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La scuola nel libero mercato: riecco gli istituti privati

Toh, chi si rivede!? Sergio Morisoli, con Paolo Pamini, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata «La scuola che vogliamo: realista». Scopo dichiarato: riformare l’attuale Legge della scuola. In un riassunto per chi è di fretta si elencano ventotto principi fondatori di una scuola di destra: se ne sentiva la mancanza. Da dritta a manca è tutto un tratteggiare scuole che verranno. Manuele Bertoli, socialista e direttore del dipartimento dell’educazione, ha già detto la sua, sollecitato dal Corriere. A domanda «Quali le misure problematiche o molto problematiche?», ha risposto con inusuale prudenza, affidando una risposta più articolata al normale percorso degli atti parlamentari.

Ma qualcosa ha detto. Ad esempio che «Il finanziamento delle scuole private, anche parziale, è senza dubbio problematico», anche «perché il popolo ha detto molto chiaramente la sua nel 2001». Oddio, sono passati tre lustri, che, di questi tempi febbrili e smemorati, è quasi un’era geologica. Avevo subito avuto l’impressione che la grande fiducia ottenuta quell’anno dalla nostra scuola fosse stata dilapidata nel breve tempo della vita effimera di una farfalla. In questa rubrica avevo pubblicato un articolo nel febbraio del 2002 – «Che ne è stato del 18 febbraio?» – in cui evocavo, tra tante persone e cose, la lettera di uno studente liceale che segnalava una riforma in corso, «che sfavorisce il settore umanistico, aumenta la selezione» e tende «a sottomettere la formazione agli interessi del mercato». Naturalmente la scuola realista sognata da questa destra non è la stessa di quella che la sinistra dice che ci sia già, almeno in parte, o vorrebbe che ci fosse, migliorata. Nei quasi trenta enunciati, che si configurano come «le maggiori novità della proposta», si leggono asserzioni non sempre fresche di pensata: una scuola pubblica anche un po’ privata; civica obbligatoria e religione a doppio binario; mantenimento della valutazione con i voti; difesa di un percorso selettivo a livelli; e via conservando.

Non mancano neanche le idee innovative, come la decentralizzazione del potere scolastico dal dipartimento agli istituiti scolastici: d’accordo, ma a condizione che resti il primato della Scuola pubblica e obbligatoria, un’istituzione al servizio dello Stato, come l’esercito o la giustizia. Delle sparate liberiste, secondo cui il mercato risolve tutto, ne abbiamo piene le tasche. Infatti la sensazione che si prova leggendo il corposo documento della destra nostrana è che si voglia realizzare un sistema scolastico che non faccia perdere tempo: è chiaro a tutti che chi nasce nella famiglia giusta avrà tante probabilità di riuscire bene a scuola e di proseguire il suo cammino verso la ricchezza e il potere, senza troppi affanni. Perché, allora, perdere soldi e tempo a causa della menata delle pari opportunità? Quel febbraio del 2001, quando il Ticino si scoprì convinto difensore dell’istituzione «Scuola», sembra lontano. Ora siamo ad HarmoS, coi suoi piani di studio, le competenze e un gran brulicare di attività convulse. Poi si riprenderà il filo della scuola che verrà, e sarà curioso capire fino a che punto il paese saprà resistere alle sirene liberiste: che non sono nuove, perché di veramente nuovo, sotto il sole della scuola, c’è poco o nulla. Altre istituzioni – l’esercito, la giustizia, addirittura le chiese – nell’ultimo mezzo secolo son cambiate di più.


P. S.: Il domenicale Il Caffè del 25 settembre aveva dedicato un ampio servizio alla proposta di Morisoli e Pamini: La scuola-azienda finisce dietro la lavagna. In quell’ambito era pure apparsa una breve intervista a me (L’intervista/2: “La formazione umanistica fa capire le trasformazioni”).

