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Il general Guisan e la generale ignoranza della storia

In pochi giorni mi è capitato di leggere nella stampa locale due diversi articoli che facevano riferimento ad Henri Guisan, generale dell’esercito svizzero eletto dall’assemblea federale il 30 agosto 1939. Armando Dadò ha intitolato «Conoscere la storia» l’editoriale di luglio del suo mensile La Rivista: «Guisan è sempre stato “il Generale” per antonomasia. Si può quindi capire come rimasi di stucco quando consegnai un libro sul Generale a una brava ragazza che dopo il liceo si era laureata con successo, e mi chiese chi fosse questo Guisan. Ne rimasi sbalordito e pure la ragazza si sorprese di non sapere. È mai possibile, pensai, che una persona intelligente e fresca di studi, ignori il nome di Henri Guisan? Questo significa non sapere che ruolo ha avuto la Svizzera durante il secondo conflitto mondiale».

Il 13 luglio, su queste pagine, Matteo Airaghi ha ricordato «L’angoscia rimossa del mese più buio», quello racchiuso tra il 25 giugno e il 25 luglio 1940. A pochi giorni dalla capitolazione della Francia, il presidente della confederazione Pilet-Golaz pronunciò un ambiguo discorso alla nazione, «sulle cui infelici ambiguità – ha scritto Airaghi – gli storici ancora non concordano, ma che di fatto venne percepito dalla popolazione come una sorta di preparazione alla resa nei confronti dell’incipiente nuovo ordine mondiale e alla pressoché ineludibile fine della democrazia». La risposta arrivò giusto un mese dopo. Nel momento in cui la Svizzera era accerchiata dalle potenze dell’Asse, Guisan convocò i comandanti militari al Grütli, luogo-simbolo del paese: «Siamo giunti a una svolta decisiva nella storia del nostro paese. Non si tratta soltanto di un regime politico ma dell’esistenza stessa della Svizzera. Il solo mezzo di essere rispettati è quello di affermare la nostra volontà di difenderci fino alla fine e di vendere cara la nostra pelle». Dadò e Airaghi avevano entrambi citato un articolo di Claudio Magris, «Indifesi perché smemorati: chi ignora il passato non sa affrontare l’oggi» (Corriere della Sera del 23 febbraio), titolo rivelatore di una riflessione profonda e severa.

Il 25 luglio 1940 il generale Henry Guisan convocò al Grütli, luogo-simbolo del paese, gli ufficiali con potere di comando dell’esercito svizzero.

È inutile fingere che la scuola, e con lei tutto il sistema della formazione e dell’informazione, non abbia colpe nella diffusa ignoranza della storia. Ma, nel contempo, bisogna pur dirlo senza troppi giri di parole: non è vero che in altri anni si conosceva la storia – ed erano anni, non solo per i comuni cittadini, meno affollati di informazioni e di bugie. La storia – e altre discipline essenziali come le scienze e le arti – la conoscevano alcune élite, era la storia delle date, degli avvenimenti, dei nomi e dei miti. Man mano che ci si inoltrava nella scolarità aumentavano le nozioni, ma in tanti si fermavano alla scuola maggiore. Non si può dimenticare che fino al 1974 in Ticino c’era un unico liceo, non certo un liceo di massa.

La scuola di oggi, e anche questo bisogna dirlo, si occupa della storia con un atteggiamento ambiguo. Pochi anni fa la divisione della scuola del DECS ha pubblicato due splendidi manuali per la scuola media, «La Svizzera nella storia», dal paleolitico alla globalizzazione attraverso testi espositivi, documenti, linee del tempo, carte, grafici, esercizi, approfondimenti e voci di glossario. Ma la dotazione oraria è avara, e non è certo un caso se, nei mesi della scuola a distanza e della presenza a singhiozzo, la storia apparteneva alle materie a discrezione di ogni istituto: dopo, nell’ordine, matematica, tedesco, italiano e inglese.


Note e riferimenti

Questo articolo è apparso nel Corriere del Ticino col titolo «L’ignoranza della storia».

