Un ex collega e amico, col quale, da un po’, non si va più molto d’accordo sulle cose scolastiche, mi ha apostrofato via posta elettronica: «Sei sicuro che la scuola sia davvero obbligatoria? Negli ultimi anni che insegnavo ho notato che, con scuse varie, c’è chi parte per le vacanze prima del termine, chi torna dopo, chi ha appuntamenti dal medico o dal dentista: l’obbligatorietà è sempre più teorica». Be’, se si guarda la scuola da questo punto di vista, ha naturalmente ragione lui. Confermo, la situazione, oggi, è quella. Questo considerare il calendario scolastico come un’indicazione generica e non come un dovere è iniziato una trentina di anni fa, dapprima nelle settimane a cavallo del Natale, complice la presenza di immigrati da posti lontani, che qua non avevano radici. Così partivano o tornavano in accordo coi loro datori di lavoro, non sempre con la scuola. Poi, piano piano, il fenomeno si è allargato e oggi, ove più ove meno, questo calendario prêt-à-porter riguarda tutto l’anno scolastico – e tante famiglie indigene.
Mio padre, che lavorava nell’edilizia, raccontava di molti muratori così iellati che, all’avvicinarsi del Natale, dovevano partire improvvisamente per il sud Italia, per stare vicini a genitori e nonni pronti a imbarcarsi per l’aldilà. Erano figli senza essere padri. È un fenomeno che, tempo dopo, ho conosciuto anch’io, da direttore di scuola. Tante famiglie provenienti dai quattro angoli del pianeta avevano i parenti più cari molto lontani, e anche loro, ogni tanto, sembravano lì lì per salpare, proprio sotto Natale. Naturalmente c’erano anche famiglie più sincere, che sfruttavano questa o quell’altra festività per organizzare una vacanza extra, e chiedevano il permesso.
Insomma, sono finiti i tempi in cui la scuola dettava i ritmi urbi et orbi. Per quasi tutto il secolo scorso il rispetto del calendario scolastico è stato totale. Il primo giorno di scuola erano tutti lì, puntuali, emozionati e lustri; e fino a metà giugno, fosse pure tra uno sbadiglio e l’altro, nessuno si sognava di inventare giustificazioni intricate per scappar via qualche giorno dalla scuola – neanche il sabato mattina, che era ancora giorno di lezioni. Ma era visibilmente un altro mondo, con una diversa organizzazione del lavoro.
È sotto gli occhi di tutti qualche evidente incongruenza. In molte località, ad esempio, una percentuale significativa di padri e madri è impiegata nell’industria turistica. La scuola, però, a metà giugno abbassa le saracinesche. Così schiere di bimbi e ragazzi trascorreranno la lunga estate in colonia e nei doposcuola, oppure in paesi a diverse ore da noi, ospiti di nonni e parenti vari. Alla riapertura della scuola torneranno in aula, stanchi ma felici di ritrovare la loro quotidianità. Poi i maestri diranno che non ricordano più nulla di quel che avevano imparato entro giugno, magari con tanta fatica. Diranno, i maestri, che i ragazzi di oggi non sanno più fissare nel tempo quel che hanno appreso. Daranno la colpa alle famiglie, che se ne infischiano, e a smartphone e tablet, che mandano alla svelta il cervello (degli altri) in pappa.
I tempi della scuola sono un altro immobilismo istituzionale che è difficile da capire, se non alla luce di un conservatorismo fine a sé stesso: si è fatto così sin dal paleolitico della scuola repubblicana; e, tra alti e bassi, eccoci qua, noi ricchi occidentali, cittadini del mondo, interconnessi l’un l’altro grazie al web. Cosa c’è che non va, dunque?
Potrebbe aiutare dando 2-3 giorni di congedo a scelta. Nelle ciclo secondario del Schächental (nel canton Uri l’organizzazione scolastica é comunale e non cantone, dunque si ci sono i livelli o ancora le maggiori dipende da comune a comune) gli allievi ricevono 2-3 giorni di congedo che possono prendere a piacimento, e quando sono finiti sono finiti.
Caro Nicola, grazie per la tua suggestione.
Anche solo restando alle questioni «calendario scolastico» e «obbligo di frequenza» c’è molto da dire. Nel bel volumetto che ho recensito pochi giorni fa (v. «Se il cucciolo d’uomo non impara, muore») il tuo autorevole omonimo Mauro Martinoni propone qualche cifra statistica: «nella scuola elementare 878 ore di lezione annue in Ticino, 928 a Ginevra e 741 ore a Lucerna: per i cinque anni di scuola elementare tra Ginevra e Lucerna ci sono quasi 1000 ore di differenza. Non mi risulta che gli allievi di Lucerna siano meno preparati di quelli di Ginevra!».
Ricordo un aneddoto di qualche anno fa. Il calendario scolastico non prevedeva il ponte in uno di quei venerdì primaverili che succedono a una festa – sarà stato il Corpus Domini. La settimana successiva un municipale strepitò in seduta che nella sede scolastica frequentata dai suoi figli quel venerdì le classi erano dimezzate. Proponeva quindi che il municipio di Locarno si rivolgesse al Consiglio di Stato affinché in futuro questi ponti ci fossero sempre. Il Municipio mi chiese di verificare quante erano state le assenze in quella sede e in quel giorno: verifica facilissima e risultato scontato, perché in pratica non mancava nessuno.
In realtà il vero problema non riguarda le eventuali sanzioni verso quelle famiglie che, qualche volta, fan marinare la scuola ai loro figlioli – e i motivi possono essere tantissimi e assai spesso del tutto legittimi. Abbiamo un calendario scolastico di 36.5 settimane da trascorrere a scuola tra l’inizio di settembre e metà giugno. Altri cantoni, si sa, hanno organizzazioni diverse.
Ma la cosa più incongrua è che, con l’unica eccezione della Festa dei lavoratori, le pause scolastiche sono tutte dettate da eventi religiosi: le vacanze autunnali dipendono da Ognissanti (e i cristiani autoctoni le chiamano “Vacanze dei morti”); poi ci sono le vacanze di Natale e, a seguire, quelle di Carnevale, ma le date del Carnevale dipendono dalla Pasqua.
La Pasqua fa scattare l’ultima vacanza scolastica di almeno una settimana, cade sulla prima domenica dopo il plenilunio di primavera (sic) ed è quindi sempre compresa tra il 22 marzo e il 25 aprile. Come è noto, la Pasqua determina poi, a monte o a valle, Carnevale, Ascensione, Pentecoste e Corpus Domini (festa che, a volte, sfugge all’anno scolastico: se la Pasqua è alta si chiude prima).
Da ultimo, ma non per ultimo, non si possono scordare l’Immacolata concezione (8 dicembre) e San Giuseppe (19 marzo).
Ne ho scritto più volte, come ad esempio nel 2005 (La scuola e il plenilunio di primavera), nel 2008 (La scuola ticinese fra cicli lunari e orbite solari) o nel 2014 (La scuola, la tradizione cattolica e il culto del sole).