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Gli obbligati scacciati, un ossimoro della scuola dell’obbligo

L’art. 6 della Legge della scuola ticinese, che risale all’ormai lontano 1990, recita, al primo paragrafo, che La frequenza della scuola è obbligatoria per tutte le persone residenti nel Cantone, dai quattro ai quindici anni di età.

La regola ha radici lontane, tanto che il Parlamento che varò la prima scuola obbligatoria di questo cantone – 4 giugno 1804 – la limitò a quattro articoli, che insistevano proprio sulla decisione di renderla obbligatoria.

Sono passati due secoli e un po’. La scuola dell’obbligo, ormai, fa parte delle consuetudini, come la grippe. Si noti il preambolo di quella legge: «… la felicità di una Repubblica ben costituita deriva principalmente dalle savie istituzioni, e da una buona educazione; mentre da uomini bene educati si può sperare ogni bene, e dalla ignoranza nascono tutt’i vizj, e disordini».

Erano le preoccupazioni di 200 anni fa.

Di quell’epoca la scuola contemporanea rammenta e tiene saldo il calendario scolastico, anche se sugli alpi e nei campi finiscono solitamente lavoratori stranieri.

Nel maggio 2011 avevo pubblicato in Fuori dall’aula, la mia rubrica sul Corriere del Ticino, un articolo che aveva preso spunto da una decisione del Parlamento zurighese, che aveva inasprito le norme sull’espulsione da adottare per gli scolari più indisciplinati, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Il titolo era un po’ sciocco – Quando la scuola non sa più che pesci pigliare – non così, mi pare, il contenuto.

Quell’invito alla riflessione mi è venuto in mente davanti al progetto La scuola che verrà. È probabile che la sperimentazione slitterà di un anno: non è ancora certo, ma è stato lanciato un referendum, si vedrà a giorni se riuscito (v. Ecco perché «La scuola che verrà» è un progetto progressista).

Stavo per scrivere che il referendum è stato lanciato da partiti e movimenti di destra e centro-destra, che ora la menano nel dire che tanti docenti hanno contribuito a raccogliere le 7’000 firme necessarie per demandare alle urne il verdetto finale. Purtroppo è vero. Ma non erano tutti progressisti, i docenti?

Ho letto, nei giorni scorsi,  l’ultimo romanzo di Petros Markaris, L’università del crimine (2018, Milano: La nave di Teseo). Mi ha colpito un ironico dialogo, a pagina 265, tipico di quest’autore non certamente di destra:

Ho fatto una scommessa con me stesso: cerco di trovare una manifestazione che non abbia come obiettivo una semplice protesta, che non venga indetta per la difesa di diritti acquisiti, ma abbia un carattere costruttivo. […] Ai miei tempi, le manifestazioni si facevano per cambiare il regime, per abbattere lo stato di polizia, per avere maggiore democrazia… Oggi le manifestazioni e i cortei si fanno perché nulla sia cambiato. Ecco quindi che vengo a vedere, con la speranza vana di trovare una manifestazione o un corteo che abbia, come obiettivo, il cambiamento.

Da un comunicato del Sindacato dei servizi pubblici e sociosanitari: I docenti VPOD danno il loro sostegno alla sperimentazione del modello dipartimentale La Scuola che Verrà. «Questo modello – scrivono in una nota stampa del 30 marzo – è il frutto di una lunga consultazione tra il Dipartimento DECS e le componenti della scuola, tra cui i sindacati. Dopo una prima stesura, che conteneva forti criticità, il DECS è stato capace di porvi rimedio, ascoltando le critiche e apportando i grossi correttivi richiesti dai docenti».

Mettere le valutazioni e la selezione in secondo piano è una criticità anche a sinistra. Chissà perché? Vattelapesca.

Siamo ancora a quel che diceva Don Milani: «Una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani».


P. S.: se poi qualcuno, giunto a questo punto, avesse ancora qualche minuto, consiglio di leggere un altro mio articolo del 2011, sempre nella stessa rubrica del medesimo quotidiano: «Pestalozzi! Chi era costui?», ruminava tra sé il giovane maestro. È un articolo correlato col primo, quello sull’espulsione degli allievi, dove si parla di Johann Heinrich Pestalozzi, quell’allievo di Jean-Jacques Rousseau che l’inclusione la sperimentò sul serio (senza dare le note).