ARMANDO DADÒ, «Conoscere la storia», in la Rivista – Mensile illustrato del Locarnese e Valli, N° 7, Luglio 2020, pp. 7 e 9

MATTEO AIRAGHI, «L’angoscia rimossa del mese più buio», in Corriere del Ticino, N° 158, 13.07.2020, pp. 1 e 11

Su MARCEL PILET-GOLAZ (1889-1958) si veda il Dizionario Storico della Svizzera (https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/004641/2011-02-03/). In particolare, riguardo a quanto citato nel mio articolo, vi si legge:

Presidente della Confederazione per la seconda volta nel 1940 (…), il 2 marzo dello stesso anno succedette a Giuseppe Motta alla testa del Dipartimento politico. In questa duplice veste dovette far fronte alla grave crisi di fiducia che la Svizzera attraversò dopo la sconfitta della Francia in giugno. Il suo discorso del 25.6.1940, approvato dal Consiglio federale, aspirava a rassicurare il Paese, ma la sua retorica infelice e le affermazioni, quanto meno ambigue, in favore di una rigenerazione autoritaria della democrazia non fecero che alimentare l’incertezza. In seguito Pilet-Golaz non fece nulla per dissipare i malintesi. Al contrario, il 10 e 14 settembre successivi, ricevendo i rappresentanti del Movimento nazionale svizzero, favorevole all’allineamento della Svizzera al Terzo Reich, offrì ulteriori argomenti ai sospetti che continuarono a gravare su di lui anche in seguito.

Incaricato di applicare la politica di neutralità del Consiglio federale, Pilet-Golaz omise di informare i colleghi sulle strette relazioni che intratteneva con il ministro di Germania a Berna. Né la grave crisi diplomatica del luglio del 1940, preceduta dai combattimenti aerei tra la Luftwaffe e alcuni caccia svizzeri, né le proteste e le reiterate pressioni del Reich contro la stampa svizzera o la posizione assunta da Berna nei negoziati economici con la Germania permettono però di dubitare veramente della sua volontà di difendere l’indipendenza e la sovranità della Confederazione, dal novembre del 1942 circondata dalle potenze dell’Asse. Pilet-Golaz sembra invece aver creduto, almeno fino all’autunno del 1942, nella vittoria del Reich e la sua mancanza di prudenza verbale, per quanto calcolata, poté più volte far dubitare Berlino quanto alla fermezza delle sue convinzioni democratiche o alla sua determinazione a mantenere una posizione di stretta neutralità.

Sul discorso di HENRI GUISAN (1874-1960) del 25 luglio 1940, si veda nuovamente il Dizionario Storico della Svizzera: Rapporto del Grütli.

CLAUDIO MAGRIS, «Indifesi perché smemorati: chi ignora il passato non sa affrontare l’oggi», in Corriere della sera, 23.07.2020

I due volumi «La Svizzera nella storia», editi dalla divisione della scuola del DECS, non sono in commercio. Ne avevo scritto sul Corriere del Ticino alla pubblicazione di ogni volume: La storia nella scuola e la Svizzera nella storia (15.03.2013) e «La Svizzera nella storia», un manuale scolastico di gran pregio (20.12.2014)

«E i maestri erano persone…»

È difficile parlare di scuola ai tempi del coronavirus. Le scuole sono chiuse da metà marzo, ma è in funzione online il lavoro di insegnanti e allievi. Le scelte della conferenza svizzera dei direttori della pubblica educazione meritano un complimento: in situazione di estrema urgenza bisognava salvare l’anno scolastico e garantire almeno la continuazione dell’attività didattica. Si può credere che lo sforzo di organizzazione e coordinamento sia stato enorme, anche se ben difficilmente le pratiche che stanno solcando le onde del www saranno sostanzialmente diverse dall’approccio che si era tenuto in aula fino a lì. Gianni Rodari, nella sua «Grammatica della fantasia», ha annotato: «Tutti gli usi della parola a tutti mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo». Va da sé che il motto travalica le finalità dell’insegnamento della lingua italiana, abbracciando anche la matematica e le scienze naturali; cioè includendo gli scienziati, quasi sempre artisti senza palcoscenico e pubblico plaudente. Così qualcuno, immerso in questa visione ideale, starà apprezzando il valore della lentezza e di ciò che è essenziale, mentre altri avranno rafforzato la loro persuasione di aver solo perso un pezzo del programma di studio.

