I quotidiani ticinesi del 29 dicembre hanno dato notizia di una basilare interrogazione trasmessa al Governo dal deputato al Gran Consiglio Giorgio Pellanda, che, ricapitolando, chiede se il Consiglio di Stato sia «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Insomma: Pellanda, che oltre che deputato è anche insegnante, non si limita a desiderare che il cellulare resti spento a scuola – desiderio che non avrebbe bisogno del Governo per essere esaudito – ma proprio lo vede come uno strumento di perdizione, tanto da chiederne la messa all’indice. A scuola l’aggeggio infernale, che esala radiazioni nocive e genera costi pazzeschi, non deve entrare, né acceso né spento.
Che il telefonino sia rapidamente diventato una sorta di status symbol per adolescenti e adulti – e una gallina dalle uova d’oro per gli operatori del ramo – sembrerebbe incontrovertibile. Non si potrebbe spiegare altrimenti l’accanimento pubblicitario che eccita i diversi vettori di telecomunicazione quasi al parossismo, inondandoci ad ogni pie’ sospinto di offerte mirabolanti e, soprattutto, di tonnellate di carta. Sono convinto che la maggior parte dei possessori di telefonini ne faccia un uso improprio, anche perché l’apparecchietto assomiglia sempre più a un virtuale coltellino svizzero: non serve infatti solo per telefonare, ma anche per una marea di altre mansioni, più o meno inutili. Non parlo qui delle aberrazioni di cui le cronache sono state prodighe negli ultimi tempi, ma qualcuno mi deve spiegare qual è l’urgenza – che so? – di dare un’occhiata a Ticinonline tramite il cellulare per verificare le ultime notizie dal mondo mentre s’aspetta il bus.
Detto questo e stabilito che l’uso sfrenato e strambo del telefonino non ha età né, probabilmente, ceto sociale, resta l’impeto proibizionista del nostro deputato al parlamento della Repubblica, che per essere coerente fino in fondo avrebbe dovuto chiedere anche altri divieti, come – per buttar là a caso – l’iPod, anch’esso un aggeggio amato dagli adolescenti, che potrebbe facilmente rappresentare un ulteriore «disturbo esterno che può compromettere l’insegnamento». Confesso che ho poca simpatia per i divieti, soprattutto quando si configurano come facili scorciatoie per evitare l’educazione, che è sempre un processo impegnativo e, a volte, spossante. In ogni caso mi sembra che la campagna di sensibilizzazione contro l’abuso del cellulare proposta dai granconsiglieri Pelossi, Cavalli e Orelli, e fatta propria dal DECS, sia alla lunga ben più efficace di un frivolo Verbot.
A meno che il problema non risieda altrove: ma faccio fatica a immaginare degli insegnanti delle elementari e delle medie che non riescono più a far scuola poiché i loro allievi, invece di ascoltare scrivere pensare argomentare, trascorrono le ore telefonando, inviando messaggini, scattando fotografie e ascoltando musica (col telefonino, non con l’iPod). Se così fosse, il divieto ispirato dal Prof. Pellanda sortirebbe ben poveri frutti. Il problema degli allievi che si distraggono non è nuovo e di sicuro non è indotto dalle nuove tecnologie. Altri, in momenti diversi, hanno dovuto fronteggiare le pistole ad acqua, gli aeroplanini di carta, i petardi carnevaleschi, le figurine, il campionato di calcio e la diatriba Beatles-Rolling Stones, in un crescendo di amene distrazioni. Non ho mai sentito, però, di dover scomodare il Governo per così poco: e ancor oggi basterebbe un po’ d’autorevolezza.
P. S.: non è chiaro se il divieto di introdurre il telefonino nel perimetro dell’istituto scolastico toccherebbe solo gli allievi o anche gli insegnanti, ai quali, come del resto agli allievi, è garantita la possibilità di telefonare tramite la segreteria.