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La radici cristiane dei ticinesi

Circola dall’8 settembre l’iniziativa popolare denominata «Ticino laico». Si vogliono raccogliere 10 mila firme per una modifica della Costituzione cantonale, che, attualmente, all’art. 24 recita: (1) La Chiesa cattolica apostolica romana e la Chiesa evangelica riformata hanno la personalità di diritto pubblico e si organizzano liberamente. (2) La legge può conferire la personalità di diritto pubblico ad altre comunità religiose.

L’iniziativa propone quest’altra versione: (1) Lo Stato è laico e osserva la neutralità religiosa. (2) Al fine di proteggere le libertà di coscienza e di credenza, il Cantone e i Comuni non promuovono né sovvenzionano alcuna attività legata ad un culto.

C’entra qualcosa con la Scuola e l’educazione? Direi proprio di sì. Basterebbe pensare a tutta la storia dell’insegnamento della religione a scuola, di cui ho scritto più volte; qualche esempio, per limitarmi ad alcuni articoli apparsi nella mia rubrica Fuori dall’aula:

L’articolo del 2007 l’avevo concluso con un po’ di amarezza:

Si propone quindi che in tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie a tempo pieno sia impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa, per capire la cultura e la tradizione europea e per avvicinare i giovani alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso.

Non mi interessa, in questo momento, discutere se occorra insegnare la religione a scuola, né a chi, in tal caso, si debba attribuire il mandato. Dietro l’ora di religione a scuola covano altri e ben più prosaici interessi. Ma cosa c’entra questa discussione con il nulla che sta «a monte»? Se, come scrivono i parlamentari, «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana (…) è sempre più generalizzata ed evidente», si crede davvero che sostituendo un’ora con un’altra si risistemerà l’intero sistema? Sciaguratamente c’è da supporre che dopo ’sto gran scompiglio la cultura umanistica della società ticinese sarà rimasta al palo. Con buona pace di tutti.

Ancor prima che circolassero i formulari per la raccolta delle firme, Fiorenzo Dadò, presidente del Partito Popolare Democratico, si era espresso in termini sconvolgenti, neanche stessero per arrivare i Mori guidati dal feroce Saladino:

«Se volete cancellare la nostra identità, fatelo tra le vostre mura domestiche! Non in Ticino né in Svizzera. Ci risiamo, e non poteva essere altrimenti, visto che questi tentativi di rimozione identitaria si manifestano con una certa ciclicità. Un gruppo di ticinesi, tra i quali due ex Consiglieri di Stato radical chic dalle robuste pensioni per l’occasione riemersi dalle nebbie di un passato dimenticato, ha pensato bene di lanciare un’iniziativa per proporre il divorzio dalle nostre tradizioni. Un’iniziativa che ha come preciso obiettivo quello di annullare ogni possibile collegamento con la nostra storia e le nostre – innegabili! – radici cristiane. Un pericoloso tentativo quello in atto, proprio oggi che sempre più persone – confrontate con la frenesia, la superficialità e l’egoismo di questo mondo globalizzato nel quale viviamo – si sentono vulnerabili e disorientate. C’è al contrario un gran bisogno di certezze, di saldi legami con le nostre origini e di valori comuni attorno ai quali ritrovarsi e riunirsi. Non una cancellazione di secoli di tradizioni e di libertà portate avanti e soprattutto ottenute, con sudore e sangue, da coloro che ci hanno preceduti. Né tantomeno di guerre di religione, montate ad arte, dal sapore ottocentesco. Basta con questi tentativi di boicottaggio della nostra identità in nome di un’uguaglianza dei diritti di tutte le comunità religiose. Così facendo saremmo sì tutti uguali, ma nel vagare senza meta e punti di riferimento».

Insomma, un sacco di sciocchezze, mentre le chiese sono sempre più vuote e la politica ci regala il Salmo svizzero da imparare obbligatoriamente a scuola, il corso di educazione alla cittadinanza, il divieto dei telefonini – e chissà cosa ci riserveranno i paladini di questa scuola tutta utilitarismo, profitto e selezione precoce. Però l’indifferenza, l’ignoranza e le menzogne che circondano questa iniziativa preoccupano ben più dei toni da Grande Inquisitore del presidente del PPD, un partito col referente cristiano (ahé!).

