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L’attualità di don Milani, malgrado le censure di mezzo secolo fa

A cinquant’anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani (1923-1967), «Dialoghi», il bimestrale di riflessione cristiana diretto da Enrico Morresi, ha allegato al n° 248 dell’ottobre 2017 un interessante quaderno curato da Aldo Lafranchi: don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità. L’autore prende le mosse dal libro Tutte le opere di Lorenzo Milani, edito in maggio dall’editore Mondadori.

Non si tratta, come ci si poteva pur attendere, di un comune saggio a cavallo tra la deferenza e la celebrazione, bensì di un tentativo di restituire la complessa figura di questo prete anomalo, con diversi contributi di rilievo rispetto alla conoscenza più diffusa. In tal senso Lafranchi si attiene strettamente agli scritti di don Lorenzo, realizzando una personale scelta di brani, raggruppati in alcuni momenti significativi: gli anni verdi, il ministero pastorale, la Scuola Popolare, la scrittura al servizio della lotta alle ingiustizie sociali… Scrive nell’introduzione: «Il presente lavoro è offerto a chi, sui dati biografici di don Lorenzo, è fermo a Lettera a una professoressa, alle due lettere, ai cappellani militari e ai giudici, a “l’obbedienza non è più una virtù” e al castigo dell’isolamento a Barbiana. L’intento è di mettere a profitto i due volumi di Tutte le opere per spalancare le finestre sulla vita di un uomo promesso a un fascino particolare».

Faccio parte della (probabilmente) lunga schiera di ignoranti che conoscono don Milani attraverso la Lettera e poco più, ciò che, tuttavia, non mi fa sprofondare dalla vergogna. A differenza di altri, la Lettera ce l’ho ancora sotto mano – conservo gelosamente una copia acquistata nel 1976 – e, già allora, l’avevo letta tutta. Mi occupo e mi sono occupato di don Milani per il suo contributo involontario alla storia delle idee pedagogiche, un impegno che possiede ancor oggi una grande tensione etica: perché la scuola dell’obbligo non può avere lo scopo di selezionare le future élite, e nemmeno di legittimarle, neanche fosse l’infallibile depositaria del destino di ognuno.

Eppure, più o meno da sempre, si sono letti attacchi durissimi contro le sue idee e i suoi sostenitori – che, detto per inciso, è difficile capire se siano tanti o pochi.

All’esame scritto di pedagogia, in quella ormai lontana primavera del 1974 che mi avrebbe consegnato la patente di maestro di scuola elementare, mi toccò un tema tratto dalla «Lettera a una professoressa»: Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. Non saprei neanche dire se questo autore fosse stato trattato specificamente negli anni della formazione. Già l’anno d’acquisto del volume confermerebbe questa ipotesi; ricordo, in IV magistrale, il Rapporto sulle strategie dell’educazione (più noto come Rapportro Faure), e poi Jean-Jacques Rousseau e l’Emilio, John Dewey, Édouard Claparède (L’educazione funzionale), Jerome Bruner (Verso una teoria dell’istruzione, mi pare).

Di bocciature e di “pari” opportunità

Il tema della bocciatura è ben presente in don Milani e in tanti autori prima di lui. Non è dunque chissà quale novità nel contesto della storia delle idee pedagogiche – con la precisazione che la Lettera, attribuita ai ragazzi della scuola di Barbiana, non è intenzionalmente un saggio di pedagogia, bensì si configura come un duro attacco alla scuola italiana di quegli anni e al potere politico che l’aveva istituita e che la governava.

In altri scritti che compaiono nel mio blog ho più volte parlato del tema della bocciatura, che ha a che fare con l’indifferenza alle differenze e col primato dell’insegnamento, che dovrebbe avere il sopravvento su ogni forma di esclusione e di certificazione durante la scuola dell’obbligo. Sappiamo fin troppo bene come a creare l’insuccesso scolastico ci sia una lunga serie di variabili che si preferisce omettere, ipocritamente, quando si parla dell’organizzazione della scuola – e di quella pubblica e obbligatoria in particolare. Con il comodo alibi delle pari opportunità si sorvola sulla possibilità che l’insegnante non sia all’altezza dei suoi compiti, che i programmi scolastici non siano un dogma, che gli strumenti per la valutazione (i test e le loro scale di misurazione) siano assolutamente soggettivi e parziali.

