina i tempi. Come è noto, nel Canton Ticino l’anno scolastico apre i battenti a inizio settembre e chiude a metà giugno, dopo aver totalizzato 36 settimane e mezza (sic) di frequenza effettiva. Tra la partenza e l’arrivo si prevedono – ci mancherebbe – alcune soste per prendere fiato. Una pausa ogni tot settimane, come imporrebbe la logica? Neanche per sogno.

C’è una decina di giorni di vacanza attorno a Pasqua. Ma chi determina la data della Pasqua? Le necessità di riposo di docenti e allievi? No! La Pasqua è il deus ex machina delle feste mobili (e del calendario scolastico). La Pasqua cade nella domenica seguente il primo plenilunio che viene dopo l’equinozio di primavera. Chiaro? No? Amen.

Va da sé che la Pasqua, nel suo alone luminoso, genera innumerevoli altre pause. È il Cielo che prescrive le vacanze di Carnevale, così come il seguito di feste ammucchiate entro metà giugno (Ascensione, Pentecoste e, a volte, Corpus Domini). E le altre vacanze? Ci sono le vacanze autunnali, più note come «vacanze dei morti», che cascano in corrispondenza con Ognissanti. Seguono le mitiche vacanze di Natale. Restano le date d’inizio e fine dell’anno scolastico, nonché gli orari settimanali, che variano – e aumentano – in base all’età e alla tradizione. In Ticino le vacanze estive durano quasi due mesi e mezzo. In molti altri cantoni, soprattutto della svizzera tedesca, non è così, ma non è il caso di farne un dramma.

Nell’ultimo mezzo secolo sono cambiate tante cose. Sta cambiando il clima, e molti edifici scolastici sono stati ideati per riscaldare d’inverno, ma non per rinfrescare già in marzo. E tra i cambiamenti ai quali la scuola dovrebbe essere sensibile c’è tutto il mondo del lavoro, la qualità e l’entità dei salari, gli orari e la pianificazione delle vacanze.

La scuola ticinese sospesa in una bolla temporale (l’Aula storica Franscini di Lugano in una fotografia di Marco Beltrametti).

Così il cosiddetto doposcuola è diventato per molti una necessità sociale ed economica, e le ore del doposcuola possono essere più di quelle della scuola, anche se non si è capito come mai tocchi alla scuola, almeno quella obbligatoria, occuparsi anche dei suoi tempi morti – la refezione, il doposcuola, le colonie estive. Eppure, era cominciato col doposcuola ricreativo e artistico-sportivo, quello dei corsi di ceramica, pittura, teatro…

Poi arrivò il cosiddetto doposcuola sociale, per custodire i figli di tanti immigrati, di mamme sole che il sole non lo vedono mai, di poveri cristi che spesso non conoscono la lingua italiana, di famiglie che non hanno parenti nel territorio in cui vivono, lavorano e mandano i figli a scuola. Così sono nati gli asili-nido, le mense, le colonie diurne e quelle stanziali. Eravamo nella seconda metà degli anni ’70 del secolo passato.

Che ci siano i tempi della scuola e quelli della custodia e della sorveglianza è ormai un dato oggettivo, con percentuali di diffusione che variano naturalmente da un posto all’altro. Tuttavia, una maggiore articolazione tra i due potrebbe generare risultati vantaggiosi non solo, come ora, per l’economia privata, ma anche per gli allievi. Non si scordi che bambini, ragazzi e adolescenti che devono far capo ai servizi di custodia nei tempi morti della scuola portano sul groppone un carico supplementare di vita “sociale” – un po’ come fare gli straordinari: magari, al rientro, con qualche compito a casa, tanto per rallegrare quel breve tempo in famiglia, quando tutti sono stanchi morti.

 

Scritto per Naufraghi/e

La prima parte di questo articolo è stata tratta, con alcune modifiche, da un altro post presente in Cose di scuola: La scuola, la tradizione cattolica e il culto del sole (18.06.2014).

La foto di Marco Beltrametti (l’Aula storica Franscini di Lugano) è tratta dal progetto fotografico Aule.

La scuola delle pari opportunità e della differenziazione

Nell’era di un piano di studio, autoritario e complesso, che finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione

Quando si parla si scuola, soprattutto di scuola dell’obbligo, piace a molti sciacquarsi la bocca con le pari opportunità e la differenziazione. Quasi mai si riesce a capire cosa si intenda per differenziazione. Le pari opportunità che si vorrebbero a scuola, invece, sono più esplicite. Di solito chi le evoca intende dire che a ogni allievo vengono garantite identiche condizioni di partenza: gli stessi programmi, gli stessi supporti didattici, gli stessi insegnanti (il prof. Zambelloni, una volta, osservò ironicamente che nella scuola coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi).