Non so voi, ma io tutto questo fervore identitario, questo amore per la nostra storia e le nostre radici cristiane, non lo vedo. Mi imbatto invece ogni giorno in atteggiamenti di intolleranza, razzismo, ignoranza, imbecillità, falsità, disprezzo, egoismo.

La magia del Natale – Vetrina di un grande magazzino sotto i portici di Locarno, mercoledì 24 ottobre 2018 (mancano 61 giorni a Natale).

Io, comunque, l’iniziativa l’ho firmata, anche perché tutti i capolavori che fanno la nostra cultura – dal canto gregoriano ad Arvo Pärt, da Giotto a Chagall, dal Brunelleschi a Botta, da Dante Alighieri a Manzoni, e via elencando – non c’entrano un fico secco con gli anatemi di qualche politico e col silenzio assordante di un partito, uno a caso…

All’indirizzo https://ticinolaico.com/ si trovano tutte le informazioni al riguardo, nonché il formulario per la raccolta delle firme, ma bisogna affrettarsi, perché il termine scade il 6 novembre.

L’attualità di don Milani, malgrado le censure di mezzo secolo fa

A cinquant’anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani (1923-1967), «Dialoghi», il bimestrale di riflessione cristiana diretto da Enrico Morresi, ha allegato al n° 248 dell’ottobre 2017 un interessante quaderno curato da Aldo Lafranchi: don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità. L’autore prende le mosse dal libro Tutte le opere di Lorenzo Milani, edito in maggio dall’editore Mondadori.

Non si tratta, come ci si poteva pur attendere, di un comune saggio a cavallo tra la deferenza e la celebrazione, bensì di un tentativo di restituire la complessa figura di questo prete anomalo, con diversi contributi di rilievo rispetto alla conoscenza più diffusa. In tal senso Lafranchi si attiene strettamente agli scritti di don Lorenzo, realizzando una personale scelta di brani, raggruppati in alcuni momenti significativi: gli anni verdi, il ministero pastorale, la Scuola Popolare, la scrittura al servizio della lotta alle ingiustizie sociali… Scrive nell’introduzione: «Il presente lavoro è offerto a chi, sui dati biografici di don Lorenzo, è fermo a Lettera a una professoressa, alle due lettere, ai cappellani militari e ai giudici, a “l’obbedienza non è più una virtù” e al castigo dell’isolamento a Barbiana. L’intento è di mettere a profitto i due volumi di Tutte le opere per spalancare le finestre sulla vita di un uomo promesso a un fascino particolare».

Faccio parte della (probabilmente) lunga schiera di ignoranti che conoscono don Milani attraverso la Lettera e poco più, ciò che, tuttavia, non mi fa sprofondare dalla vergogna. A differenza di altri, la Lettera ce l’ho ancora sotto mano – conservo gelosamente una copia acquistata nel 1976 – e, già allora, l’avevo letta tutta. Mi occupo e mi sono occupato di don Milani per il suo contributo involontario alla storia delle idee pedagogiche, un impegno che possiede ancor oggi una grande tensione etica: perché la scuola dell’obbligo non può avere lo scopo di selezionare le future élite, e nemmeno di legittimarle, neanche fosse l’infallibile depositaria del destino di ognuno.

Eppure, più o meno da sempre, si sono letti attacchi durissimi contro le sue idee e i suoi sostenitori – che, detto per inciso, è difficile capire se siano tanti o pochi.

All’esame scritto di pedagogia, in quella ormai lontana primavera del 1974 che mi avrebbe consegnato la patente di maestro di scuola elementare, mi toccò un tema tratto dalla «Lettera a una professoressa»: Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. Non saprei neanche dire se questo autore fosse stato trattato specificamente negli anni della formazione. Già l’anno d’acquisto del volume confermerebbe questa ipotesi; ricordo, in IV magistrale, il Rapporto sulle strategie dell’educazione (più noto come Rapportro Faure), e poi Jean-Jacques Rousseau e l’Emilio, John Dewey, Édouard Claparède (L’educazione funzionale), Jerome Bruner (Verso una teoria dell’istruzione, mi pare).

Di bocciature e di “pari” opportunità

Il tema della bocciatura è ben presente in don Milani e in tanti autori prima di lui. Non è dunque chissà quale novità nel contesto della storia delle idee pedagogiche – con la precisazione che la Lettera, attribuita ai ragazzi della scuola di Barbiana, non è intenzionalmente un saggio di pedagogia, bensì si configura come un duro attacco alla scuola italiana di quegli anni e al potere politico che l’aveva istituita e che la governava.