Ecco perché «La scuola che verrà» è un progetto progressista

L’articolo sottostante, col titolo (redazionale) Si tratta di un progetto liberal e non è per nulla… socialista, è apparso sul domenicale ilCaffè dell’8 aprile nel contesto di un confronto a due voci sul progetto La scuola che verrà e sulla raccolta di firme contro il credito concesso dal Parlamento per l’inizio della fase sperimentale a partire dal prossimo anno scolastico.

Va da sé: la raccolta di firme, che, se riuscisse, sottoporrebbe a referendum la risoluzione del Gran consiglio, è solo formalmente contro la concessione del credito, perché in realtà intende affossare l’intero progetto – ciò che i promotori del referendum non hanno nascosto in sede parlamentare.


Manuele Bertoli avrà anche lui qualche difetto, come tutti; ma non lo si può accusare di essere tronfio e megalomane. È un uomo che ha molto a cuore la scuola pubblica e obbligatoria: la conosce bene, perfino dal profilo istituzionale e pedagogico. Il progetto La scuola che verrà intende concretizzare le finalità che il Parlamento aveva dichiarato nel 1990: La scuola promuove lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà. È un progetto umanistico, ispirato ai più alti valori repubblicani. Chi dice che si tratta di un progetto socialista – e calca su quell’aggettivo come se fosse un insulto – è in malafede. La scuola che verrà è un progetto liberal, nel senso anglosassone del termine. Se davvero si vuol credere che questa riforma è socialista, allora si deve convenire che Pestalozzi, illuminista ed erede di Rousseau, era un brigatista rossissimo.

Altrettanto scorretta è l’equazione secondo cui il fatto di voler portare ogni allievo al limite estremo delle sue possibilità equivale a un inevitabile abbassamento del livello medio della scuola. Il sociologo Walo Hutmacher aveva pubblicato nel 2012 un’interessante riflessione. Scriveva che «le pari opportunità fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva. Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare: è esattamente ciò che comincia a essere intollerabile, tanto dal punto di vista dell’efficacia, quanto da quello dell’equità».

È l’obiettivo nobile del progetto di Bertoli.

Al posto del nostro ministro dell’educazione io non mi sarei fidato troppo di certi compromessi coi partiti. Ad esempio non avrei ceduto sull’abolizione della soglia minima per l’accesso al liceo. Ma, per la fortuna del Paese, non sono un governante e posso quindi fare a meno di quel forse utile pragmatismo.


L’articolo di Walo Hutmacher, da cui ho tratto la citazione in una mia libera traduzione, è apparso sul numero speciale della rivista Éducateur del 24 febbraio 2012, pubblicato in occasione del centenario di fondazione dell’Institut Jean-Jacques Rousseau, che nel 1975 sarebbe diventato la Facoltà di psicologia e di scienze dell’educazione dell’Università di Ginevra (Les bâtisseurs du «siècle de l’enfant» | Cent ans de recherches et d’innovations pédagogiques).

Qui è possibile scaricare l’articolo integrale e originale, intitolato Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé (p. 64-66).


La raccolta di firme è relativa alla risoluzione del parlamento del 12 marzo 2018. L’oggetto in questione è il Messaggio 7339 del 05.07.2017 concernente la «Concessione di un credito quadro di fr. 5’310’000.- per la sperimentazione del progetto La scuola che verrà». A questo indirizzo sono disponibili i documenti ufficiali.

Infine quest’altro indirizzo propone i dettagli della votazione del Gran consiglio.

Un paio di idee per inventare gli insegnanti di domani

Nell’ultimo rapporto annuale della SUPSI, pubblicato in settembre, c’è un interessante contributo del direttore, allora uscente, del DFA. Il titolo anticipa i temi e accende l’interesse: «Le sfide della formazione degli insegnanti nei prossimi (20) anni». Michele Mainardi non schiva l’oliva e chiarisce il contesto che ci attende: «Le sfide della formazione saranno dettate dalla capacità di avvicinare il soggetto in formazione, unico e diverso, con tipologie familiari nuove, con vissuti, percorsi, storie e traiettorie significativamente diversi fra loro, aspetti tutti di una società globale, liquida, in movimento, che caratterizzeranno sempre più i referenti linguistici, culturali esperienziali individuali e quindi le conoscenze pregresse, gli interessi e le attese che ognuno porta a scuola».