Quel che non si dice e non si cita

Come una specie di nemesi, gli slanci pedagogici di don Milani sono stati costretti a pagare tributi importanti sin dalla loro pubblicazione. Sono convinto che ciò sia accaduto, e continua ad accadere, perché della scuola di Barbiana si cita solo ciò che fa comodo, tralasciando invece importanti passaggi che avrebbero infastidito, già nel ’68 e dintorni, chi impugnava don Lorenzo come un vessillo rivoluzionario e anche chi, oggi (ma sempre meno), ne fa una bandiera senza conoscere il testo di riferimento: che non è universale, ma è radicato nell’Italia di quegli anni, dopo il fascismo, con la questione meridionale del tutto irrisolta, il peso della chiesa cattolica e le tensioni tra democristiani e comunisti. In realtà la professoressa del titolo non era un’insegnante qualsiasi, bensì il prototipo dell’insegnante di quella scuola pubblica e di quegli anni – e forse tutt’altro che estinta.

Ecco, per esemplificare, qualche passaggio della Lettera che in quegli anni là non era citato, perché sicuramente non avrebbe fatto comodo, col rischio di far seppellire da una risata la Lettera tutt’intera: com’era d’uso.

Maestri disoccupati. Si sente lamentare che c’è troppi maestri. Non è vero. È che quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti. [pag. 113]

Processo penale. Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola. Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. (…) Ora invece siamo «a scuola». (…) C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro. [pag. 127-8]

Pieno tempo e famiglia. La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. (…) L’altra soluzione è il celibato. [pag. 86]

Pieno tempo e diritti sindacali. C’è capitato in mano un giornaletto sindacale per insegnanti: «No all’aggravio dell’orario di cattedra! Ci sono state battaglie sindacali memorabili per fissare l’obbligo orario e sarebbe assurdo tornare indietro». Ci ha messo in imbarazzo. A rigore non possiamo dir nulla. Tutti i lavoratori lottano per ridurre l’orario e hanno ragione. Ma il vostro è un orario indecente. [pag. 88]

Più ciechi ancora. Il professore più a sinistra l’ho sentito parlare per l’Associazione Insegnanti e Famiglie. A proposito di doposcuola gli scappò detto: “Ma voi non sapete che io faccio 18 ore di scuola la settimana!”. La sala era piena di operai che si levano alle quattro per il treno delle 5.39. Di contadini che, d’estate, 18 ore le fanno tutti i giorni. Nessuno rispose, né sorrise. Cinquanta sguardi impenetrabili lo fissavano in silenzio.

Dicesi maestro. Una sola compagna mi parve un po’ elevata. Studiava per amore dello studio. Leggeva dei bei libri. Si chiudeva in camera a ascoltare Bach. È il frutto massimo cui può aspirare una scuola come la vostra. A me invece m’hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo. «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo». [pag. 110]

Le riforme che proponiamo. Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme. I – Non bocciare. II – A quelli che sembrano cretini dategli la scuola a pieno tempo. III – Agli svogliati basta dargli uno scopo. [pag. 80]

Vorrei che fosse chiaro: non credo che alla scuola servano insegnanti celibi e nubili. Non ho mai creduto nella vocazione o nella missione. Ma è fondamentale, credo, decidere di voler fare l’insegnante come contributo al benessere democratico e culturale e alla crescita del Paese e ricevere una formazione che parta dal ruolo istituzionale del maestro di scuola, che approfondisca e delinei i suoi compiti deontologici. A partire da lì sarà poi possibile riempire la cassetta degli attrezzi con tutti gli strumenti didattici più adeguati per raggiungere le vere finalità della scuola.

Per restare al tema della bocciatura, non ho mai creduto alla nota politica. Non è che se certifico una conoscenza inesistente faccio un favore all’allievo e al paese. «Dell’«insegnante di greco molto odiato ma i cui allievi imparano il greco bene», don Lorenzo si limita a prendere atto che la funzione del professore è di insegnare il greco, non d’essere amato…» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9].