In altri scritti che compaiono nel mio blog ho più volte parlato del tema della bocciatura, che ha a che fare con l’indifferenza alle differenze e col primato dell’insegnamento, che dovrebbe avere il sopravvento su ogni forma di esclusione e di certificazione durante la scuola dell’obbligo. Sappiamo fin troppo bene come a creare l’insuccesso scolastico ci sia una lunga serie di variabili che si preferisce omettere, ipocritamente, quando si parla dell’organizzazione della scuola – e di quella pubblica e obbligatoria in particolare. Con il comodo alibi delle pari opportunità si sorvola sulla possibilità che l’insegnante non sia all’altezza dei suoi compiti, che i programmi scolastici non siano un dogma, che gli strumenti per la valutazione (i test e le loro scale di misurazione) siano assolutamente soggettivi e parziali.

Quel che non si dice e non si cita

Come una specie di nemesi, gli slanci pedagogici di don Milani sono stati costretti a pagare tributi importanti sin dalla loro pubblicazione. Sono convinto che ciò sia accaduto, e continua ad accadere, perché della scuola di Barbiana si cita solo ciò che fa comodo, tralasciando invece importanti passaggi che avrebbero infastidito, già nel ’68 e dintorni, chi impugnava don Lorenzo come un vessillo rivoluzionario e anche chi, oggi (ma sempre meno), ne fa una bandiera senza conoscere il testo di riferimento: che non è universale, ma è radicato nell’Italia di quegli anni, dopo il fascismo, con la questione meridionale del tutto irrisolta, il peso della chiesa cattolica e le tensioni tra democristiani e comunisti. In realtà la professoressa del titolo non era un’insegnante qualsiasi, bensì il prototipo dell’insegnante di quella scuola pubblica e di quegli anni – e forse tutt’altro che estinta.

Ecco, per esemplificare, qualche passaggio della Lettera che in quegli anni là non era citato, perché sicuramente non avrebbe fatto comodo, col rischio di far seppellire da una risata la Lettera tutt’intera: com’era d’uso.

Maestri disoccupati. Si sente lamentare che c’è troppi maestri. Non è vero. È che quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti. [pag. 113]

Processo penale. Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola. Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. (…) Ora invece siamo «a scuola». (…) C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro. [pag. 127-8]

Pieno tempo e famiglia. La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. (…) L’altra soluzione è il celibato. [pag. 86]

Pieno tempo e diritti sindacali. C’è capitato in mano un giornaletto sindacale per insegnanti: «No all’aggravio dell’orario di cattedra! Ci sono state battaglie sindacali memorabili per fissare l’obbligo orario e sarebbe assurdo tornare indietro». Ci ha messo in imbarazzo. A rigore non possiamo dir nulla. Tutti i lavoratori lottano per ridurre l’orario e hanno ragione. Ma il vostro è un orario indecente. [pag. 88]

Più ciechi ancora. Il professore più a sinistra l’ho sentito parlare per l’Associazione Insegnanti e Famiglie. A proposito di doposcuola gli scappò detto: “Ma voi non sapete che io faccio 18 ore di scuola la settimana!”. La sala era piena di operai che si levano alle quattro per il treno delle 5.39. Di contadini che, d’estate, 18 ore le fanno tutti i giorni. Nessuno rispose, né sorrise. Cinquanta sguardi impenetrabili lo fissavano in silenzio.

Dicesi maestro. Una sola compagna mi parve un po’ elevata. Studiava per amore dello studio. Leggeva dei bei libri. Si chiudeva in camera a ascoltare Bach. È il frutto massimo cui può aspirare una scuola come la vostra. A me invece m’hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo. «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo». [pag. 110]

Le riforme che proponiamo. Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme. I – Non bocciare. II – A quelli che sembrano cretini dategli la scuola a pieno tempo. III – Agli svogliati basta dargli uno scopo. [pag. 80]

Vorrei che fosse chiaro: non credo che alla scuola servano insegnanti celibi e nubili. Non ho mai creduto nella vocazione o nella missione. Ma è fondamentale, credo, decidere di voler fare l’insegnante come contributo al benessere democratico e culturale e alla crescita del Paese e ricevere una formazione che parta dal ruolo istituzionale del maestro di scuola, che approfondisca e delinei i suoi compiti deontologici. A partire da lì sarà poi possibile riempire la cassetta degli attrezzi con tutti gli strumenti didattici più adeguati per raggiungere le vere finalità della scuola.