Non sembra, eppure è la descrizione della situazione in cui agiscono i docenti già oggi, benché assai spesso ostacolati da un loro diffuso conservatorismo e dalle risposte dei piani alti della politica scolastica, che quasi mai riescono a proporre soluzioni che possano giovare agli allievi, alle loro famiglie e, in definitiva, al Paese.

Quali possano essere le risposte concrete, in materia di formazione dei docenti, per far fronte ai nuovi assetti socio-culturali, è naturalmente un altro discorso. E lo sa anche Mainardi, che annota: «Nell’universo digitale della rete del “2037”, le possibilità concrete che i docenti avranno di assistere, condividere e se del caso mediare/orientare personalmente l’esperienza individuale di bambini e adolescenti nel loro rapporto esclusivo, particolare e intimo con la realtà accessibile non è dato di sapere. Oggi tali possibilità sono molto limitate! Le interazioni con l’universo accessibile via e con l’ambiente digitale sono in ogni caso esperienze mediate, ma non per forza formative. Lo saranno? Sarà possibile renderle tali, riconoscerle, generarle in forma massiccia e valida?»

Reputo che non esistano spazi per dare risposte utili ed efficaci, se lo Stato e la politica – sindacati e associazioni di categoria compresi – continueranno a conservare a oltranza l’organizzazione del lavoro che conosciamo bene, proprio perché tutti noi ci siamo passati (e, prima di noi, i nostri trisnonni). L’insegnante che sa tutto, capace di fare tutto quel che professionalmente occorrerebbe sapere e fare, non esiste. Sarebbe come immaginare che il neurochirurgo si avventuri da solo in sala operatoria. Credere che la didattica e i piani di studio siano in grado, da soli, di rispondere ai grandi quesiti posti da Mainardi è una sciocchezza.

Volendo, si può supporre che serva un’impostazione diversa della professione. Per cominciare non deve più succedere che un insegnante sia il padrone onnipotente e indiscutibile delle sue valutazioni e delle sue scelte pedagogiche e didattiche. Forse è giunto il momento di dire a chiare lettere che allievi e studenti della scuola dell’obbligo devono essere affidati a équipe di insegnanti muniti di ricche competenze pedagogiche e disciplinari, che si completano e si arricchiscono a vicenda. Poi si dovrebbe riconsiderare il titolo che abilita all’insegnamento, affinché non sia più unico e definitivo: oltre a una chiara data di scadenza, da aggiornare con regolarità, si potrebbero immaginare livelli differenziati di competenza, per innalzare la qualità dell’insegnamento e, nel contempo, per creare una sana ed efficace mobilità professionale.


Qui è possibile scaricare il citato articolo dell’allora direttore del DFA.

L’attualità di don Milani, malgrado le censure di mezzo secolo fa

A cinquant’anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani (1923-1967), «Dialoghi», il bimestrale di riflessione cristiana diretto da Enrico Morresi, ha allegato al n° 248 dell’ottobre 2017 un interessante quaderno curato da Aldo Lafranchi: don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità. L’autore prende le mosse dal libro Tutte le opere di Lorenzo Milani, edito in maggio dall’editore Mondadori.

Non si tratta, come ci si poteva pur attendere, di un comune saggio a cavallo tra la deferenza e la celebrazione, bensì di un tentativo di restituire la complessa figura di questo prete anomalo, con diversi contributi di rilievo rispetto alla conoscenza più diffusa. In tal senso Lafranchi si attiene strettamente agli scritti di don Lorenzo, realizzando una personale scelta di brani, raggruppati in alcuni momenti significativi: gli anni verdi, il ministero pastorale, la Scuola Popolare, la scrittura al servizio della lotta alle ingiustizie sociali… Scrive nell’introduzione: «Il presente lavoro è offerto a chi, sui dati biografici di don Lorenzo, è fermo a Lettera a una professoressa, alle due lettere, ai cappellani militari e ai giudici, a “l’obbedienza non è più una virtù” e al castigo dell’isolamento a Barbiana. L’intento è di mettere a profitto i due volumi di Tutte le opere per spalancare le finestre sulla vita di un uomo promesso a un fascino particolare».