Un amico e collega mi aveva mandato un breve messaggio: «Secondo me a queste domande va dato più spazio per le risposte, per l’approfondimento, altrimenti chi ti conosce condivide perché sa cosa c’è dietro, gli altri non sono sicuro che colgano il senso». Sono naturalmente d’accordo, è il rischio delle interviste telefoniche, improvvise e incontrollabili. In questo senso l’articolo sul Corriere del Ticino di oggi può fare un po’ di chiarezza.

Tra l’altro avevo chiosato questo problema in occasione di un’altra breve intervista dello stesso settimanale: si veda il post L’inclusione non esclude di per sé la selezione, del 30 marzo scorso.

La maledizione di Don Chisciotte della Mancia

Mi diverto un sacco a organizzare proposte culturali per le scuole. Sono quasi sempre momenti molto coinvolgenti, per le belle cose che si affrontano, per le persone con le quali si lavora (ci vorrebbero quasi le virgolette, perché è un lavorare delizioso), per le emozioni che si vivono e si fanno vivere ad altri.

Giovedì scorso è andato in scena «Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia», una rilettura del romanzo di Miguel de Cervantes, a quattrocento anni dalla sua morte, curata con Silvia Demartini, mia impagabile e insostituibile complice nell’ambito di «Piazzaparola».

Tanto per riassumere: «Piazzaparola» è una manifestazione letteraria nata dall’associazione «Dante Alighieri» di Lugano che, da sei anni, propone ai primi di settembre L’arte di raccontare: un classico e voci contemporanee. Quanto a me, mi occupo da quattro anni, con Silvia e con l’illustre cappello istituzionale del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, dell’appendice locarnese della manifestazione, che si rivolge agli allievi delle classi terminali della scuola elementare e che «si limita» alla presentazione del Classico di turno.

Così nel 2013 abbiamo affrontato Giovanni Boccaccio e il «Decamerone» («Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo»), nel 2014 siamo passati a Leonardo da Vinci («La cosa immaginata move il senso»), e l’anno scorso è stata la volta di Publio Ovidio Nasone («Metamorfosi – Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone»). Riguardo a quell’edizione rammento, in questo sito, «Perque omnia sæcula vivam!», «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» e «Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein».

Oliviero Giovannoni
Oliviero Giovannoni

Non fraintendiamo: non tutto è filato liscio. Dopo un’estate stupenda che si stava prolungando e che sembrava volesse durare all’infinito (La pagaremm püsee in là), una settimana prima della nostra scadenza Meteo Svizzera ha cominciato a insinuare che giovedì, proprio il nostro giovedì, sarebbe piovuto. Incredibile. Ancora il giorno prima splendevano tre o quattro soli e le temperature invitavano ai bagni e alle spiagge. Noi avevamo pensato di far rivivere Don Chisciotte in alcune evocative piazze locarnesi – il chiostro dell’ex convento dei frati, oggi scuola magistrale; la corte interna del castello visconteo; il mercato di Piazza Grande; il patio della biblioteca cantonale – e invece ci toccava inventare all’ultimo minuto, e immersi nell’incredulità, una nuova versione al coperto, dentro il Teatro di Locarno.

Un amico di Meteo Svizzera, il sabato precedente, 10 settembre!, mi ha scritto che effettivamente avevo scelto male il giorno in cui organizzare la manifestazione e che sicuramente Don Chisciotte avrebbe avuto una qualche colorita espressione in castigliano stretto per definire la fortuna in un caso simile.

Sara Giluvi è Mari, la cameriera dell'investitura
Sara Giluvi è Mari, la cameriera della locanda in cui Don Chisciotte diventò Cavaliere con tutti i crismi e le formule specifiche.

Detto ciò, quel piovoso giovedì 15 mi e ci ha lasciato alcune sensazioni incredibili e incancellabili, malgrado le ansie della vigilia, quando siamo stati costretti, ancora scettici, a inventarci una nuova scaletta, lontana dalle piazze.

