Il Ticino sarà presto «Le meilleur des mondes possibles»

Habemus liberaliter educatus civis! Mi si passi il latino certamente maccheronico, ma il momento è solenne. Lunedì 30 maggio dell’Anno Domini 2017 il Gran consiglio ticinese, dopo solo quattro anni di disquisizioni serrate e di approfondimenti multi-disciplinari, ha dato il suo placet all’edificazione di una nuova disciplina scolastica: l’Educazione Civica.

Gaudemus: alea iacta est.

Forse.

Ha scritto il Corriere del Ticino del giorno seguente: La civica promossa a scuola. Accolto il compromesso sull’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» – Gran Consiglio favorevole a larga maggioranza – L’incognita del voto popolare.

In futuro all’insegnamento della civica dovrà essere riservata più attenzione. È quanto ha deciso ieri il Gran Consiglio, accogliendo a larga maggioranza il compromesso sull’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)». A 4 anni dalla riuscita della raccolta delle firme, il Parlamento si è dunque detto favorevole a un rafforzamento della disciplina sia alle scuole medie sia nei percorsi del post obbligatorio. Nel primo caso è prevista una materia a sé stante con nota, insegnata per 2 ore mensili. Nelle scuole del medio-superiore la civica rappresenterà per contro un modulo all’interno di un’altra materia. Resta ora l’incognita della chiamata alle urne, che si renderebbe necessaria se i promotori – che hanno condiviso il testo conforme approdato in aula – non dovessero ritirare l’iniziativa. Una decisione in tal senso verrà presa nei prossimi giorni.

Sull’incognita del voto popolare La Regione ha già estratto il cartellino giallo, e l’ha messo sotto il naso di qualche velleitario narciso: «E adesso che non si tiri troppo la corda…» (io avrei messo un punto esclamativo, ma transeat). Sotto il monito, ecco il pistolotto didattico, a firma SCA/A.MA.:

Il compromesso è alla base del sistema politico svizzero. Qualsiasi decisione matura collettivamente, chiamando i singoli a sacrificare interessi particolari, in nome del cosiddetto Bene Comune, fatto di risultati concertati, calibrati, sostanzialmente condivisi. Altrimenti c’è il rischio che anni di lavoro vadano in fumo a colpi di bocciature popolari. Così la democrazia semidiretta “sorveglia” il sistema, dai ‘sette saggi’ di Berna in giù.

Ci si perdoni la premessa, ma paradossalmente ci sembra che al Comitato promotore dell’iniziativa “Educhiamo i giovani alla cittadinanza” serva una rinfrescata di… civica. Mal si comprende, altrimenti, la suspense che ancora ieri aleggiava attorno alla decisione del Gran Consiglio. Perché il parlamento, accettando il testo conforme elaborato dalla Commissione scolastica, ha trascritto in legge quanto chiesto dall’iniziativa (introduzione di una nuova materia con nota e dotazione oraria minima), riuscendo nell’ardito compito di rendere la modifica il “male minore” anche per chi poteva seriamente insorgere (leggi associazioni magistrali). Risultato: testo conforme con l’accordo di tutte le parti. Vero è che la prudenza non è mai troppa, e che gli illustri precedenti insegnano (nel 2000 ci avevano già provato i giovani liberali con un’iniziativa popolare che chiedeva il rafforzamento della civica, solo parzialmente tradotta in pratica). Bisogna però anche saper riconoscere quando si è riusciti a ottenere il massimo, come nel caso della decisione del parlamento di ieri. Altrimenti finisce che a furia di tirarla, la corda si spezza. E il compromesso salta.

Dai, adesso godiamoci il momento e immaginiamoci come sarà la nostra piccola grande Repubblica fra qualche anno, quando la nuova disciplina sarà entrata in azione (con lo spazio, mica tutto attaccato, come capita ogni tanto).

