I giovani liberali ticinesi si sono fatti promotori di una mozione parlamentare, per far sì che l’inizio dell’insegnamento del tedesco sia anticipato. La proposta è naturalmente corredata da dotte citazioni, che, come un certificato medico, attestano la necessità impellente di iniziare al più presto la terapia, così da evitare complicanze. Il Consiglio di Stato ha risposto picche, e ha fatto bene. Marco Solari, interrogato dal «Mattino», ha detto che «le lingue hanno uno scopo pratico ed economico e uno culturale. Leggere Goethe, Heine, Mann in tedesco, come leggere Montaigne, Flaubert e Proust in francese, è arricchente e ti apre un mondo. Vale pure per l’inglese che, più del tedesco, è inoltre lingua franca, mondiale e indispensabile». Infine ha aggiunto che a tutti i giovani consiglierebbe di imparare il cinese standard, che è la lingua del loro futuro.
Non si può dissentire, neanche rispetto alle provocazioni di quel visionario di un Solari. A dirla tutta, c’è una lunga serie di discipline che non fanno parte dei normali piani di studio della scuola dell’obbligo, malgrado la loro rilevanza per l’educazione dei futuri cittadini. Per buttar lì qualche idea: la filosofia e la storia dell’arte, la sociologia e la psicologia, le scienze politiche e quelle economiche, il diritto, l’architettura e l’urbanistica, l’etica e l’estetica. Si aggiunga che da tempi immemorabili le diverse lobby disciplinari si lamentano di non avere ore a sufficienza nella griglia oraria settimanale. Ma ha mille ragioni il direttore del Dipartimento dell’educazione, Manuele Bertoli, quando si oppone con fermezza all’aumento delle ore scolastiche di insegnamento, alle quali bisogna aggiungere l’onere massiccio e variabile dei compiti a casa. I tempi formali della scuola sono quelli che conosciamo: trentasei settimane e mezza, ognuna con una trentina di «ore» di lezione, la cui durata aumenta un pochetto nel passaggio dall’elementare alla media. Se togliamo i tempi per le valutazioni, le settimane festaiole e qualche imprevisto, non resta granché, soprattutto se si intende ficcarci di tutto, dal sesso alla civica all’alimentazione. Eppure oggi è così che funziona, a costo di inscenare finzioni hollywoodiane: perché i piani di formazione sono una cosa, mentre quel che imparano realmente allievi e studenti un’altra.
Parafrasando Montaigne, che cinque secoli fa sosteneva che a una testa ben piena fosse preferibile una testa ben fatta, parrebbe che per la scuola di oggi, o per quella che verrà, l’impossibile quadratura del cerchio imponga scelte dolorose e irrinunciabili. Continuo a credere che la scuola, quella pubblica e obbligatoria, è cambiata pochissimo negli anni. I suoi tratti caratteristici li mantiene sin dalla nascita, ma oggi sono diventati un fardello ingombrante, benché si eviti di parlarne. Quella scuola lì ha prodotto frutti pregiati, ma oggi è esausta e boccheggiante. È strapiena di «cose». Il tentativo di rispondere a mille interessi particolari, prostrandosi ai piedi di un mondo del lavoro crudele, amorale e cangiante, è un errore dai costi altissimi. La scuola ben fatta è un’altra cosa, e implica scelte importanti: se si vuol mantenere a ogni costo la vetusta struttura odierna bisogna avere il coraggio di togliere dalle giornate di allievi e insegnanti tutto ciò che non è essenziale per educare i Cittadini di domani. I paraocchi corporativi, sindacali e un po’ nostalgici non valgono una cicca. Servono visioni.
La richiesta dei giovani liberali radicali nasce essenzialmente da una preoccupazione concreta: offrire una formazione che permetta di inseririsi più agevolmente nel mondo del lavoro. E preoccuparsi del proprio futuro professionale mi sembra legittimo.
Che il tedesco in Svizzera, da questo punto di vista, sia più importante del francese, è un’evidenza (e che sia una grande lingua di cultura non meno del francese, pure).
Si potrà rimproverare ai giovani di avere una visione eccessivamente utilitaristica della scuola? Forse sì. Ma la critica andrà rivolta soprattutto a chi vorrebbe che la scuola anziché contribuire a formare un cittadino autonomo e critico, si limitasse a rispondere alle SOLE esigenze del mercato.
La proposta dei giovani liberali radicali, come pure altre proposte di riforma della scuola, si riduce però all’estenuante gioco dell’aggiungere e togliere un’ora di qua e di là, barattandola con qualche altra materia. Non ci si interroga ad esempio sull’attuale efficacia dell’insegnamento delle lingue. Tant’è che sono, con la matematica, le materie che interessano maggiormente le lezioni private. Andrebbe riproposto un calcolo, che se non erro venne fatto anni addietro, tra i costi dell’insegnamento delle lingue e i risultati ottenuti.
Condivido la tua opnione, Adolfo, che le domande di fondo sono perlopiù eluse, e che si preferisce discutere anche accanitamente di dettagli, anziché delle questioni di fondo. Per questo, hai ragione, la scuola obbligatoria in fondo è cambiata pochissimo.
Nel frattempo cambia il mondo. Ma non possiamo pensare di rincorrerlo aggiungendoci di volta qualche novità o peggio risuscitando qualche ricetta inattuale.
Si richiedono scelte, come scrivi, “dolorose e irrinunciabili”, capaci di delineare un quadro coerente e saldo, che non dia adito a continui cambiamenti ed intrusioni. (Il togliere sarebbe meglio che l’aggiungere. “Tanto” non è sinonimo di “meglio”).
Ciò si raggiungerà sapendo discernere il fondamentale dal secondario, il necessario dall’accessorio e dal transuente,
Dal cosa seguirà poi il come.
Per far tutto ciò servono teste ben fatte anch’esse.