Faccio parte della (probabilmente) lunga schiera di ignoranti che conoscono don Milani attraverso la Lettera e poco più, ciò che, tuttavia, non mi fa sprofondare dalla vergogna. A differenza di altri, la Lettera ce l’ho ancora sotto mano – conservo gelosamente una copia acquistata nel 1976 – e, già allora, l’avevo letta tutta. Mi occupo e mi sono occupato di don Milani per il suo contributo involontario alla storia delle idee pedagogiche, un impegno che possiede ancor oggi una grande tensione etica: perché la scuola dell’obbligo non può avere lo scopo di selezionare le future élite, e nemmeno di legittimarle, neanche fosse l’infallibile depositaria del destino di ognuno.

Eppure, più o meno da sempre, si sono letti attacchi durissimi contro le sue idee e i suoi sostenitori – che, detto per inciso, è difficile capire se siano tanti o pochi.

All’esame scritto di pedagogia, in quella ormai lontana primavera del 1974 che mi avrebbe consegnato la patente di maestro di scuola elementare, mi toccò un tema tratto dalla «Lettera a una professoressa»: Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. Non saprei neanche dire se questo autore fosse stato trattato specificamente negli anni della formazione. Già l’anno d’acquisto del volume confermerebbe questa ipotesi; ricordo, in IV magistrale, il Rapporto sulle strategie dell’educazione (più noto come Rapportro Faure), e poi Jean-Jacques Rousseau e l’Emilio, John Dewey, Édouard Claparède (L’educazione funzionale), Jerome Bruner (Verso una teoria dell’istruzione, mi pare).

Di bocciature e di “pari” opportunità

Il tema della bocciatura è ben presente in don Milani e in tanti autori prima di lui. Non è dunque chissà quale novità nel contesto della storia delle idee pedagogiche – con la precisazione che la Lettera, attribuita ai ragazzi della scuola di Barbiana, non è intenzionalmente un saggio di pedagogia, bensì si configura come un duro attacco alla scuola italiana di quegli anni e al potere politico che l’aveva istituita e che la governava.

In altri scritti che compaiono nel mio blog ho più volte parlato del tema della bocciatura, che ha a che fare con l’indifferenza alle differenze e col primato dell’insegnamento, che dovrebbe avere il sopravvento su ogni forma di esclusione e di certificazione durante la scuola dell’obbligo. Sappiamo fin troppo bene come a creare l’insuccesso scolastico ci sia una lunga serie di variabili che si preferisce omettere, ipocritamente, quando si parla dell’organizzazione della scuola – e di quella pubblica e obbligatoria in particolare. Con il comodo alibi delle pari opportunità si sorvola sulla possibilità che l’insegnante non sia all’altezza dei suoi compiti, che i programmi scolastici non siano un dogma, che gli strumenti per la valutazione (i test e le loro scale di misurazione) siano assolutamente soggettivi e parziali.

Quel che non si dice e non si cita

Come una specie di nemesi, gli slanci pedagogici di don Milani sono stati costretti a pagare tributi importanti sin dalla loro pubblicazione. Sono convinto che ciò sia accaduto, e continua ad accadere, perché della scuola di Barbiana si cita solo ciò che fa comodo, tralasciando invece importanti passaggi che avrebbero infastidito, già nel ’68 e dintorni, chi impugnava don Lorenzo come un vessillo rivoluzionario e anche chi, oggi (ma sempre meno), ne fa una bandiera senza conoscere il testo di riferimento: che non è universale, ma è radicato nell’Italia di quegli anni, dopo il fascismo, con la questione meridionale del tutto irrisolta, il peso della chiesa cattolica e le tensioni tra democristiani e comunisti. In realtà la professoressa del titolo non era un’insegnante qualsiasi, bensì il prototipo dell’insegnante di quella scuola pubblica e di quegli anni – e forse tutt’altro che estinta.

Ecco, per esemplificare, qualche passaggio della Lettera che in quegli anni là non era citato, perché sicuramente non avrebbe fatto comodo, col rischio di far seppellire da una risata la Lettera tutt’intera: com’era d’uso.