Voltaire (1694-1778)

Due repliche postume

Chi mi conosce sa bene che, se fossi stato un parlamentare della Repubblica, avrei votato assieme a quello sparuto gruppo di parlamentari, sinora ignoti e un po’ idealisti, che ha espresso il suo parere contrario. Dopo il mio articolo sul Corriere del Ticino del 16 maggio (A che serve una nuova materia come l’educazione civica?), mi sono giunti due pareri dissenzienti. Il primo da parte dell’amico e collega Franco Celio, che in Parlamento ha sostenuto il rapporto della Scolastica a nome della maggioranza dei liberali-radicali. Mi ha scritto:

Caro Adolfo, cerco di rispondere a una tua domanda: “Perché nessuno ha detto che questa impostazione (dell’insegnamento della civica) non serve a un fico secco”? Mia risposta: perché non è vero. Credo infatti che un’informazione sulle istituzioni, pur se molto limitata, a qualcosa serva! Del resto, è questo uno dei compiti precipui della scuola pubblica – compito “trasversale” alle varie materie (…) – fin dai tempi del Franscini! E coloro che hanno firmato l’iniziativa (come già la precedente) per “civica” intendevano sicuramente la conoscenza delle istituzioni, affinché non si confondano ad esempio Consiglio di Stato e Consiglio degli Stati, o votazioni ed elezioni, o costituzione e leggi, iniziative e petizioni, eccetera! Il senso civico cui accenni (ad esempio il non “fregare” il fisco) è qualcosa di più complesso, e credo che nessuno si illuda che la scuola possa fare qualcosa per “insegnarlo”, quando molte cose spingono in direzione opposta…

Non me ne vorrà l’amico Franco se, alla sua legittima reazione, faccio seguire la mia breve e informale replica:

1) la nuova materia che è proposta si chiama «Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia diretta», ed è dunque ben altro rispetto a quel che dici tu.

2) È probabile che l’iniziativa abbia in mente quel che sostieni. Allora, però, evitiamo di scomodare la citoyenneté e la democrazia, che sono cose decisamente diverse: che suona come una bella presa per i fondelli (in realtà l’espressione che avevo usato nell’immediatezza dell’e-mail era un’altra).

3) Davvero siamo convinti che serva una nuova disciplina, che i ticinesi della nostra età potrebbero chiamare “Almanacco Pestalozzi” o “Mentor Campari”? Non voglio essere irriverente, ma siamo un po’ da quelle parti. Possibile che i docenti (ad esempio di storia: ma non è automatico) non siano in grado di far passare quelle quattro nozioni? Tra l’altro: io e te, come le abbiamo apprese?

4) Direi, infine, che se vogliamo sul serio occuparci di democrazia e di cittadinanza la vera battaglia è un’altra, che passa dal potenziamento delle ore di storia (molto più del contrario cui ci costringerà la nuova “disciplina”), a cui aggiungerei obbligatoriamente filosofia e arte della speculazione intellettuale (“materia” multi-disciplinare, con la partecipazione di tutte le discipline umanistiche e di quelle seriamente scientifiche, come la matematica, la biologia e la fisica).

Bisognerà tagliare qualcosa? Certo. Saprei cosa proporre, per impopolare che sia.

Alberto Siccardi, invece, ha pubblicato una sua opinione sul Corriere del 24 maggio: La civica è garanzia di libertà e dignità. L’imprenditore e vicepresidente di Area Liberale ha scritto: «A cosa serve una nuova materia come la civica? Sono lieto di rispondere a questa domanda del signor Adolfo Tomasini, certo che lui non sarà d’accordo con me, ma lieto di dare il mio modesto parere su un argomento, l’insegnamento della civica, che ha caratterizzato la frenetica attività degli ultimi quattro anni miei e di molte persone in Ticino».

E invece no. Sono assolutamente d’accordo con lui su tutta la linea, salvo che sulla soluzione proposta. Non ho mai negato l’esistenza di una grave deficienza civica, non solo tra i giovani e i giovanissimi. Ma continuo a credere che la nuova disciplina scolastica, in griglia oraria e con voto sulla pagella, non servirà a un fico secco. Si veda la risposta informale al collega Franco Celio, o si (ri)leggano in miei tanti contributi su questo tema.

Quindi, incurante degli anatemi lanciati dal quotidiano La Regione, mi auguro che si vada al voto popolare. Continuo a credere che la proposta dell’iniziativa non può raggiungere l’obiettivo a cui tende. Forse un dibattito serio in vista del voto potrà mettere a fuoco l’unica soluzione reale, che sta nell’applicazione coerente dell’art. 2 della Legge della scuola, quello che ne definisce le finalità. La via è quella di un potenziamento delle discipline umanistiche nella scuola – matematica e fisica comprese, per intenderci – e non in una confortevole e inutile nuova disciplina da due ore al mese.