Per restare al tema della bocciatura, non ho mai creduto alla nota politica. Non è che se certifico una conoscenza inesistente faccio un favore all’allievo e al paese. «Dell’«insegnante di greco molto odiato ma i cui allievi imparano il greco bene», don Lorenzo si limita a prendere atto che la funzione del professore è di insegnare il greco, non d’essere amato…» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9].

Sante parole, forse è il caso di dirlo.

A scuola non servono paladini della vocazione, ma professionisti preparati e motivati

Quanto alle tante stilettate inferte alla professoressa e, più in generale, all’establishment del tempo, non si tratta, né oggi né ieri, di farne una questione sindacale, riducendo il tutto a ore e giorni di presenza a scuola. Nondimeno, prima o poi, converrà riflettere anche sulla distribuzione del tempo di un anno tra quello educativo e formalmente istruttivo rispetto ai compiti di semplice sorveglianza e di formazione-educazione del tutto informale. Perché potrebbe anche essere che riempire i tempi delle pause scolastiche con ogni sorta di attività para e/o dopo scolastica si traduca in definitiva in un uso poco intelligente del tempo disponibile per crescere bene.

Don Milani condusse la sua battaglia per l’uguaglianza affinché i suoi ragazzi capissero il Vangelo. «Ho l’incarico di predicare il Vangelo. Predicarlo in greco non si può perché non intendono. Sicché bisogna predicarlo in italiano, ma i miei parrocchiani l’italiano non l’intendono. Trovo l’ostacolo della lingua e alla lingua mi dedico. Considerando lingua tutti i problemi della scuola» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9]. Era importante che capissero l’italiano, non solo come puro e semplice utensile comunicativo, ma come strumento complesso che comprende la cultura in tutte le sue accezioni. Anche la scuola dello Stato ha un suo vangelo, sperando che sia assolutamente laico.


Riferimenti

ALDO LAFRANCHI, Don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità, Quaderno speciale allegato a «Dialoghi», N° 248, ottobre 2017, p. 32 | Il quaderno può essere richiesto alla redazione di «Dialoghi», all’indirizzo allinyg@hotmail.com (la spesa è di 14 franchi).

RUOZZI, A. CANFORA, V. OLDANO, Tutte le opere di Lorenzo Milani, 2017, Milano: Mondadori (collana I Meridiani), EAN 9788804657460, 2 volumi, pagine CXXXVII-2809, 140 €

SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina

La scuola, la religione e i giochini della politica

Parliamo nuovamente di scuola e religione. Anche se ai più non interessa, qualche giorno fa il parlamentare radicale Matteo Quadranti ha ritirato l’iniziativa che chiedeva l’insegnamento della storia delle religioni, un atto parlamentare radico-socialista che aveva ereditato nel 2011, quando entrò in Gran consiglio. Raccontano le cronache che a Quadranti abbia dato molto fastidio che la Commissione scolastica «stava optando per un sistema misto, che non era quanto proposto dall’atto parlamentare». L’uso dell’aggettivo «misto» è certamente retorico, se solo si pensa, per fare un esempio, che il suo collega di partito Giorgio Pellanda appoggia convinto il sistema misto: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni. Non è naturalmente quel che auspicava nel 2002 chi propose di sopprimere le ore di religione cattolica ed evangelica, a favore di una soluzione più moderna.

Va da sé che l’inatteso arretramento non ha lasciato indifferenti altri parlamentari della Repubblica. A Fiorenzo Dadò, capogruppo PPD, la mossa di Quadranti dev’esser sembrata una specie di visione, tanto che ha subito dichiarato di voler tenere in vita il sistema misto, che strizza l’occhio ai voti cattolici: «Il tema è centrale e si rivolge ai nostri giovani. Di fronte a quanto avviene nel mondo è fondamentale che nel corso della formazione scolastica i giovani abbiano l’opportunità di conoscere tutte le sfaccettature della nostra cultura, e le religioni sono un fattore importante per sviluppare una maggiore conoscenza. Come politici non possiamo chiamarci fuori: è nostro compito dare alla gioventù gli strumenti per affrontare le sfide che si presentano davanti a noi e che sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di sfide culturali che determineranno la costruzione della nostra società futura. Il sistema misto permetteva di andare in questa direzione, tenendo conto di tutte le sensibilità, indipendentemente dal fatto che uno sia credente o meno».