Sante parole, forse è il caso di dirlo.

A scuola non servono paladini della vocazione, ma professionisti preparati e motivati

Quanto alle tante stilettate inferte alla professoressa e, più in generale, all’establishment del tempo, non si tratta, né oggi né ieri, di farne una questione sindacale, riducendo il tutto a ore e giorni di presenza a scuola. Nondimeno, prima o poi, converrà riflettere anche sulla distribuzione del tempo di un anno tra quello educativo e formalmente istruttivo rispetto ai compiti di semplice sorveglianza e di formazione-educazione del tutto informale. Perché potrebbe anche essere che riempire i tempi delle pause scolastiche con ogni sorta di attività para e/o dopo scolastica si traduca in definitiva in un uso poco intelligente del tempo disponibile per crescere bene.

Don Milani condusse la sua battaglia per l’uguaglianza affinché i suoi ragazzi capissero il Vangelo. «Ho l’incarico di predicare il Vangelo. Predicarlo in greco non si può perché non intendono. Sicché bisogna predicarlo in italiano, ma i miei parrocchiani l’italiano non l’intendono. Trovo l’ostacolo della lingua e alla lingua mi dedico. Considerando lingua tutti i problemi della scuola» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9]. Era importante che capissero l’italiano, non solo come puro e semplice utensile comunicativo, ma come strumento complesso che comprende la cultura in tutte le sue accezioni. Anche la scuola dello Stato ha un suo vangelo, sperando che sia assolutamente laico.


Riferimenti

ALDO LAFRANCHI, Don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità, Quaderno speciale allegato a «Dialoghi», N° 248, ottobre 2017, p. 32 | Il quaderno può essere richiesto alla redazione di «Dialoghi», all’indirizzo allinyg@hotmail.com (la spesa è di 14 franchi).

RUOZZI, A. CANFORA, V. OLDANO, Tutte le opere di Lorenzo Milani, 2017, Milano: Mondadori (collana I Meridiani), EAN 9788804657460, 2 volumi, pagine CXXXVII-2809, 140 €

SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina

I nuovi piani di studio tra competenze e contraddizioni

Come sanno tutti quelli che, per un verso o per l’altro, hanno a che fare con la scuola dell’obbligo, il famoso accordo intercantonale che armonizza i percorsi formativi nei diversi cantoni porta con sé il nuovo piano di studio, che ha tra le novità più inquietanti e vistose l’insegnamento per competenze. Enigmatico? Sì e no. È già un pregio l’idea di far strame del vecchio nozionismo, che ha resistito ai venti impetuosi del ’68, con l’ubriacatura dei «saper essere» e «saper fare». Diciamo che è difficile definire cosa sia una competenza, al di là delle dotte esegesi pedagogiche di chi ha redatto il corposo volume. D’altra parte diversi sistemi scolastici del mondo occidentale sono stati sedotti dall’insegnamento per competenze, soprattutto da quando tanti organismi internazionali ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Mi intriga la possibilità di organizzare l’insegnamento attraverso tematiche pedagogiche e didattiche marcatamente interdisciplinari. A pensarci bene, già Rousseau dispensava al suo Emilio un insegnamento che mirava alle competenze, così come Pestalozzi, che era notoriamente sensibile alle diverse dimensioni educative (la testa, il cuore, le mani). Anche la cosiddetta Scuola attiva aspirava a superare il nozionismo, utile più a chi dà le note che a chi le riceve, per affrontare percorsi pedagogico-didattici fortemente interdisciplinari, con tutte le loro ricchezze umane e umanistiche, efficaci anche sul piano delle conoscenze fondamentali.