Il Teatro di Locarno, stipato in ogni ordine di posti – c’erano 25 classi, provenienti da più parti del cantone, quasi 520 persone tra allievi e insegnanti – ha pulsato per l’intera durata dello spettacolo: un pubblico preparato e attento, capace della massima concentrazione nei momenti difficili, dell’applauso quando ci voleva (con dei momenti da stadio!), del giusto pathos nei passaggi più emozionanti e, diciamolo, intellettuali.

Cristina Zamboni, Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali, Sancho Panza
Cristina Zamboni è Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali è Sancho Panza

Tutto ciò, tutto questo successo, è probabilmente dovuto a una lunga serie di scelte precise e di circostanze per nulla casuali. Metterei al primo posto il grande rispetto che tutti i partecipanti a questa proposta, ma proprio tutti!, hanno riservato al numeroso pubblico di ragazzini di 4ª e 5ª elementare: che non sono dei cretini, ma dei futuri cittadini, che meritano la giusta fiducia e la massima stima. Il secondo gradino del podio, con un distacco di pochi centesimi, è riservato ai loro insegnanti, che hanno scelto di portare le loro classi a condividere la nostra proposta artistica e letteraria, e che li hanno preparati a dovere.

Poi, in ordine sparso, c’è un ex aequo molto affollato, che voglio evocare alla rinfusa, senza pedanteria, rifuggendo intenzionalmente dalle stupide classificazioni e classifiche tipiche della scuola, anche quella odierna e anche, purtroppo e probabilmente, quella che verrà, a regime ormai HarmonizzatoS.

Vale a dire:

Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
  • Miguel de Cervantes, l’autore dei due corposi volumi che compongono quel capolavoro della letteratura europea che è «Don Quijote de la Mancha».
  • Silvia Demartini, che ha saputo scegliere i “racconti” più significativi ed emblematici del Don Chisciotte, riscriverli per il nostro pubblico particolare e creare i collegamenti drammaturgici che ne hanno permesso la comprensione, dentro un disegno compatto e finito: perché ai nostri decenni non potevamo, né volevamo, offrire l’ennesima versione dell’ingegnoso nobiluomo un po’ comico e tanto stupidotto.
Giovanni Galfetti
Giovanni Galfetti
  • Un cast di attori e lettori di assoluta bravura. In rigoroso ordine alfabetico, benché ladies first (amen, per certi versi sono un po’ all’antica): Sara Giulivi, che è stata Mari, la cameriera della locanda dove il Cavaliere è diventato cavaliere sul serio, tramite la cerimonia dell’investitura; Tatiana Winteler, un’Aldonza Lorenzo figlia di Lorenzo Corciuelo straordinaria e verosimile, che sembrava sul serio Dulcinea del Toboso, così come l’avevano conosciuta Don Chisciotte e, soprattutto, Sancho Panza; Cristina Zamboni, una credibile, sdegnata e arrabbiatissima Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte; Fabio Doriali, che è stato un integerrimo presentatore – forse lo stesso Cervantes – e ha dato voce e fattezze a un Sancho Panza talmente zotico da sembrare vero (mi verrebbe un paragone con la politica dei giorni nostri: ma transeat).
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
  • Simone Fornara, un attore dilettante, a tal punto preoccupato che, dietro le quinte e in procinto di entrare in scena, si è rivelato il degno e coerente finale della nostra costruzione artistica e anche didattica (un aggettivo che normalmente detesto). Ha detto, stralunato e credibile, rivolto al pubblico: «Quando vi diranno che i libri mettono in testa strane idee e fanno pensare troppo, LEGGETELI, leggeteli a fondo: vi salveranno dalla banalità; quando vi diranno che le vostre battaglie per un mondo migliore e più giusto sono assurde, CREDETECI e combattetele fino in fondo, senza paura di farvi male; quando vi diranno che siete matti per amore, allora AMATE ancora più intensamente: chi dovrà capire capirà; e quando vi diranno che sognate di essere qualcuno e magari vi prenderanno in giro per quello che fate o per come vi vestite, be’, allora FIDATEVI DI VOI senza paura. Solo così il vostro personaggio smetterà di essere solo finzione».
  • Tre musicisti appassionati e immersi nella nostra storia: il fisarmonicista Daniele Dell’Agnola, il pianista Giovanni Galfetti e il percussionista Oliviero Giovannoni.
Simona Maisser
Simona Maisser
  • Simona Meisser, che ha disegnato le storie in diretta. Una maestra mi ha scritto: «Quei bambini che di solito sono un po’ deboli nell’ascolto, sono riusciti a seguire il tutto grazie alla magia delle immagini di Simona».
  • Dietro le quinte, al riparo dall’occhio di bue, ma ognuno con un ruolo importante, una moltitudine di persone: Fiorenza Wiedmann, splendida costumista, scenografa e trovarobe; le amiche e gli amici del DFA della SUPSI, cioè Stephanie Grosslercher, Kata Lucic, Luca Botturi, Dina Leal, Antonio Crupi e Thierry Moro; la città di Locarno e i suoi uomini delle manifestazioni, Mauro Beffa ed Eros Ceccato; la voce di Marco Fasola, per gentile concessione della RSI; Werner Walther, competente tuttofare del Teatro, nonché esperto e fantasioso tecnico delle luci e del suono.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
  • E, infine, chi ci sostiene, ci ha sostenuto e continuerà a sostenerci concretamente: Raffaela Castagnola, ideatrice e motore principale di «Piazzaparola»; Michele Mainardi, direttore del DFA della SUPSI; la SYZ Banque privée di Locarno.