Ad esempio, Sergio Morisoli, oggi parlamentare UDC, scrisse che «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali (CdT 12.08.2012)». Circola una vignetta che, col dovuto cinismo, illustra questa diffusa versione delle pari opportunità. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane, e sullo sfondo un albero. Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio. Il compito è uguale per tutti: arrampicatevi sull’albero». È quel che succede a scuola. Un mese dopo l’inizio dell’anno scolastico c’è già chi arranca, non capisce, resta indietro. Poi arriveranno gli specialisti, i genitori saranno convocati e sentiranno dirsi che il pargolo ha tante difficoltà. Magari a fine anno sarà bocciato (oggi si dice «rallentato»), e l’anno dopo dovrà rifare anche quel che aveva già imparato.

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

Rivolgendosi alla politica per contraddire quella sorta di mainstream che si è appropriato di due parole – pari opportunità – per farne un comodo alibi, continuava così: «Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare».

L’attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo richiama una dichiarazione d’intenti della Conferenza intercantonale dell’istruzione pubblica della Svizzera romanda e del Ticino, che, tra tante enunciazioni, afferma che «La Scuola pubblica assume compiti di educazione e di trasmissione di valori sociali, tra i quali la promozione delle pari opportunità a livello di riuscita scolastica». Un dichiarazione per lo meno ambigua, soprattutto alla luce delle quasi 300 pagine che dovrebbero contestualizzare gli obiettivi della scuola obbligatoria attraverso i «piani disciplinari», le sue «aree» e le sue materie.

I programmi delle scuole obbligatorie del 1959 – Scuola elementare e maggiore, scuola di economia domestica e di avviamento professionale – di pagine ne avevano 74. E così introducevano il discorso: «Un programma non può essere che uno schema offerto all’insegnante perché lo trasformi in cosa compiuta e viva». Diciamo che c’era una diversa stima degli insegnanti e dei loro allievi.

Ora invece siamo confrontati con un piano di studi velleitario e illusorio, che ha bisogno, per funzionare in qualche modo, di tante figure professionali che si accalcano nelle aule, frammentano le competenze, diluiscono le responsabilità. Nella scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico, di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, psicologi, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che dovrebbe essere il vero regista di ciò che succede nella sua aula. Invece quel Piano di studio, autoritario e complesso, finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione, per chi deve insegnare e per chi deve apprendere. Vedremo presto se ci saranno la volontà politica e la capacità e di ricreare una scuola serena, in cui insegnare e imparare tornino a essere momenti da ricordare per tutta la vita con almeno un po’ di piacere.

Scritto per Naufraghi/e

Nel mio blog si trovano numerosi articoli sul tema delle pari opportunità nella scuola. Alcuni sono stai pubblicati su giornali o riviste (soprattutto nella rubrica «Fuori dal’aula», che ho firmato sul Corriere del Ticino per quasi vent’anni). Altri sono apparsi solo nel blog. Tra questi mi piace richiamare Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità? (16.05.2016).

Qual è il senso di ricordare Summerhill?

Philippe Meirieu, nella sua Petite histoire des pédagogues, lo liquida in poche righe:

Alexander Sutherland Neill (1883-1973): figura emblematica della pedagogia libertaria, fondatore, nel 1921, della scuola di Summerhill in Inghilterra. Fecero scandalo, all’epoca, le sue opzioni molto “liberali” in tema di sessualità. Neill è un discepolo di Rousseau e di Reich: crede nella natura fondamentalmente buona e dinamica del bambino. Istituisce una “scuola” basata sulle libere scelte dell’allievo, che decide dei suoi apprendimenti e beneficia dell’aiuto del “maestro” solo su sua richiesta.
Neill fu però costantemente confrontato con la questione dell’autorità: Bruno Bettelheim disse di lui che la sua personalità era così forte e affascinante che i suoi allievi, per ottenere la sua stima, avrebbero fatto qualunque cosa! In realtà Neill, più che fondare una “pedagogia”, creò solo un “luogo di educazione” il cui successo fu essenzialmente dovuto alla sua persona (alcuni avrebbero detto: “alla sua ditta”).

Il 1921 è stato anche il centenario di Summerhill, la scuola fondata da Neill pochi mesi dopo la nascita della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, di cui lo stesso pedagogista scozzese fu tra i fondatori durante il congresso di Calais in agosto.

Il collega Enrico Bottero ha ben sintetizzato il clima di quegli anni in un suo intervento su RAI Scuola del novembre scorso.