In approcci di questo tipo, nondimeno, c’è un rovesciamento delle prospettive che guidano gli anni scolastici e le diverse programmazioni, a partire proprio dal tema della valutazione. Insegnare per competenze pone problemi di valutazione di non poco conto. In un’impostazione pedagogica di tal fatta non c’è posto per la tradizionale tiritera di prove di varia foggia, che scandiscono le settimane e i mesi, diventando in definitiva più importanti di ciò che si vuol valutare e inducendo negli allievi l’attitudine meschina che li obbliga a studiare per i test e non per gli apprendimenti sontuosi che la scuola saprebbe regalare. Insegnare per competenze significa in primo luogo privilegiare l’educazione e la costruzione di conoscenze e di cultura, nell’accezione più ampia del termine, rispetto alla misurazione insulsa di qualche nozione.

Cité des sciences et de l’industrie (Paris)

C’è poco da fare: la valutazione classica, coi continui esami e le inevitabili medie, fa a pugni con un insegnamento per competenze. «Non si fa matematica da soli», ho letto di recente su un pannello, in un’esposizione divulgativa sulla matematica. E poco più in là: «Se un problema è veramente affascinante, ce lo rigiriamo in testa senza sosta». Come sarebbe bello poter insegnare così la matematica – e non solo – attraverso problemi avvincenti e intrattabili, da affrontare in gruppo come sfida intellettuale, col solo gusto di venirne a capo e la fierezza della vittoria. Un approccio pedagogico del genere sarebbe coerente con la dichiarazione d’intenti del nuovo piano di studio e favorirebbe nel contempo la crescita rigogliosa di competenze disciplinari, che sono complesse per definizione, e di tangibili empatie civiche. Si può dissentire? Certo che sì. Ma esprimere una valutazione scolastica, a queste condizioni, diventa un bel problema. Sarebbe una catastrofe non saper rinunciare alla necessità di dover dare una nota scolastica a ogni costo, magari frazionando la competenza in tante nozioni misurabili, per poi ricavarne una stupida media.

La dittatura dei voti a scuola, mentre lei si pavoneggia

Alla scuola piace pavoneggiarsi per quel suo essere sempre al passo coi tempi, un eterno cantiere aperto, attento alle novità, capace di predire i bisogni educativi del futuro, pronta a cavalcare la robotica e ogni altra magia della modernità. Eppure, a ben guardare, la scuola, al di là di tanti cicalecci, è una delle poche istituzioni pubbliche capace di riprodursi nei decenni sempre simile a sé stessa. Ogni tanto arrivano le riforme epocali – aggettivo usato da politici e addetti ai lavori, solitamente dopo estenuanti negoziati che, di solito, disegnano un maquillage imponente per enfatizzare i cambiamenti e nascondere tutto quel che resterà uguale a prima. Prendiamo il progetto «La scuola che verrà». Lanciato a fine 2014 ha incontrato da subito una frotta di fuochi di sbarramento. Per dire: «È l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà ad ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro». Oppure: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze».

Se il parlamento darà il suo accordo – ma conosciamo gli abbracci malefici che si palesano quasi sempre tra i se e i ma – potrebbe partire sul breve termine la sperimentazione in alcune sedi della scuola dell’obbligo. Detto per inciso, gli istituti in questione non sono particolarmente rappresentativi sul piano scientifico: transeat. L’attuale «Scuola che verrà» non è più la versione originale, pur avendone mantenuto le fattezze iniziali. Il guaio è che il dogma della selettività non appartiene solo agli imprenditori di successo o ai liberisti d’assalto, quelli per i quali il mercato sistema ogni cosa. È sufficiente uno sguardo anche appena disincantato per vedere come tanti insegnanti siano loro compagni di barricata. Fatto sta che l’assioma della nota scolastica resiste alla globalizzazione, al web e a tutti i cambiamenti paradigmatici dell’ultimo mezzo secolo. Senza test e voti non ce n’è né per le scuole che vorrebbero venire, né per l’educazione alla cittadinanza, che rischia di nascere come materia a sé stante, soprattutto grazie alla nota.