Per il 2017 staremo a vedere cosa succederà, cosa ci sarà proposto. A volte è bello poter scegliere. Ma, lo confesso, saltare in groppa alle sfide che ci sono state proposte in questi anni è stato comunque sempre utile e divertente: penso a Boccaccio, Ovidio e de Cervantes, ma anche a Leonardo, non certo famoso per l’opera letteraria: mica facile, né evidente, riuscire a presentarli a ragazzini di dieci anni, non è esattamente come rifilare i fratelli Grimm o Hans Christian Andersen.

Daniele Dell'Agnola
Daniele Dell’Agnola

Poi, per dirla tutta (chi segue il mio sito sa bene cosa ne penso), le arti hanno bisogno di spazi nella scuola – spazi qualificati, non semplici alibi culturali – sebbene i posti a disposizione siano sempre più scarsi e i biglietti d’entrata discriminatori e costosi. Continuo a credere che la scuola, soprattutto quella pubblica e obbligatoria, dovrebbe creare tante e tante occasioni di incontro con le arti, senza scopi più o meno occulti per far strada a chi si avvierà a diventare uno scienziato, un notabile della Repubblica o un semplice galoppino.

Come ho scritto recentemente, in relazione alla riapertura dell’anno scolastico dopo un’estate di terrorismi e di crimini, «ascoltare le inquietudini e gli interrogativi degli allievi, servirsi della mediazione di una poesia o di un romanzo, prendere esempi dalla storia (…) può essere utile per contribuire a far indietreggiare la barbarie».

Ma anche a rendere migliore la vita di ognuno di noi.

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Le foto sono del REC (Risorse didattiche, eventi e comunicazione) del DFA/SUPSI.

La scuola dell’obbligo tra memoria e cambiamenti

Le scuole comunali stanno vivendo cambiamenti molto significativi. Tanto per dire, HarmoS ha spostato indietro di due anni l’inizio della scuola obbligatoria e ha generato dei nuovi piani di studio, che non si limitano a precisare e completare materie di studio e obiettivi specifici, ma propongono pure una specie di rivoluzione copernicana dell’approccio didattico, con le competenze trasversali e i contesti di formazione generale. Insomma, non certo minuzie. Parallelamente è in atto un ricambio generazionale di dimensioni incredibili, tanto che anche il DFA ha dovuto riorganizzare il percorso di formazione dei futuri maestri per affrontare la grave penuria di insegnanti, soprattutto di scuola elementare. Tra le tante mutazioni non si può sorvolare sulla riorganizzazione dei quadri direttivi: da un lato stanno diminuendo gli ispettori, che sono altresì confrontati con un riesame dei loro compiti; dall’altro i direttori hanno ereditato le mansioni tolte agli ispettori e sono notevolmente cresciuti di numero: oggi sono una sessantina, e coprono la totalità degli istituti scolastici comunali, un centinaio tra grandi e piccoli.