Pinocchio e il fascino discreto della lettura

Non so se oggi sia ancora di moda l’esortazione di tanti insegnanti: «Bisogna leggere tanto per imparare a scrivere bene». Ho fatto l’insegnante e poi il direttore di scuola. Quelle sollecitazioni hanno un loro senso, è indubbio; ma contengono un che di moraleggiante, come uno che non sa bene a che santo votarsi e cerca una scusa per trarsi d’impaccio. La correlazione non è automatica: se il tuo insegnante, ad esempio, non è un lettore assiduo e magari – rara avis, ma può succedere – non ha particolari doti didattiche, la lettura come esercizio fine a sé stesso, un compito scolastico come tanti, diventa una (s)tortura semplicemente dannosa.

In buona sostanza è sempre meglio riflettere sul significato di quel che si dice, sennò si rischia di sparare precetti a vanvera, un po’ come quando chiedi Come va? all’incontrato per caso: non ti interessa neanche lontanamente la risposta, e ti meriteresti ogni volta un lungo catalogo di malanni e malesorti, da ascoltare pazientemente. Annuendo.

Non è il momento, proprio quando ci stiamo avvicinando al termine di questo strano anno scolastico, di imboccare lunghe dissertazioni pedagogico-linguistiche. La questione mi è venuta in mente incrociando un po’ per caso (ma proprio solo un po’) l’attività di due professionisti che stimo. Sul Corriere delle Sera del 17 maggio Paolo Di Stefano ha scritto: «Nessuno pensi di liberarsi di Pinocchio, come in fondo ha fatto Carlo Collodi, il quale, dopo aver creato il burattino di legno indomabile e bugiardo, per amore di lieto fine lo neutralizzò trasformandolo in un bravo ragazzo in carne e ossa. E come continua a fare la scuola, che lo ignora tranquillamente da oltre un secolo forse con l’idea che si tratti di un libro per l’infanzia e dunque un genere di narrativa «minore». Si sa che non è affatto così. Le avventure di Pinocchio sono un capolavoro della letteratura italiana, e bisognerebbe avviare una campagna perché la sua lettura diventi obbligatoria. O forse no: meglio evitare il rischio del rigetto scolastico, di cui sono vittima da sempre I promessi sposi» (Pinocchio in cattedra: saggi e convegni anche nelle università).

Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.

A naso, e guardando alle mie esperienze recenti, direi che nel canton Ticino Pinocchio e le sue avventure accendono ancora amori e passioni, forse perché le vicende del burattino più famoso del mondo non sono mai diventate, neanche a scuola, strumenti di sevizia. Fino a qualche decennio fa Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino erano un intermezzo ai pur piacevoli libri di lettura di Dante Bertolini – che erano solo quattro, uno in meno della durata della scuola elementare. Ecco allora che in 3ª, o più facilmente in 4ª, il romanzo di Collodi era un’inusuale parentesi lunga un anno. Mi verrebbe da dire che i personaggi di questo grande romanzo resistono bene all’usura del tempo e continuano a solcare le nostre aule, come racconti continuati e come letture individuali, ma anche come veri e propri itinerari didattici: forse perché, a parte qualche inevitabile eccezione, Pinocchio non è mai stato usato come strumento di accanimento pedagogico – e il personaggio è avvincente per conto suo.  Che poi, a ben guardare, anche il finale del romanzo – quando Pinocchio diventa leziosamente un bambino – può prestarsi ad altre interpretazioni. Philippe Meirieu, nel suo «Frankenstein pédagogue», libro del 1996 poi tradotto in italiano nel 2007 col titolo Frankenstein educatore, ne dà un’interpretazione divergente e originale.

«Salitemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io, disse Pinocchio a suo padre. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle di suo figlio, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò in acqua e cominciò a nuotare… Ora è ben lontana la piccola peste velleitaria e capricciosa di cui nessuno si sarebbe fidato. Al suo posto c’è un bambino determinato che non esita ad affermare la sua volontà, serenamente e senza violenza; un bambino che ha abbandonato le gesticolazioni disordinate e gli impulsi contraddittori… per stabilire, alla fine, un atto, uno vero, “un atto di coraggio”, direbbe qualcuno: forse, semplicemente, “un gesto da uomo”.

A fare da contraltare a questo intervento preoccupato e combattivo, ecco nuovamente Paolo Di Stefano, ospite di Daniele Dell’Agnola nella puntata del 24 maggio del programma Il bidello Ulisse nella rete dei libri La vera storia di Selim! – durante la quale si è parlato del romanzo I pesci devono nuotare, attraverso tre pareri di ragazze di scuola media, che l’hanno letto, e una chiacchierata con l’ospite della puntata, lo stesso Di Stefano.