È quasi comico, questo amore sviscerato per le valutazioni scolastiche, sintetizzate in un numero, cioè un indicatore che vorrebbe sembrare scientifico, benché sia soggettivo ed evanescente. Ivan Illich, il grande filosofo descolarizzatore, osservava che «Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti. Ma il tragico è che i più assorbono la lezione della scuola anche se a scuola non mettono mai piede. È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante. Non fanno eccezione a questa regola neanche quei bambini che sono soggetti giorno e notte alla tutela di un maestro». Infatti, se uno ci pensa, le cose fondamentali la scuola non le valuta, le discipline più importanti non figurano nel libretto scolastico. Come si misurano il senso dello stato, l’etica individuale, la capacità di ascoltare le idee altrui, la forza illuminista di lottare per la libertà, almeno quella delle idee?

Sono passati cent’anni, ma la scuola vecchia resiste, in barba ai suoi acciacchi

Quando, il 1° agosto scorso, ho pubblicato qui la mia inchiesta sul IV congresso della Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle (LIEN), che si era tenuto a Locarno dal 3 al 15 agosto 1927, non mi aspettavo certo immediate reazioni, soprattutto locali.Dal Ticino, che di questi tempi è al contempo elettrizzato – ehi raga!, c’è Locarno Festival – e sonnacchioso, non mi attendevo chissà quali sussulti. Se nessuno se n’è accorto per novant’anni, non sarà certo uno starnuto nel mio sito a far sussultare gli animi dei più (che sono in vacanza, mica al Festival del film).

Tuttavia ho ricevuto alcuni messaggi autorevoli, che mi hanno fatto piacere.

Per cominciare Marco Balerna, ex sindaco di Locarno, ha commentato così: Grazie Adolfo per averci ricordato che Locarno non è stata solo la «Città della Pace», ma anche «Città della Scuola». Se solo si fosse continuato e perseverato su certi principi e certe realtà… Ma così va il mondo: bisogna sempre ricominciare e ricominciare. Che fatica. Ma questo è il nostro destino di uomini.

Nei giorni seguenti, da Ginevra, dove ho studiato, mi sono arrivati altri messaggi che mi hanno fatto un poco arrossire: non cito gli autori, perché non ne ho chiesto il permesso, e non riporto cosa mi hanno scritto, perché va bene un po’ di vanità, ma vediamo di non esagerare.

Detto questo voglio segnalare due cose.

1. Il 14 e 15 settembre gli Archives Institut Jean-Jacques Rousseau organizzano un colloquio internazionale sul tema Genève, une plateforme de l’internationalisme éducatif au 20è siècle. Va da sé che l’utopia della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova ha molto a che fare con l’esprit éducatif genevois. Chi è interessato (io lo sono, ma in quei giorni dovrò essere a Locarno, perché c’è «Piazzaparola», di cui scriverò da qui a là) trova all’indirizzo indicato tutto quel che serve.

2. Inoltre: il mio fascicolo 1927: Locarno accoglie l’Educazione Nuova è ora disponibile anche nel sito di Lien International d’Éducation Nouvelle. Ne sono contento, perché anche così si offre una maggiore diffusione alle idee di cui sono portatori i due LIEN, quello di oggi e quello di un secolo fa, che continuano a sognare un cambiamento del contratto scolastico, per andare verso una scuola che non etichetti più nessuno e che non selezioni più la gioventù, ma la istruisca e la educhi, seriamente e con gioia.

Il Manifesto di LIEN, nato durante il simposio di un anno fa a Villeurbanne, nei pressi di Lione (lo si può scaricare qui) è di grande interesse, meglio ancora se si riesce a leggerlo tenendo in filigrana le (H)armo(S)nizzazioni odierne – in bilico tra editti dai toni suadenti e piani di studio di non esemplare chiarezza – la Scuola che verrà e i tanti dibattiti un po’ scontati, che si susseguono negli ambienti politici e si riflettono specularmente sui media.

Mi limito a citare due o tre argomenti, tratti dal Manifesto, che fanno spesso capolino nei discorsi dei politici e che, naturalmente, rispecchiano e rinvigoriscono i pareri dell’opinione pubblica.