Un racconto abbastanza noto di Isaac Asimov, pubblicato per la prima volta nel 1951, narra di due ragazzini che, nel 2157, trovano in solaio un libro che parla della scuola ai tempi dei loro trisavoli. Scoprono così che, secoli prima, l’istruzione non era impartita da un insegnante meccanico. Gli insegnanti «non vivevano in casa», come a quei tempi. «Avevano un edificio speciale e ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare». E il maestro? «Certo che avevano un maestro, ma non era un maestro regolare. Era un uomo. Spiegava le cose, dava da fare dei compiti a casa e faceva delle domande». Il dibattito è vecchio: «La mia mamma dice che un insegnante dev’essere regolato perché si adatti alla mente di uno scolaro, e che ogni bambino deve essere istruito in modo diverso».

Sappiamo bene che l’insegnante meccanico congetturato settant’anni fa da Asimov assomiglia a tanti maestri e professori che operano nelle nostre aule e che oggi si rispecchiano nella scuola a distanza. Il mercato tecnologico offre programmi efficienti e meno noiosi di un maestro noioso; e sono capaci in ogni momento di misurare il livello di acquisizione e di regolare al punto giusto le difficoltà. Conviene dunque riflettere su questo aspetto. Per capirci: l’educazione dei cittadini di domani non può fare a meno di quello spazio di libertà e di crescita culturale che, a certe condizioni, sboccia nelle aule scolastiche. È in quel luogo di ricchezze che si diventa adulti competenti, emancipati e maturi, checché ne pensino il parlamento e parte del popolo che va a votare – tanto per ricordare che l’educazione civica, declassata a livello di nozioni, s’imparerebbe meglio con un software. Ma siamo ancora lì, a ciondolare tra gli scopi fondamentali della scuola pubblica e le miserie della selezione scolastica.

«Chissà come si divertivano!», conclude il racconto di Asimov, con un pensiero ai bambini di quei tempi e a come dovevano amare la scuola. Quando «i maestri erano persone…»


Citazioni

La citazione di Rodari è tratta da GIANNI RODARI, Grammatica della fantasia – Introduzione all’arte di inventare storie – 40 anni, Edizione speciale arricchita da contributi inediti, 2013: Einaudi Ragazzi, p. 24

Il racconto di Isaac Asimov fu pubblicato nel 1951 in un periodico per ragazzi col titolo The Fun They Had. Ha scritto lo stesso Asimov, nell’introduzione del volume The Best of Isaac Asimov (1974), che quel racconto è diventato «probabilmente la più grande sorpresa della mia carriera letteraria».

La traduzione italiana alla quale ho attinto è quella di Wikipedia: Chissà come si divertivano. Ringrazio l’amico che me l’ha segnalato, facendolo riemergere da una lettura ormai dimenticata da qualche decennio.

C’era cento volte Gianni Rodari

«Interessante e piacevole l’incontro con Gianni Rodari, il favoleggiatore italiano, che giovedì sera ha saputo egregiamente parlare di favole e ‘fabulare’ per il numeroso pubblico presente a Locarno. I futuri maestri, coloro che, come i genitori, saranno più a contatto con i bambini, secondo il sensibile inventore di favole d’oggi, apprenderanno di più, erano accorsi in massa». È l’inizio di un articolo apparso sul CdT, a commento e cronaca di una delle due conferenze che il giornalista, pedagogista e scrittore per l’infanzia tenne in Ticino nel marzo del 1977. Il 2020 sarà un anno speciale per Rodari: nato il 23 ottobre di cent’anni fa a Omegna, era stato insignito nel 1970 del premio Andersen, che è considerato il Nobel della letteratura per l’infanzia. Ci lasciò improvvisamente nel 1980.