Maestri disoccupati. Si sente lamentare che c’è troppi maestri. Non è vero. È che quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti. [pag. 113]

Processo penale. Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola. Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. (…) Ora invece siamo «a scuola». (…) C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro. [pag. 127-8]

Pieno tempo e famiglia. La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. (…) L’altra soluzione è il celibato. [pag. 86]

Pieno tempo e diritti sindacali. C’è capitato in mano un giornaletto sindacale per insegnanti: «No all’aggravio dell’orario di cattedra! Ci sono state battaglie sindacali memorabili per fissare l’obbligo orario e sarebbe assurdo tornare indietro». Ci ha messo in imbarazzo. A rigore non possiamo dir nulla. Tutti i lavoratori lottano per ridurre l’orario e hanno ragione. Ma il vostro è un orario indecente. [pag. 88]

Più ciechi ancora. Il professore più a sinistra l’ho sentito parlare per l’Associazione Insegnanti e Famiglie. A proposito di doposcuola gli scappò detto: “Ma voi non sapete che io faccio 18 ore di scuola la settimana!”. La sala era piena di operai che si levano alle quattro per il treno delle 5.39. Di contadini che, d’estate, 18 ore le fanno tutti i giorni. Nessuno rispose, né sorrise. Cinquanta sguardi impenetrabili lo fissavano in silenzio.

Dicesi maestro. Una sola compagna mi parve un po’ elevata. Studiava per amore dello studio. Leggeva dei bei libri. Si chiudeva in camera a ascoltare Bach. È il frutto massimo cui può aspirare una scuola come la vostra. A me invece m’hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo. «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo». [pag. 110]

Le riforme che proponiamo. Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme. I – Non bocciare. II – A quelli che sembrano cretini dategli la scuola a pieno tempo. III – Agli svogliati basta dargli uno scopo. [pag. 80]

Vorrei che fosse chiaro: non credo che alla scuola servano insegnanti celibi e nubili. Non ho mai creduto nella vocazione o nella missione. Ma è fondamentale, credo, decidere di voler fare l’insegnante come contributo al benessere democratico e culturale e alla crescita del Paese e ricevere una formazione che parta dal ruolo istituzionale del maestro di scuola, che approfondisca e delinei i suoi compiti deontologici. A partire da lì sarà poi possibile riempire la cassetta degli attrezzi con tutti gli strumenti didattici più adeguati per raggiungere le vere finalità della scuola.

Per restare al tema della bocciatura, non ho mai creduto alla nota politica. Non è che se certifico una conoscenza inesistente faccio un favore all’allievo e al paese. «Dell’«insegnante di greco molto odiato ma i cui allievi imparano il greco bene», don Lorenzo si limita a prendere atto che la funzione del professore è di insegnare il greco, non d’essere amato…» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9].

Sante parole, forse è il caso di dirlo.

A scuola non servono paladini della vocazione, ma professionisti preparati e motivati

Quanto alle tante stilettate inferte alla professoressa e, più in generale, all’establishment del tempo, non si tratta, né oggi né ieri, di farne una questione sindacale, riducendo il tutto a ore e giorni di presenza a scuola. Nondimeno, prima o poi, converrà riflettere anche sulla distribuzione del tempo di un anno tra quello educativo e formalmente istruttivo rispetto ai compiti di semplice sorveglianza e di formazione-educazione del tutto informale. Perché potrebbe anche essere che riempire i tempi delle pause scolastiche con ogni sorta di attività para e/o dopo scolastica si traduca in definitiva in un uso poco intelligente del tempo disponibile per crescere bene.

Don Milani condusse la sua battaglia per l’uguaglianza affinché i suoi ragazzi capissero il Vangelo. «Ho l’incarico di predicare il Vangelo. Predicarlo in greco non si può perché non intendono. Sicché bisogna predicarlo in italiano, ma i miei parrocchiani l’italiano non l’intendono. Trovo l’ostacolo della lingua e alla lingua mi dedico. Considerando lingua tutti i problemi della scuola» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9]. Era importante che capissero l’italiano, non solo come puro e semplice utensile comunicativo, ma come strumento complesso che comprende la cultura in tutte le sue accezioni. Anche la scuola dello Stato ha un suo vangelo, sperando che sia assolutamente laico.