  • La fratellanza confusa con la compassione, che valorizza l’aiuto e il sostegno ai più sfavoriti, rafforzando e legittimando in tal modo le disuguaglianze.
  • «Le pari opportunità», falsamente garantite dalla Scuola, che sono una frottola sociale, perché consolidano un sistema ingiusto, insinuando in ognuno il convincimento di «meritare» la propria sorte. Attraverso le cosiddette pari opportunità si impedisce che si protesti o che si esiga chissà che, dal momento che si è fatto di tutto per offrire a ognuno la possibilità di riuscire. Si tratta di una mistificazione che scaturisce dal presupposto che il successo degli uni e l’insuccesso degli altri si spiegano attraverso i “doni” ricevuti alla nascita o i meriti personali.
  • La certezza che la competizione accresce la motivazione, incoraggia l’apprendimento e giustifica sforzi e sacrifici, dissociando il piacere e il lavoro.
  • Transeat, invece, sul tema della differenziazione, un’araba fenice dalle millanta interpretazioni (di comodo).

Insomma: secondo un modo di dire comune la scuola, parlo di quella dell’obbligo, è un cantiere sempre in movimento, per dire che si è pronti ad affrontare, giorno dopo giorno, ogni novità.

Eppure, ogni tanto, viene il dubbio che anche la scuola, a immagine del capolavoro di Tomasi di Lampedusa, auspichi che sotto sotto «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

Un atto di fede, tra scienza, religione e stregoneria

Si sa che sulla statistica circolano tante battute. Mark Twain affermava che Ci sono tre tipi di bugie: le piccole, le grandi e le statistiche. Poi c’è quella di Winston Churchill: Le sole statistiche di cui ci possiamo fidare sono quelle che noi abbiamo falsificato. E ancora: Le statistiche – secondo una definizione attribuita almeno a tre autori – sono come i bikini: si crede che mostrino tutto, ma nei fatti nascondono l’essenziale.

Queste sfuggenti e beffarde “definizioni” mi sono venute in mente mentre scorrevo avanti e indietro due quaderni di ricerca pubblicati qualche mese fa dal CIRSE, che si occupa di innovazione e ricerca sui sistemi educativi, un importante centro di competenze del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI.

Il quotidiano laRegione ha pubblicato il 14 giugno un articolo che ha attirato la mia attenzione, non fosse che si stagliava al centro della prima pagina: Prove cantonali, gli allievi più bravi sono socioeconomicamente avvantaggiati – L’origine conta.

To’, mi sono detto, questa scoperta proprio non me l’aspettavo. E a pagina 4 ecco l’articolo.

Bisogna convenire che l’articolo, in sé, non aggiunge nulla a ciò che sanno più o meno anche i paracarri protagonisti di un popolare modo di dire. Volendo si può leggere l’articolo scaricandone qui il testo completo: senza aspettarsi chissà quale rivelazione.

Dato che si tratta di uno studio basato sui risultati di un numero molto significativo di allievi – 3’000 di III per la prova di italiano, altrettanti di V per la prova di matematica – mi sono procurato i due rapporti:

Più che le variabili che influenzano il successo o l’insuccesso, mi ponevo qualche domanda più prosaica, cose semplici del tipo Qual è il grado di competenza in italiano in 3ª e in matematica in 5ª? Quali sono gli obiettivi specifici che risultano più ardui di altri? Insomma, cose così, domande semplici, da non addetto ai lavori, che possono semmai tramutarsi in ipotesi da addetto ai lavori.

Invece mi si chiede un atto di fede.

Dovrei dar credito a qualche dichiarazione riportata dal quotidiano bellinzonese. Ad esempio che per aver successo nelle nostre scuole conviene essere «Di nazionalità svizzera, madrelingua italiana e famiglia benestante». Oppure che «I risultati delle prove cantonali ci dicono che non siamo ancora al top». Poco più.

Così uno si dice, un po’ sommessamente: è tutto lì il famoso investimento nella scuola, un mantra che sentiamo come alibi per ogni contenzioso, solitamente più sindacale che di merito?

[Detto pr inciso: queste due ricerchine dicono che il numero di allievi per classe non influenza i risultati e che le pluriclassi, per male che vada, sono migliori delle tanto agognate monoclassi].