Basterebbe il premio Andersen per sintetizzare il valore e la complessità di questo grande intellettuale. Proprio durante l’incontro locarnese – c’ero anch’io, giovane maestro poco più che ventenne, benché i ricordi siano del tutto sfocati – raccontò: «Personalmente ho cominciato a scrivere filastrocche per bambini qualcosa come trent’anni fa. Era un quotidiano politico, io ero un giornalista, ma certo non pensavo allora, come non ho mai pensato in seguito, che il mio dovere fosse di scrivere articoli di fondo a rime baciate. Giocavo, ho giocato. Rileggendo oggi le più vecchie filastrocche ci trovo echi di surrealisti francesi, dei futuristi italiani, di Palazzeschi, di Zavattini. Forse quello che ho fatto è stato di trasformare in giocattoli per i bambini il mio amore  per certi poeti e per le loro scoperte. Forse questo vuol dire che il mio interesse per la vita è stato più forte del mio interesse per la poesia. Ma non voglio addentrarmi in questa introspezione. Lo farò quando sarò vecchio, se non avrò più voglia di fare giocattoli».

Già questo testimonia come Rodari non sia stato solo un abile «favoleggiatore» o un comodo «rimatore» per bambini: comodo, sì, perché in quegli anni concitati la scuola abbracciò il suo progressismo e la sua rivoluzione della letteratura per l’infanzia. Il «rodarismo» nacque da lì, perché stravolgeva i moralismi di tanti classici – moralismi creati dalla scuola e non dai suoi autori – e si presentava con storie che parevano facili da capire. Proprio negli anni delle prime crisi energetiche e della fine del baby boom, i romanzi, i racconti e le filastrocche di Rodari hanno rappresentato per molti maestri una specie di formula magica per accedere alla «nuova educazione» e alla scuola attiva. Ma la scuola di tutti i giorni banalizzò la sua letteratura, restò in superficie. Ha scritto Pino Boero, profondo conoscitore dell’opera e del pensiero di Rodari: «Andrà detto con chiarezza che sia in molte scelte antologiche che in diverse edizioni scolastiche delle sue opere, è stata comunque presente un’ambiguità di fondo, che ha preferito usare i libri rodariani come pretesti piuttosto che valutarli nella loro reale portata pedagogica e letteraria».

Il triplice anniversario potrebbe essere l’occasione irripetibile per riscoprire l’arte di Gianni Rodari e, nel contempo, per immergerla nel contesto dell’Educazione nuova: un amalgama di idee nate oltre cent’anni fa, ma mai adottate dalla scuola, che oggi avrebbe bisogno di ritrovare, dentro le aule, la giusta serenità. Rodari, prima di proporlo a bambini e ragazzi, bisognerà spiegarlo agli insegnanti, a partire dalla «Grammatica della fantasia», un classico letterario e pedagogico.


Riferimenti

Normalmente riporto nel blog i titoli apparsi sul Corriere del Ticino, nella rubrica «Fuori dall’aula». Faccio un’eccezione per questa occasione, mantenendo il titolo che avevo scelto io (è invece uscito con un più semplice «Cento volte Gianni Rodari», probabilmente per una ragione grafica).

  • L’articolo del Corriere del Ticino citato in apertura è apparso a pagina 11 dell’edizione di sabato 5 marzo 1977, a firma A. O., col titolo I diritti della fantasia rivendicati da Rodari.
  • La citazione da una delle conferenze ticinesi di Gianni Rodari l’ho ricevuta dal prof. Pino Boero, che l’ha a sua volta citata durante un recente Convegno all’Università di Catania (Altre cento di queste favole, 14.01.2020). L’estratto gli era stato fornito da Giorgio Diamanti, che, secondo lo stesso Boero, «è il maggior raccoglitore di testi rodariani».

  • La frase di Pino Boero è tratta da: PINO BOERO, Una storia, tante storie – Guida all’opera di Gianni Rodari, 2010: Einaudi ragazzi, p. 235. In realtà le poche righe che ho ripreso prendono le mosse da una riflessione più articolata.

Il posto occupato da Rodari all’interno della scuola italiana non sempre è così produttivo. Giuseppe Pontremoli, ad esempio, riscontra come la presenza di Rodari nei libri di testo spesso finisca per diluirne la proposta pedagogica e letteraria:

Sì, perché inevitabilmente i testi antologizzati (…) sono quelli (…) più indifferentemente accettabili, sono quelli più generici, o quelli più meramente «linguistici». E questi, presi a sé, fuori dal mondo di progettualità in cui sono nati (…) non hanno molto senso, come acqua del mare in un bicchiere [G. PONTREMOLI, Il prezzemolo Rodari, in «Linea d’ombra» n. 28, giugno 1988]