Sarà curioso vedere come questa macchina così complessa riuscirà a gestire i tanti cambiamenti, per garantire alla scuola dei comuni il suo buon livello educativo e formativo, assieme a quell’ambiente sereno che ha distinto la storia secolare di un’istituzione radicata nei paesi, nei borghi e nei quartieri: perché siamo di fronte a modifiche di sostanza, mica a un tenue maquillage. Non sarà facile mantenere la barra al centro, anche perché in tempi assai brevi andrà perduta quella memoria storica così tipica di ogni istituzione umanista e intergenerazionale, di cui la scuola dei comuni è senz’altro una testimonianza esemplare. Mi ha molto colpito l’intervista al direttore delle scuole di Massagno pubblicata da «La Regione» circa un mese fa: Fabrizio Quadranti, che andrà in pensione dopo quarant’anni di attività, ha raccontato due «cose» importanti, due cose che non si possono dimenticare. «Da allievo – ha raccontato – ebbi come docente un grande rivoluzionario, e per me fu una fortuna. Arrivò il primo allievo straniero, Fernando, uno spagnolo, e il maestro mi disse fallo copiare, che così impara». È un principio pedagogico di estrema potenza, anche se la scuola fa spallucce sempre più spesso. È un principio che contribuisce a educare e facilita la comprensione e l’acquisizione di conoscenze e competenze. È un principio che mette al primo posto il vero compito del maestro, quello di educare insegnando. È un principio di cui curarsi con tanta attenzione, perché soffre già molto per le incessanti valutazioni, tempo rubato al fare scuola.

Per chiudere il colloquio col giornalista, Quadranti si è rivolto ai maestri, esortandoli «a parlare sempre all’ultimo della classe», perché «come diceva don Milani, una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani». Non sono un passatista, ma è doveroso custodire i fondamenti della scuola e dell’educazione. Sarebbe un peccato mortale se le grandi tensioni etiche che hanno caratterizzato tanta storia della pedagogia finissero nel tritatutto di certo utilitarismo purtroppo di moda. Perché fare scuola, e farla bene, è sì questione di cultura e di competenze professionali: ma prima di tutto servono rispetto, tenacia e una giusta dose di utopia, per credere che ognuno ce la può fare, anche se è nato senza la camicia.

Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi

Parrebbe che ai piani alti del nostro dipartimento dell’educazione ci sia un po’ di nervosismo. O, almeno, il clima sembra un po’ concitato. A inizio ottobre è apparsa sul Corriere una lettera aperta a Manuele Bertoli, direttore del DECS, con qualche domanda critica relativa all’obbligo della frequenza per i bambini di quattro anni. È una delle novità dell’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, noto come HarmoS, che sta muovendo i primi passi proprio quest’anno scolastico.

La risposta del ministro, un po’ piccata ma rassicurante, è giunta di corsa. Passa un giorno ed ecco una fulminante opinione di Lauro Tognola, uomo di scuola ora in pensione. Siamo ancora dalle parti di HarmoS e Tognola spara ad alzo zero sul «Piano di studio della scuola dell’obbligo», di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la «rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica» o la «pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare», tanto per dirne un paio.

Anche stavolta, nel giro di ventiquattr’ore, giunge la risposta di Bertoli, che parte proprio dalla lingua del documento: «Può darsi – concede il ministro – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti».

Il problema non è la qualità letteraria del Piano o lo slancio appassionato che la trama del racconto dovrebbe scatenare. Tuttavia l’intreccio ha le sue singolarità e il linguaggio, qua e là, è ostile, condito con dosi smodate d’un pedagogichese fumoso benché di moda: ciò che non contribuisce a spianare la strada all’intento dichiarato di «affrontare la formazione in modo esplicito».