Volendo alzarmi un po’ di livello, devo prendere per buona qualche tabella un poco enigmatica. Per dire: a pagina 11 del quaderno sulle prove di italiano leggo che, in generale, l’italiano è misurato con un valore medio di 55.42, su una scala da 0 a 100. Nelle diverse “dimensioni” – la scala è sempre quella lì – abbiamo 58.48 per il lessico, 57.29 per l’ortografia fonologica, 57.36 per l’ortografia morfologica e 45.09 per la punteggiatura ortografica. Allora mi dico: se la scala mi dà l’imbeccata verso una lettura per percentuali, c’è poco da stare allegri, se neanche una “dimensione” arriva almeno al 60%, anche se le cifre dopo la virgola fanno molto “scienza”.

Ma i ricercatori del CIRSE mi bacchettano subito: Tutti i punteggi sono stati normalizzati in modo da assumere valori compresi tra 0 e 100. I punteggi non equivalgono però a percentuali corrispondenti al numero di esercizi svolti correttamente: ottenere 50 in un certo settore non significa infatti aver svolto correttamente il 50% degli item di quel settore.

Chiaro? No, questo è certo. Qualcuno è in grado di spiegarmi l’arcano? Cioè: che significa, anche solo all’incirca, che gli allievi di 3ª hanno raggiunto gli obiettivi dei programmi per un valore di 55.42?

55.42 cosa? È tanto, è poco o prendiamola così e accontentiamoci, senza far domande cretine?

Se poi mi do la pena di leggere, interpretare (a modo mio, ovvio) e capire le correlazioni con alcune variabili indipendenti del campione di popolazione – quali il sesso di allievi e insegnanti (loro lo chiamano gender, per chiarezza e politically correctness), la nota di condotta, il colletto blu o bianco dei genitori (tutt’e due?), tanto per citare qualche “novità” originale – allora me ne vengono in mente altre, che secondo me potrebbero rivelare qualche esclusione in più, da considerare nei dovuti modi.

Per dare qualche idea, non troppo a caso:

  • quanti genitori vivono là dove vive e cresce l’allievo, provenienti da dove, che fanno cosa e con quale ruolo gerarchico;
  • quanti fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre, vivono in quel nucleo;
  • quanti parenti e amici intimi vivono nel raggio di dieci chilometri;
  • quali allievi frequentano la mensa, il doposcuola e le colonie durante le chiusure scolastiche (e perché);
  • quali sono gli orari di lavoro di chi, a casa, si occupa dei figli;
  • chi prepara la colazione, il pranzo, la cena, e decide l’ora di andare a letto e di spegnere gli schermi;
  • quanti televisori, computer, tablet, cellulari sono a disposizione, e sotto il controllo di chi;
  • caratteristiche socio-economiche e socio-culturali non solo dei singoli allievi, ma anche delle comunità in cui gli istituti scolastici sono inseriti;
  • età, anzianità di servizio e itinerario formativo degli insegnanti (magistrale seminariale, post-liceale, ASP, DFA, ASP grigionese), e quanti anni di insegnamento hanno alle spalle;
  • numero di settimane di presenza del docente titolare durante l’anno scolastico;

Il mio agnosticismo, per fortuna, non è confinato negli angusti e consueti territori delle religioni.

In questo caso avrei salutato con grande piacere un qualche allegato, magari solo online, per capire, obiettivo dopo obiettivo e dimensione dopo dimensione, come erano costruite e presentate, anche graficamente, le prove somministrate agli allievi, cosa volevano concretamente analizzare, chi e quando le ha somministrate, e quanto era il tempo a disposizione di ogni allievo – compresi stranieri, alloglotti e indigenti.

Mi sarebbe anche piaciuto sapere con precisione come è stata valutata/misurata ogni risposta: cioè cos’era considerato corretto, sbagliato, sfumato…

E, volendo pretendere la luna, quali conoscenze/competenze non erano state misurate e perché.

Insomma: parrebbe obbligatorio attenersi alle sacre scritture e fidarsi delle interpretazioni che ne dànno i sommi sacerdoti.

Non so voi, ma io dissento: perché “ricerche” siffatte non servono a niente, non sono un buon investimento per il futuro dei nostri figli e della nostra società.