Andrà detto con chiarezza che sia in molte scelte antologiche che in diverse edizioni scolastiche delle sue opere, è stata comunque presente un’ambiguità di fondo, che ha preferito usare i libri rodariani come pretesti piuttosto che valutarli nella loro reale portata pedagogica e letteraria: le edizioni di Atalanta [G. RODARI, Atalanta, note ed esercitazioni a cura di R. Paternicò, S. Prini e G. Rota, Editrice Piccoli, Milano 1985] e Tante storie per giocare [G. RODARI, Tante storie per giocare, note ed esercitazioni di L. Benatti, Editrice Piccoli, Milano 1987] sono proprio l’esempio di come Rodari non voleva fosse un testo di lettura per bambini:

La trasformazione del libro in uno strumento di fatica prosegue e s’intensifica attraverso le varie fasi del riassumere, del mandare a memoria, del descrivere le illustrazioni, eccetera. Tutti questi esercizi moltiplicano le difficoltà della lettura, anziché agevolarle, fanno del libro un pretesto togliendogli ogni capacità di divertire [G. RODARI, 9 modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura, in «Il Giornale dei Genitori», n. 10, 1964].

  • GIANNI RODARI, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, 1ª edizione 1973, Giulio Einaudi Edizioni.

Una scuola serena

Chi conosce qualche maestro o direttore di una scuola elementare ha certamente sentito alcuni mugugni che circolano da qualche tempo: troppa burocrazia, programmi iperbolici, scarso dialogo con la Sezione delle scuole comunali. Difficile dire con certezza cosa c’è di vero. Sta di fatto che, a fine settembre, un manipolo di deputati liberali ha inoltrato un atto parlamentare, che tocca tre aspetti dello stesso problema e pone una ventina di domande al Dipartimento dell’Educazione. «Molti attori della scuola dell’obbligo – scrivono – sono confrontati con un aumento non indifferente di oneri burocratici. Se da un lato essi possono considerarsi una necessità per lo svolgimento ottimale e professionale del proprio lavoro e per uniformare le pratiche sul territorio, dall’altro, un loro eccesso sottrae tempo prezioso ad altri compiti ritenuti fondamentali che le rispettive professioni comportano, come ad esempio la riflessione e la preparazione didattica e pedagogica; inoltre, influisce negativamente sull’aspetto motivazionale accrescendo una sensazione di fatica e sovraccarico».

C’è un malessere che raccontano in tanti. L’interrogazione, peraltro, parla di scuola dell’obbligo, ma in realtà si china solamente sul primo segmento, quello storicamente comunale. È immaginabile che il riformismo concitato del Dipartimento di Bertoli generi malumori, la cui percezione è fatalmente soggettiva. Molti cambiamenti di questi ultimi anni, nondimeno, discendono dall’iniziativa popolare «Aiutiamo le scuole comunali», depositata nel 2009. Essa aveva goduto di un successo strepitoso, conteneva un ampio ventaglio di proposte ed era stata firmata (anche) da una cospicua percentuale di addetti ai lavori. A oggi molte di quelle richieste sono diventate realtà; ma, va da sé, non è quasi mai possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. È però vero che, nel frattempo, c’è stata la lunga e sviante vicenda della «Scuola che verrà», nonché il varo del nuovo «Piano di studio».

Detto questo, non si può sottacere che i liberali si erano accodati alla processione che intonava a pieni polmoni il de profundis a una scuola diversa: perché poi ci vorrebbe una profonda coerenza per progettare la scuola di domani, senza perdere per strada il primato dell’educazione dei futuri cittadini. Invece anche i fondatori, tanti anni fa, della scuola pubblica, laica e obbligatoria, appartengono ormai a quella maggioranza politica che non sa fare a meno delle note scolastiche sin dall’età più tenera dei suoi scolari, ben sapendo che si tratta di valutazioni arbitrarie, che dipendono solo in parte irrilevante dal livello di sviluppo cognitivo e affettivo di ogni bambina o bambino; mentre sono in balia della qualità dell’insegnamento, della capacità di costruire validi e significativi strumenti di valutazione, dell’interpretazione soggettiva degli obiettivi da raggiungere, del livello culturale del maestro e del suo carisma.