La chiarezza e il divieto perentorio di equivocare, o di interpretare secondo i propri comodi, sono irrinunciabili, soprattutto se si intende dar vita a una svolta storica, che rivolti la scuola come un calzino e, con alcune mosse ben studiate, dia scacco matto a tutti i suoi problemi, a partire dalla pesante selezione che interviene già dopo la seconda media, benché sia socialmente predisposta con largo anticipo.

Questo è l’anno del passaggio concreto ad HarmoS e ai suoi comandamenti. Poi ci si immergerà nell’ormai celebre «Scuola che verrà», un progetto che sarà presentato in primavera, dopo il lancio pubblicitario di un anno fa.

Non so da dove salti fuori questa fregola della rivoluzione copernicana a tutti i costi. Per iniziare sarebbe stato più utile avere il coraggio politico di metter mano alla Legge della scuola, per chiarire se la scuola dev’essere al servizio del Paese, dell’economia e della finanza, o di chi altro. In altre parole, bisognerebbe dichiarare a chiare lettere se la scolarizzazione obbligatoria a quattro anni deve mirare con determinazione alla formazione di base elevata di ogni futuro cittadino, oppure se sia più conveniente intervenire precocemente sulla selezione degli individui in base a criteri tutti da definire (si potrebbe chiedere ad Avenir Suisse, a costo zero).

Chi segue questa rubrica sa da che parte sto. I programmi della scuola dell’obbligo chiamano a gran voce essenzialità e chiarezza. Qualcuno, frattanto, dovrà spiegarci quando, come e con quali mezzi si procederà all’informazione dei docenti sul nuovo Piano di studi, come supplemento alla normale formazione continua.

Sui livelli della scuola media: il grande equivoco

Sulla proposta dei Verdi di abolire i cosiddetti livelli della scuola media il parlamento sta scaldando i motori. Nelle ultime settimane si è letto e ascoltato tanto e di tutto. Il 25 marzo la RSI ha dedicato la rubrica radiofonica «Millevoci» a questo tema, in una sorta di riassunto della problematica e delle posizioni. Condotta da Isabella Visetti, la trasmissione ha ospitato Franco Celio, gran consigliere del PLR, membro della Commissione scolastica, relatore del rapporto di maggioranza (contrario all’abolizione dei livelli); Michele Guerra, gran consigliere della Lega dei ticinesi, presidente della Commissione scolastica e relatore del rapporto di minoranza (ovviamente favorevole); e Emanuele Berger, direttore della Divisione della scuola del DECS.

L’iniziativa dei Verdi sa di sasso nello stagno. Non si propongono soluzioni puntuali. È però vero che lo stesso ministro Manuele Bertoli, all’indomani della presentazione dell’iniziativa, aveva onestamente dichiarato che conveniva discuterne: «Qualcosa che non funziona effettivamente c’è. Il tema quindi non è eludibile e non può essere liquidato con una presa di posizione dipartimentale. La riapertura del dibattito sulla scuola media è essenziale». Ma ora che il Gran consiglio è finalmente chiamato a prendere posizione, si mette in campo l’esercito, citando i soliti esperti non meglio identificati (magari mi sbaglio, ma sto pensando ai soliti culi di pietra) e allestendo una gran sceneggiata, chiedendo tempo in attesa della Riforma 4 e via tergiversando: l’importante è che le riforme facciano il loro corso affinché nulla cambi. Gattopardescamente.