Il bidello Ulisse è il personaggio, inventato da Dell’Agnola, che ha mosso i primi passi come protagonista di una rubrica pubblicata nell’inserto culturale del Corriere del Ticino. Nel 2015, pur continuando sporadicamente le incursioni cartacee, Ulisse si è trasferito armi e bagagli su Teleticino: in tre anni ha inanellato quaranta puntate, ha coinvolto un centinaio di allieve e allievi, coi loro insegnanti di una decina di sedi di scuola elementare e media; e, soprattutto, ha presentato ottanta libri, messi di volta in volta sotto i riflettori e gli occhi critici di quei ragazzi che, i libri, li avevano incontrati a scuola.

Insomma, un gran bel segnale (anche se tra gli ottanta titoli, sino a oggi, non è comparso Pinocchio: forse perché non ha più bisogno di promozioni televisive). Anche se…

Anche se non bisogna mai dare nulla per scontato, perché il pericolo è che, un giorno o l’altro, di Pinocchio restino solo le versioni cinematografiche, da quella scioccamente moralista di Walt Disney (1940), allo sceneggiato televisivo di Luigi Comencini (1972) o alla prova di Roberto Benigni (2002), oltre alle innumerevoli rivisitazioni del teatro per ragazzi, che resteranno tali solo fino al giorno in cui il pubblico conoscerà ancora l’originale, con tutti i suoi sani sberleffi.

Qui giace la bambina dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo fratellino Pinocchio.

Prima che sia troppo tardi, quindi, conviene tener viva l’anima anarchica di Pinocchio, in modo da custodire la storia di quel pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino, e che subito dopo aver imparato a camminare da sé e a correre per la stanza, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.


Le due immagini sono tratte dal volume Pinocchios Abenteuer. Eine Geschichte die vor mehr als hundert Jahren in Italien Passierte, mit 60 Bildern von Frl. Martha Pfannenschmid, 1968, Zürich: Silva-Verlag.

Il fascino di imparare per imparare, e creare insieme cose bellissime!

In questo cantone smodato succedono a volte delle “cose” che converrebbe propagandare a dovere, mentre invece se ne viene a conoscenza un po’ per caso. Nel passato fine settimana gli occhi del Ticino tutto – si fa ovviamente per dire – erano rivolti agli appuntamenti referendari, quello cantonale sui rifiuti (partecipazione del 41.7%) e quello federale sull’energia (42.3% in Svizzera), alla Notte bianca di Locarno e alla manifestazione podistica straLugano (per la cronaca ha vinto un keniano).

Al LAC di Lugano c’era invece il concerto di Superar Suisse. Carneade? Sì.

Sono grato al direttore generale delle scuole comunali di Lugano, Sandro Lanzetti, che me ne ha accennato giusto due mesi fa, in occasione di un incontro informale e amichevole, e di aver messo in questa informazione tanta passione e un’emozione neanche troppo velata.

«Superar Suisse» è la ramificazione di un progetto europeo, che, a sua volta, si è ispirato al famoso «El Sistema», un modello didattico musicale, ideato e promosso in Venezuela da José Antonio Abreu, che consiste in un sistema di educazione musicale pubblica, diffusa e capillare, con accesso gratuito e libero per bambini di tutti i ceti sociali.

Superar è un termine spagnolo che significa andare oltre i limiti, vincere e crescere andando oltre i propri confini.

Si legge nel sito elvetico che «Superar utilizza tutte le possibilità e gli effetti positivi che la promozione musicale e artistica rappresentano, al fine di dare un notevole contributo al cambiamento in senso egualitario della società. Superar è stata fondata nel 2009 dal Konzerthaus di Vienna, il Vienna Boys Choir e la Caritas dell’Arcidiocesi di Vienna come un progetto musicale dell’Europa centrale ricalcante lo stile del progetto “El Sistema” venezuelano. Nel corso degli anni Superar è cresciuta rapidamente, sia in Austria che in altri paesi. Attualmente è attiva in 14 sedi in Austria e in dieci sedi in Slovacchia, Svizzera, Liechtenstein, Romania e Bosnia. Superar Suisse è stata fondata nel 2012. [Essa] rende reale un’educazione musicale di alta qualità sia nella formazione della voce e del canto, sia nella formazione strumentale orchestrale per tutti i bambini e adolescenti – a prescindere dalla loro origine familiare e situazione economica».