Riferimenti

ALDO LAFRANCHI, Don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità, Quaderno speciale allegato a «Dialoghi», N° 248, ottobre 2017, p. 32 | Il quaderno può essere richiesto alla redazione di «Dialoghi», all’indirizzo allinyg@hotmail.com (la spesa è di 14 franchi).

RUOZZI, A. CANFORA, V. OLDANO, Tutte le opere di Lorenzo Milani, 2017, Milano: Mondadori (collana I Meridiani), EAN 9788804657460, 2 volumi, pagine CXXXVII-2809, 140 €

SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina

I nuovi piani di studio tra competenze e contraddizioni

Come sanno tutti quelli che, per un verso o per l’altro, hanno a che fare con la scuola dell’obbligo, il famoso accordo intercantonale che armonizza i percorsi formativi nei diversi cantoni porta con sé il nuovo piano di studio, che ha tra le novità più inquietanti e vistose l’insegnamento per competenze. Enigmatico? Sì e no. È già un pregio l’idea di far strame del vecchio nozionismo, che ha resistito ai venti impetuosi del ’68, con l’ubriacatura dei «saper essere» e «saper fare». Diciamo che è difficile definire cosa sia una competenza, al di là delle dotte esegesi pedagogiche di chi ha redatto il corposo volume. D’altra parte diversi sistemi scolastici del mondo occidentale sono stati sedotti dall’insegnamento per competenze, soprattutto da quando tanti organismi internazionali ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Mi intriga la possibilità di organizzare l’insegnamento attraverso tematiche pedagogiche e didattiche marcatamente interdisciplinari. A pensarci bene, già Rousseau dispensava al suo Emilio un insegnamento che mirava alle competenze, così come Pestalozzi, che era notoriamente sensibile alle diverse dimensioni educative (la testa, il cuore, le mani). Anche la cosiddetta Scuola attiva aspirava a superare il nozionismo, utile più a chi dà le note che a chi le riceve, per affrontare percorsi pedagogico-didattici fortemente interdisciplinari, con tutte le loro ricchezze umane e umanistiche, efficaci anche sul piano delle conoscenze fondamentali.

In approcci di questo tipo, nondimeno, c’è un rovesciamento delle prospettive che guidano gli anni scolastici e le diverse programmazioni, a partire proprio dal tema della valutazione. Insegnare per competenze pone problemi di valutazione di non poco conto. In un’impostazione pedagogica di tal fatta non c’è posto per la tradizionale tiritera di prove di varia foggia, che scandiscono le settimane e i mesi, diventando in definitiva più importanti di ciò che si vuol valutare e inducendo negli allievi l’attitudine meschina che li obbliga a studiare per i test e non per gli apprendimenti sontuosi che la scuola saprebbe regalare. Insegnare per competenze significa in primo luogo privilegiare l’educazione e la costruzione di conoscenze e di cultura, nell’accezione più ampia del termine, rispetto alla misurazione insulsa di qualche nozione.

Cité des sciences et de l’industrie (Paris)

C’è poco da fare: la valutazione classica, coi continui esami e le inevitabili medie, fa a pugni con un insegnamento per competenze. «Non si fa matematica da soli», ho letto di recente su un pannello, in un’esposizione divulgativa sulla matematica. E poco più in là: «Se un problema è veramente affascinante, ce lo rigiriamo in testa senza sosta». Come sarebbe bello poter insegnare così la matematica – e non solo – attraverso problemi avvincenti e intrattabili, da affrontare in gruppo come sfida intellettuale, col solo gusto di venirne a capo e la fierezza della vittoria. Un approccio pedagogico del genere sarebbe coerente con la dichiarazione d’intenti del nuovo piano di studio e favorirebbe nel contempo la crescita rigogliosa di competenze disciplinari, che sono complesse per definizione, e di tangibili empatie civiche. Si può dissentire? Certo che sì. Ma esprimere una valutazione scolastica, a queste condizioni, diventa un bel problema. Sarebbe una catastrofe non saper rinunciare alla necessità di dover dare una nota scolastica a ogni costo, magari frazionando la competenza in tante nozioni misurabili, per poi ricavarne una stupida media.