Quest’anno la nostra legge della scuola ha compiuto vent’anni: ha infatti visto la luce il 1° febbraio 1990, sotto il segno dell’acquario; a dar retta agli astrologi, sono garantiti un’intelligenza proiettata verso il futuro e uno spirito fortemente innovatore. Ma, si sa, non è sempre vero che l’astrologia ci azzecchi. In ogni modo non vi sono stati i festeggiamenti che solitamente si riservano ai ventenni, forse perché c’è poco da celebrare. O forse perché il concepimento era avvenuto molti anni prima del ’90. È nel dopo sessantotto che si pone mano alla vecchia legge del 1958, che – si diceva – risultava datata e non più in linea con i venti libertari che avevano cominciato a spirare nel decennio precedente, anche se, giunti a quel punto, le vigorose raffiche si stavano rapidamente trasformando in più fragili brezze. Tant’è: la riforma legislativa, almeno sulla carta, si era avviata e già nell’80/81 erano stati messi in consultazione tra tutti gli addetti ai lavori trenta e passa articoli, quelli contenenti i grandi principi della nuova Magna Charta che avrebbe retto le sorti della scuola ticinese di lì a qualche anno. Invece, come sappiamo, si sarebbe dovuto attendere ancora quasi un decennio prima che i giuristi la terminassero e il Gran consiglio l’approvasse, e ancora un anno e passa perché entrasse in vigore, peraltro a singhiozzo e in tempi diversi. Il bello è, poi, che la legge della scuola, una specie di madre di tutte le leggi, aveva già una figlia più vecchia di lei, la legge sulla scuola media del 1974: tanto che la «nuova» legge quadro era stata fortemente influenzata da tutta una serie di modalità organizzative escogitate in quegli anni così colmi di speranze e di sogni. Col risultato che si è finito per confezionare un abito che non poteva essere congeniale a tutti. In effetti se era logico istituire precise regole di funzionamento per quella trentina di sedi di scuola media, tutte sotto lo stesso padrone e tutte di dimensioni simili, un po’ più complicato era farci entrare scuole comunali tanto diverse tra loro, come lo possono essere quella XXL di Lugano rispetto a quella di Dalpe, con tutte le taglie intermedie.
È molto difficile dire, in tutta onestà, se i principi ispiratori della legge del ’90 – visibili soprattutto nell’articolo sulle finalità e nei capitoli che ne definiscono le componenti e le norme di conduzione – siano riusciti a concretizzarsi per davvero. L’impressione è quella di un parlamento che, vent’anni fa, vagheggiava una scuola moderna, partecipativa, rigorosa, una scuola che avrebbe dovuto promuovere «lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». Mentre oggi basta guardarsi attorno, anche distrattamente, per rendersi conto che le cose non sono andate proprio per il verso sperato. In questi vent’anni le modifiche, le aggiunte e gli stralci sono stati numerosi, anche se non hanno mai intaccato lo spirito di base della legge. A quanto pare non è finita, perché altri interventi di chirurgia ricostruttiva sono all’orizzonte. Tuttavia, per dirla tutta, la nostra ventenne fa sempre più tenerezza: non è col silicone, la chioma tinta, e gli abiti giusti che resterà giovane, attraente e sensuale. Di seducente restano le utopie di una generazione che voleva cambiare il mondo, mentre il mondo se n’è andato dove voleva lui, incurante dei nostri proclami. Nel contempo continuano a dettar legge, è proprio il caso di dirlo, certe procedure macchinose e deresponsabilizzanti, che assorbono molte energie, ma portano a poco. Dietro la presunta autonomia degli istituti che caratterizza questa legge, c’è un centralismo omologante che è spesso fonte di frustrazioni e inefficacia. Forse, insomma, è giunto il momento di cambiarla, la nostra legge della scuola: senza rammarico e sperando che non sia troppo tardi.