In effetti dietro tutta ’sta difesa dei livelli della scuola media, peraltro circoscritta a due sole discipline, c’è un grande imbroglio, la madre di tutti gli equivoci contrabbandata per verità “scientifica”. A sentire lor signori si sarebbe indotti a credere che basterà trovare la giusta procedura affinché tutto funzioni e la maggior parte degli allievi impari quel che c’è da imparare, vale a dire ciò che è contemplato dal Piano di formazione della scuola media, un documento di ben 163 pagine che stabilisce cosa gli allievi devono (forse) imparare. Già a livello di contenuti c’è molto da discutere. Si tenga altresì conto del fatto che il piano di formazione presente nel sito del DECS è solo un «quadro di riferimento che deve permettere all’autorità politica e all’amministrazione scolastica di stabilire i confini dell’azione dei singoli istituti con l’indicazione dei principali obiettivi e orientamenti a cui tutti devono attenersi per garantire alla scuola la necessaria coesione e una formazione equivalente in tutto il Cantone». I dettagli, invece, sono da un’altra parte e, stando sempre al sito del dipartimento, «Negli ultimi anni l’autonomia dei singoli istituti scolastici è stata valorizzata tenendo conto delle particolarità delle sedi e delle esigenze degli allievi», così che «Ne risulta una ridefinizione dell’equilibrio tra la conduzione centrale, a livello cantonale, e la gestione periferica che chiama i singoli istituti a darsi, con maggiore responsabilità, un proprio profilo»: ergo, è vieppiù difficile capire bene e nel dettaglio cosa si è tenuti a sapere.

Nell’articolo «Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco» ho toccato diversi aspetti che hanno a che fare anche col problema dei livelli. Ho citato, ad esempio, il Teorema di Pitagora, un contenuto classico della scuola media: uno di quegli obiettivi scolastici che possono essere affascinanti per avvicinare i giovani all’esercizio della speculazione intellettuale e allo sviluppo della forma mentis, ma che diventano una micidiale arma impropria nel momento in cui fantasiosi problemi di matematica diventano argomento di test e contribuiscono a decretare la nota scolastica della disciplina. Naturalmente avrei potuto fare tanti altri esempi tratti da pressoché tutte le discipline. Per intenderci, anche Leopardi ha pari dignità di Pitagora, tanto che sembrano almeno perverse certe richieste sulla metrica e le figure metaforiche e poetiche che spesso si incontrano nei famosi test che scandiscono gli anni scolastici. E così via esemplificando.

A dirla tutta: qualcuno crede davvero che un normale allievo di scuola media può acquisire tutte quelle nozioni lì (pardon: competenze!) in quattro anni, con settimane di 33 ore per 36.5 settimane annue, alle quali si aggiungono vagonate di compiti a domicilio, in settimana e assai spesso durante le vacanze scolastiche? Oppure siamo d’accordo che i migliori studenti impareranno solo una parte dell’intero elenco di nozioni e/o competenze e, in quanto primi della classe, sanciranno la norma di riferimento per tutti gli altri?

Insomma: tra valutare e insegnare c’è una bella differenza, ed è inutile fingere che gli insegnanti insegnano e che se gli allievi non imparano è colpa della loro pigrizia o di un quoziente intellettuale sgarrupato. Chissà perché, mi viene in mente una pagina dell’emozionante «Lettera a una professoressa»:

 Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo.

Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola.

Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla.

Io in quelle condizioni sono anche a casa. Nessuno cui rivolgermi per chilometri intorno. Non un libro di più. Non un telefono.

Ora invece siamo a «scuola». Sono venuto apposta, di lontano. Non c’è la mamma, che ha promesso che starà zitta e poi mi interrompe cento volte. Non c’è il bambino della mia sorella che ha bisogno d’aiuto per i compiti. C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me.

E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi.

E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro.

Forse l’abolizione dei livelli – una perfida eredità della scuola media da quando, nel 1974, sostituì scuola maggiore e ginnasio – sarebbe per davvero un salutare sasso nello stagno, che costringerebbe a occuparsi dell’essenzialità dei programmi (pardon, del piano di formazione) e a smetterla di dissipare così tanto tempo nella valutazione. Un tempo scippato all’insegnamento.

Magari tra la «Riforma 4» e l’arrivo dei nuovi piani di formazione per la scuola dell’obbligo (HarmoS) tutto si sistemerà come per magia. Ne sapremo di più quando attorno a questi due Carneade si farà un po’ di chiarezza.