Giugno, per la scuola, non è solo il mese degli esami, delle passeggiate, delle festicciole e delle cerimonie per la consegna del sudato diploma. È anche il mese dei ricorsi, contro una bocciatura o solo perché una nota è andata di traverso. Fioccano ricorsi formali e lamentele orali, che in qualche caso finiscono in minacce terribili. Se poi l’arbitro di turno è mediamente abile, l’aspro contenzioso si conclude, senza troppo sforzo, a tarallucci e vino. Naturalmente ci sono reclami legittimi, bislacchi o così peregrini da rasentare la faccia di tòlla. C’è chi contesta la bocciatura del pargolo, perché rimanderà di un anno l’entrata nel mondo del lavoro, e il simultaneo persistere dello stato di mammone. C’è pure chi impugna una qualsiasi nota – poniamo un 4½ in educazione fisica – perché «sporca» un libretto scolastico che, come minimo, prelude a qualche Nobel.
Capita che l’allievo sappia fin troppo bene i motivi di una bocciatura o di un basso voto che deturpa la pagella. Succede, per lo più, dall’adolescenza in là, un’età durante la quale, fino a mezzo secolo fa, ragazze e ragazzi con più di quindici anni sarebbero sprofondati nel cortile della scuola, se solo un genitore furioso si fosse presentato dall’insegnante o dal direttore a perorare la causa del figliolo, un pargolo come ne esistono pochi. Tuttavia – e mi sembra comprensibile – l’allievo onesto con sé stesso se ne guarda bene dal rivelare in casa le malefatte all’origine del guaio che dà vita alla solitamente fantasiosa ostilità genitoriale; così, tutt’al più, inventa qualche manovra di depistaggio.
Oddio, i ricorsi contro le decisioni ci sono sempre stati, così come le lagnanze, magari molto accese, i mugugni e le minacce di terribili vendette in un futuro che, fortunatamente, non arrivano mai. Ma l’impressione è che, da parte di allievi, studenti e famiglie al seguito, la smania di ricorso contro le valutazioni della scuola sia in crescita: tendenza quasi logica, mi pare, in una società che tende a pesare e misurare tutto in maniera tecno-maniacale.
Lasciamo perdere tutta la formazione che arriva dopo la scuola media (media superiore compresa). Presumo che se l’apprendista muratore deve imparare a innalzare un muretto, la prima valutazione scaturisca dalla stabilità stessa del muretto e dal rispetto di chiare regole dell’arte. Analogamente mi verrebbe da pensare le stesse cose per uno studente di fisica, che deve conoscere i principi della termodinamica: principi attorno ai quali oso credere che vi siano, mi si scusi il bisticcio lessicale, dei chiari principi per stabilirne la conoscenza o l’ignoranza, e a quale livello di studi.
Ma, di grazia!, qualcuno mi sa dire qual è la differenza, in un’ordinaria classe della scuola dell’obbligo, tra un 4½ e un 5 in una qualsivoglia materia prevista dai programmi, senza scordare la famigerata nota di condotta, che di solito si spalma su tutte le altre valutazioni, neanche fosse un assioma matematico o un articolo di fede per credenti?
Sappiamo fin troppo bene, però, che sul tema delle valutazioni scolastiche siamo a un preoccupante livello di schizofrenia: gran parte degli insegnanti non vuole farne a meno, ma pretende l’incontestabilità delle sue sentenze; dal canto loro tante famiglie sono convinte che non sia possibile insegnare senza assegnare i voti – almeno fino a che le insufficienze non toccano i loro figli: insomma, un abbraccio scellerato, a volte esiziale.