Per farla breve, ho assistito a un momento musicale e sociale molto appassionante, assieme a un pubblico folto, entusiasta e caloroso. Al LAC, domenica, c’erano i ragazzini del coro e dell’orchestra di Lugano (oltre cento ragazzine e ragazzini tra gli otto e i dieci anni), con i cori di Winterthur e del Vorarlberg e le orchestre di Zurigo e Milano. Sotto la direzione dei maestri Marco Castellini, Carlo Taffuri e Pino Raduazzo hanno dato vita a un’ora di belle emozioni, dove i termini di energia, entusiasmo e divertimento hanno caratterizzato l’evento, annullando le inevitabili esitazioni esecutive.

È vero che il seme originario – El Sistema venezuelano – nel frattempo ha generato l’Orquesta Sinfónica Simón Bolívar e ha lanciato nel firmamento artistico mondiale musicisti di sicura fama, uno su tutti il direttore d’orchestra Gustavo Dudamel. Ma la forza di Superar, discendente europeo di El Sistema, risiede nel grandissimo progetto di coinvolgere chi, per scelta autonoma, non avrebbe probabilmente mai imboccato un’avventura artistica come questa.

Sarebbe banale, e pure stucchevole, imboccare un discorso sulla forza educativa della musica d’assieme, che si potrebbe facilmente ergere a modello educativo. Però mi piace l’idea che questi ragazzi, sotto la guida e la partecipazione di maestri che non sono assillati da sciocchi traguardi di pagelle e certificazioni inoppugnabili e troppo spesso definitive, diano vita – gioiosamente e insieme – ad armonie che sono artistiche e, nel contempo, sociali. Qualche insegnamento lo dovrebbe pur ricavare anche la scuola dei test, degli esami reiterati e un poco tribunaleschi. Quella dell’immediata e finta spendibilità di acquisizioni scolastiche troppo spesso solo scolastiche.

Mi ha detto un collega luganese all’uscita: «Conosco tanti di questi ‘orchestrali’ e ti posso garantire che, tra i banchi di scuola, non sono sempre facilmente gestibili».

Chissà come mai a scuola no e in orchestra sì? Vuoi vedere che…

Superar Suisse sarà alla Tohnalle di Zurigo l’11 giugno alle 11.15 e il 29 giugno alle 19 alla Elisabethenkirche di Basilea.


I principi di Superar sono:

  • la regolarità e l’assiduità: almeno due lezioni, ma al meglio tre o quattro alla settimana.
  • Gratuità: La partecipazione alle lezioni Superar sono gratuiti per i bambini e genitori.
  • Pari opportunità: Superar si prefigge che tutti i bambini e i giovani possano accedere all’istruzione musicale, che si estende evidentemente in campo artistico e culturale. In tal modo Superar vuole rafforzare la loro partecipazione nella società e potenzialmente migliorarne le opportunità.
  • Preparazione artistica: Superar stabilisce elevati livelli artistici e di insegnamento per la selezione dei suoi tutor. Regolari aggiornamenti di essi anche contemporaneamente a Tutor Superar di altri paesi – che garantiscono l’alta qualità dell’insegnamento.
  • Respiro internazionale: Superar è finora l’unico progetto ispirato al programma El Sistema venezuelano, ad essere attivo in diversi paesi, tenendo concerti congiunti, corsi di formazione e incontri, sia per i tutor che per la direzione Superar, nonché per i bambini e gli adolescenti che ne fanno parte.
  • Ulteriori sviluppi: Superar è concepito come un programma di costruzione e formazione che fornisce moduli avanzati per permettere a tutti anche un futuro percorso artistico.

A che serve una nuova materia come l’educazione civica?

A fine aprile, dopo un profluvio di tira e molla, sembrava ormai guerra aperta tra i promotori dell’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» e la commissione scolastica del Gran consiglio. Quando pareva che si fosse giunti al solito compromesso, il primo firmatario dell’iniziativa aveva risposto picche, bocciando la proposta della Scolastica, colpevole di raccontare un sacco di fandonie e di non rispettare i patti così faticosamente raggiunti. «Sulla civica si andrà al voto», aveva sintetizzato questo giornale. Nei giorni successivi, invece, si è avuto il sentore che ci potrebbe essere spazio per un accordo: staremo a vedere.