È possibile immaginare una scuola completamente diversa da quella che conosciamo e che i più vorrebbero conservare, in modo gattopardesco, immutata nei secoli? Certo che si può, senza neanche inventarsi chissà quale diavoleria. Si potrebbe partire, ad esempio, dalla massima eterogeneità delle classi, dall’insegnamento in équipe e da piani di studio che puntino all’essenzialità della matematica, delle scienze naturali e delle discipline umanistiche – arti e filosofia comprese. Una scuola serena, insomma. Tutto ciò non riguarda solo i liberali, ovvio.

Gli svogliati e il patto della scuola col paese

Gli ultimi scorci d’agosto hanno coinciso coi riti che lanciano un nuovo anno scolastico, con le vetrine dei negozi che ammiccavano a scolari e studenti e i giornali pieni di statistiche – tot docenti, tot allievi – e riflessioni sulla scuola che, di lì a qualche giorno, avrebbe alzato il sipario sulla nuova e spettacolare puntata sui temi dell’istruzione e dell’educazione dei futuri cittadini. Ancora una volta hanno tenuto banco la mobilità lenta e qualche iniziativa insolita. C’è un istituto, per dire, che vende banchi di scuola vintage a prezzi stracciati per comprare nidi per le rondini. Problemi grassi della scuola che c’è già.

Qua e là ha fatto capolino la condanna degli svogliati. Il popolo sovrano ha mostrato il pollice verso alla «Scuola che verrà», che è il parere dell’arena: le note scolastiche sono l’asse portante della scuola, per cui se, poniamo, un ragazzino di sei anni non impara un po’ in fretta a scrivere le prime semplici frasette – diciamo entro Natale – ci sono solo due possibilità: è un incapace o un fannullone. Nell’uno come nell’altro caso, meglio intervenire subito con dei brutti voti, così si risparmiano energie superflue e si evita che i genitori covino progetti irrealizzabili.

In questo rito, che ha in sé, per definizione, un che di ripetitivo, Ernesto Galli Della Loggia, (CdT del 24 agosto), ha sostenuto che «Poche istituzioni come la scuola hanno risentito dei grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni nelle nostre società. A cominciare dal cambiamento principale: e cioè che nel complesso siamo diventati una società ricca, largamente soddisfatta, appagata anche in molti bisogni superflui». E poi: «Quando eravamo meno benestanti era naturale guardare alla scuola come a uno strumento decisivo perché i figli migliorassero la condizione familiare di partenza. Farli studiare era considerato come l’occasione unica e irripetibile per uscire dal disagio e dalla privazione, per salire nella scala sociale. Questo fenomeno in buona parte non esiste più». Concordo che il patto tra la scuola e la società è saltato. Per dirne una, l’inserimento nel mondo del lavoro era praticamente garantito sin dagli anni ’50, e più si andava lontano con la formazione, più «da grandi» si sarebbero svolte professioni ben retribuite e socialmente riconosciute. Già da un bel po’ di anni questa equazione è stata spazzata via, salvo per quei pochi che seguono le orme dei padri – a patto, per lo più, che ci sia da ereditare uno studio o una ditta, e non da costruire ex novo.

Gli ultimi rilevamenti statistici raccontano però che la sottoccupazione ha raggiunto livelli mai visti prima, che l’interinato è vieppiù una regola con cui fare i conti e che il nostro è il cantone coi salari più bassi della Svizzera – mentre, per dire, un pacco di pasta della Migros costa uguale a Locarno o Zurigo. Va da sé, questa tendenza colpisce ampiamente i giovani.

Parrebbe insomma che tutta la fregola efficientista della politica scolastica dell’ultimo trentennio, culminata finora nei nuovi piani di studio, pretenziosi e illusori, non abbia fin qui prodotto granché. Sull’altare di un contratto fallace tra la scuola, la finanza e l’imprenditoria si sono sacrificati valori che in troppi – dalla politica ai sindacati ai media – hanno ritenuto sorpassati e inutili. Ridateci la storia, la geografia e le arti, che almeno ci permetteranno di capire il presente e di progettare un futuro più giusto. Con tutto il rispetto per le rondini, prediligo ancora Leopardi.