Siamo alla fine dell’800, inizi del ’900. Nascono la scuola sperimentale a Chicago promossa da John Dewey, le scuole montessoriane, la scuola di Abbotsholme in Inghilterra, l’École des Roches in Francia, gli internati di campagna di Hermann Lietz in Germania. Erano, tutti questi, educatori diversi tra di loro: c’erano teosofi, socialisti, anarchici, libertari, liberali, credenti e non credenti: ma li univa la critica radicale della pedagogia tradizionale, la critica a un’educazione libresca e autoritaria, la separazione tra scuola e vita. Li univa una certa istanza naturalista, vitalista, il pacifismo, la necessità della co-educazione tra i sessi, il cosmopolitismo.

Qual è il senso di ricordare oggi Alexander S. Neill? Scarso, se solo si pensa ad altre esperienze pedagogiche che sono giunte fino a noi, pur faticando – inconcepibilmente! – a diffondersi nella scuola pubblica europea, benché, già in quegli anni tra le due guerre, tra i sostenitori di un’Educazione nuova c’era un dibattito acceso tra chi aspirava a una scuola ideale, al di fuori della scuola pubblica, e chi, invece, puntava a portare le innovazioni al cuore della scuola pubblica. Neill apparteneva certamente ai primi, tanto da fondare la sua scuola, che chiamò «Summerhill».

Alexander S. Neill e la scuola di Summerhill.

Summerhill e il suo fondatore ebbero un momento di successo attorno al Sessantotto. Nel 1971 Neill pubblicò Summerhill – Il metodo per progredire nell’educazione dei figli. Sembrava un testo fatto apposta per i cambiamenti di cui la scuola aveva bisogno: l’anti-autoritarismo, la “fantasia” al potere, la cooperazione, le arti, la libertà, il sesso, la religione, la morale.

Questa è la storia di una scuola moderna: Summerhill è stata fondata nel 1921. La scuola è situata nelle vicinanze del villaggio di Leiston, nel Suffolk, a circa cento miglia da Londra.
Poche parole sui ragazzi che la frequentano. Alcuni entrano all’età di cinque anni, altri a quella di quindici. Di solito rimangono fino all’età di sedici anni. In media abbiamo venticinque ragazzi ed una ventina di ragazze.
Vengono divisi in tre gruppi a seconda dell’età: i più giovani hanno dai cinque ai setti anni, il gruppo intermedio è formato da quelli che hanno dai sette agli undici anni, gli anziani sono i ragazzi dagli undici ai sedici anni.
Generalmente molti ragazzi provengono da Paesi stranieri. Quest’anno (1960) ci sono fra di noi cinque scandinavi, un olandese, un tedesco, un americano.
I ragazzi vengono alloggiati tenendo conto dell’età e ad ogni gruppo è preposta una assistente. Il gruppo di mezzo alloggia in una costruzione di pietra, gli anziani in casette di legno. Solo un paio dei ragazzi più anziani dispongono di una camera tutta per loro. Gli altri vivono in tre o quattro per stanza e lo stesso vale per le ragazze. Gli allievi non devono subire alcuna ispezione alla camera e nessuno li sorveglia. Vengono lasciati completamente liberi. Nessuno dice loro come debbano vestirsi: in ogni momento possono indossare quello che vogliono.

Si intuisce da queste poche righe che Summerhill, il progetto libertario che ispirò questa scuola, ha più punti in comune con l’Ivan Illich di Descolarizzare la società che, poniamo, con l’opera pedagogica di Célestin Freinet.

Nel frattempo è passato un secolo. L’Educazione Nuova continua a essere una scelta di nicchia. Di Neill e di Summerhill se ne ricordano solo alcuni maestri nati attorno agli anni ’50 e qualche nostalgico di una rivoluzione, o anche solo una seria riforma, che non arrivò mai.

Forse qualcuna delle idee libertarie di Summerhill non farebbero male a una scuola che continua, imperterrita, a riprodursi sempre uguale a sé stessa, decennio dopo decennio. Magari porterebbe un po’ di serenità, un momento di rottura tra un prima e un dopo.

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Note

La citazione di Enrico Bottero è tratta da L’Educazione Nuova a cento anni dal Congresso di Calais – Intervista a Enrico Bottero e Pietro Lucisano (RAI Scuola, novembre 2021).

ALEXANDER S. NEILL, Summerhill – Il metodo per progredire nell’educazione dei figli, 1971, Forum Editoriale, con prefazione di Erich Fromm. Titolo originale: Summerhill, a radical approach to child rearing. All’interno del volume, dopo l’introduzione dell’autore, compare pure un altro titolo: »Summerhill« una proposta contro la società repressiva. La breve citazione è tratta dall’incipit (L’idea di Summerhill, p. 9).