Il problema resta però reale e palpabile: c’è nel paese una deficienza di senso civico, non solo tra i giovani. La proposta è l’introduzione di una nuova materia, l’«Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia diretta», insegnata per almeno due ore al mese e con l’immancabile nota sul libretto. Più volte mi sono dedicato al tema, già prima di questa raccolta di firme. La civica è una competenza complessa, che non si assimila attraverso un corso, con tanto di esami al seguito, nella convinzione che solo questo dispositivo sia in grado di far sudare le proverbiali sette camice agli studenti, ritenuti, con un pregiudizio di comodo, degli scansafatiche che si dànno da fare solo in cambio di un tornaconto immediato, come seguaci maldestri di un qualsiasi finanziere globalizzato. Già questa tesi la dice lunga sull’idea di cittadino garbato, consapevole e attivo. Ma c’è un’altra contraddizione evidente, che caratterizza chi è contrario alla proposta della nuova disciplina scolastica: perché nessuno, fino a oggi, ha detto chiaro e tondo che un corso siffatto non serve a un fico secco?

Pensiamoci bene: siamo sicuri che le finalità della scuola non mirino proprio al traguardo di educare cittadini che conoscono i loro diritti e i loro doveri, cioè che siano civicamente educati? Non c’è lo spazio per riportare il testo completo dell’articolo di legge, ma già il primo paragrafo, nella sua complessità, è di una chiarezza disarmante: «La scuola promuove, in collaborazione con la famiglia e con le altre istituzioni educative, lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». In questa quarantina di parole c’è tutto: si vogliono educare cittadini che non evadono il fisco, che si interessano della cosa pubblica, che hanno i mezzi culturali per crearsi un’opinione autonoma, che praticano instancabilmente l’arte del dubbio, alla ricerca di risposte esaurienti e mai definitive. E ancora: che si appassionano alle arti, alla filosofia e alla storia, che padroneggiano la propria lingua, che sanno evitare le ‘verità dogmatiche’, che conoscono la differenza tra tollerare – verbo infido – e accogliere.

Una volta la scuola dello Stato era consapevole che il compito doveva essere svolto con la famiglia e con altre istituzioni educative. Oggi non si sa, sembra essersene dimenticata. Diego Erba, per tanti anni direttore della Divisione della scuola del DECS, ricordava in un suo articolo che «la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società». Inventare una nuova disciplina scolastica e obbligatoria, che si affiancherebbe alle finalità della Scuola, è una goffaggine del tutto inutile: anche se, ormai, siamo abituati a tutto.

Vietare non serve a nulla, ma è un bell’alibi quando l’adulto non sa più che pesci pigliare

Il portale TicinoLibero ha dato notizia che tre parlamentari – il popolare democratico Giorgio Fonio, il socialista Henrik Bang e la liberale Maristella Polli – hanno presentato un’interrogazione per chiedere di proibire i cellulari a scuola, mirando ad arginare il fenomeno bullismo.

Scrivono che «Sui telefonini l’assedio si moltiplica per dieci, per cento, per mille. Chi è finito nel mirino ha l’impressione che non ci sia nulla da fare, che sia impossibile difendersi. Nasce un senso di solitudine e di impotenza. La vergogna spesso conduce al silenzio: non si osa parlarne ai genitori, ai docenti. Il ragazzino, l’adolescente, si deprime. Se la cosa si prolunga nel tempo, possono comparire idee suicidarie e in qualche caso la vicenda finisce in tragedia».

La proposta non è una novità assoluta. Già sul finire del 2006 un altro parlamentare liberale, all’epoca pure insegnante di scuola media, aveva chiesto al Consiglio di Stato se non fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Avevo commentato la notizia sul Corriere de Ticino del 12 gennaio 2007: Telefonini a scuola: educare o reprimere?

La mia opinione, oggi che sono passati dieci anni, non è per nulla cambiata, anche se di miglioramenti concreti non se ne sono visti, malgrado la drammaticità di tanti esiti.

A scuola, come in famiglia, certi divieti sono il chiaro segnale di adulti che non sanno più che pesci pigliare: ma i docenti sono professionisti formati e pagati per fare scelte educative  attendibili, a differenza dei genitori. Oso credere che la sparata dei tre parlamentari sia una sorta di sasso nello stagno, per svegliare chi non dovrebbe proprio dormire.

Insomma: e se la scuola ricominciasse a educare e a far cultura, smettendo di essere al traino dell’economia globalizzata? Se la piantasse di essere schiava di una selezione controproducente, iniqua e costosa, e tentasse invece di puntare alle vere finalità della scuola pubblica e obbligatoria?