Con sempre maggiore insistenza, da un po’ di anni a questa parte si chiede un ampio dibattito sulla scuola. Lo cercano tutti, da destra a sinistra passando per i diversi centri. Più che cercarlo, lo si afferma; è necessario un dibattito a tutto campo sulla scuola pubblica, soprattutto su quella dell’obbligo: la scuola dell’infanzia, che diverrà obbligatoria da qui a un po’, quella elementare e la media. Aggiungiamoci pure il liceo e la scuola di commercio, tenuto conto che quasi nessuno interrompe il suo percorso formativo dopo i quindici anni. Ci sono però almeno due ostacoli che si frappongono a questa voglia di parlare di scuola, un desiderio che non era più così acuto fin dai primi anni ’70, quando l’educazione tirava ben più dell’economia e della finanza. Il primo intralcio è dato da questi nostri tempi di informazione forsennata e un po’ invasata. È sempre più difficile farsi leggere o ascoltare. Ogni mese solo i giornali svizzeri pubblicano oltre un centinaio di articoli sulla scuola. Sui tre quotidiani ticinesi – senza neanche citare settimanali, mensili e altre pubblicazioni – non passa settimana senza che qualcuno offra la sua ricetta, esprima la sua critica, affermi che il DECS sia lassista o illiberale, progressista o conservatore, formica o cicala. Ma quanti residenti in Ticino leggono questi interventi? Quanti altri ne sentono distrattamente parlare? E quanti, ancora, dopo aver letto, riflettono nell’intento di esprimere un’opinione? Il problema è che, dai e dai, in tanti si danno da fare per dire la loro – sulla scuola, sul governo e sui più variegati argomenti – ma pochi li ascoltano e, ancor meno, pochissimi reagiscono per assentire o disapprovare: siamo ormai alla «Libertà obbligatoria» di gaberiana memoria.
Qui subentra, quasi ineluttabilmente, il secondo ostacolo. Il dibattito sulla scuola – perché per esserci c’è – è del tutto autoreferenziale; si rivolge quasi sempre al un proprio personale pubblico, senza nemmeno goderne l’applauso, tant’è scontato. In tanti scriviamo di scuola ed esprimiamo punti di vista diversi. Eppure il dibattito non avanza. Sullo sfondo ci sono certezze ormai assurte a statuto di dogma: basti pensare all’ormai trito e ritrito numero di allievi per classe, elemento che da solo sembrerebbe poter risolvere tutti i problemi. Oppure si rifletta sullo slogan secondo cui spendere per la scuola, non importa come, è un investimento per il futuro; o, ancora, sull’immane forza del plurilinguismo, l’«apriti sesamo» del futuro prossimo. Nondimeno continua il dibattito tra sordi, forse condizionato dalla constatazione che come «una smentita è una notizia data due volte» – motto attribuito a Giulio Andreotti – così replicare a un’argomentazione non condivisa può equivalere a darle troppo clamore: non si sa mai. È evidente – lo voglio credere – che ognuno esprime le sue opinioni e le sue certezze senza secondi fini, solo per il bene di quell’importante Istituzione alla quale lo Stato ha affidato il compito di «promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà»: cioè a educare i cittadini di domani. Ma genera grande tristezza la constatazione che in realtà non esiste alcun dibattito, sostituito da prese di posizione governate da una sorta di ortodossia di stampo sacerdotale. Senza considerare che la gran parte dei partecipanti alla discussione appartiene al mondo della scuola, compresi quei tanti genitori che di frequente sono insegnanti o ex. Siamo insomma alla messa in scena di un dibattito, con uno svagato protagonista dietro le quinte che, alla fine, detta le regole del gioco, ispirato dalle raffiche economiche, politiche o di comodo. Non certo dai venticelli della giustizia sociale e del principio di educabilità.