Pare indubbio che il nostro non sia un paese maturo per fondare uno Stato laico, al di là di chiacchiere e ipocrisie sempre più diffuse. Temo che dietro le resistenze della chiesa cattolica, che difende a spada tratta la presenza dei suoi catechisti dentro le griglie orarie della scuola dell’obbligo, non vi siano solo delle ragioni di Fede, ma anche interessi più profani. D’altro canto la scuola pubblica e obbligatoria (e laica solo a tempo perso) non riesce più a educare per davvero i suoi cittadini, se è vero che le percentuali dei votanti si avvicinano viepiù a quelle di chi frequenta i corsi di religione a scuola (che son comunque più di quelli che vanno in chiesa). Non è con i corsi confessionali o la storia delle religioni che si educa al rispetto, così come non è attraverso l’insegnamento dell’educazione civica che si formano «persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà».

A una scuola sempre più tecnocratica, che rischia di crescere schiere di idioti specializzati, continuo a preferire che si insegnino i linguaggi fondamentali per conoscere e capire il mondo: la lingua e la matematica in testa, e poi le arti e le tante discipline che hanno sin qui contribuito a portarci nel XXI secolo, ben oltre le insensate selezioni che ritmano con perfidia gli anni scolastici.

Insegnamento della religione in Ticino: la storia infinita

Il meno che si possa dire è che il tema dell’insegnamento della religione sta diventando una storia infinita, come se nella scuola pubblica non esistessero problemi più importanti. Lasciando perdere talune controversie di stampo vagamente ottocentesco, la spossante contrattazione tra Stato e chiese dura ormai da molti anni, benché il tema, in una Repubblica moderna e laica, dovrebbe essere prerogativa assoluta della politica.

Tanto per ravvivare la memoria: nel marzo del 2002 il parlamentare liberalsocialista Paolo Dedini aveva chiesto di sopprimere dalle griglie settimanali l’ora facoltativa di insegnamento religioso, accordata alle due chiese riconosciute, e di sostituirla invece con l’insegnamento «della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola».

Dato che il nostro è un paese esagerato, dove i messaggi partitici vanno sempre soppesati col bilancino dello speziale, ecco in dicembre una nuova iniziativa parlamentare, stavolta sottoscritta da un gruppo di gran consiglieri del centro-sinistra, capeggiato da Laura Sadis.

Mentre Dedini richiamava il valore fondamentale e insopprimibile di una visione umanistica della società, il nuovo atto parlamentare sottolineava come «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente». E buttava sul tavolo la proposta: «In tutte le scuole è impartito un corso di cultura religiosa». Va da sé: in questi quasi tre lustri è successo poco, salvo la sperimentazione di qualche modello alternativo in alcune sedi di scuola media, corredata dall’immancabile valutazione da parte della SUPSI.

È invece di questi giorni, apparsa su questo giornale, un’articolessa del deputato PLR Giorgio Pellanda. Uno concreto, come si dice. Premette che la riflessione trae linfa anche dalla sua condizione di ex docente. Poi precisa la propria credenza confessionale cattolica e chiarisce la consapevolezza «di esprimere il pensiero di tanti ticinesi agnostici o atei che tuttavia riconoscono nelle nostre radici cristiane un auspicato nutrimento spirituale per la pace sociale». Infine cala l’originale disegno di legge, che farebbe contenti tutti: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra, va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni – una sorta di «liberi tutti», che accontenta però solo chi dice di credere nelle religioni di stato.

Sarebbe molto più logico se il catechismo le chiese se l’organizzassero in parrocchia. E non vedo nemmeno chissà quale bisogno di inventare una nuova disciplina, la storia delle religioni.

Nell’ambito delle materie che appartengono ai piani di studio c’è già tutto quel che serve per sconfiggere «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana» menzionata dalla proposta di Laura Sadis. Ci sono i valori dell’umanesimo e della ragione, e di radici cristiane, lì, ce n’è in abbondanza.

Basterebbe trattare in maniera appassionante e rigorosa la letteratura e la poesia, la musica e la pittura, le arti tutte e la storia del pensiero, compreso quello matematico e scientifico. Il resto è solo finzione, genuflessa ai piedi di un cerchiobottismo parlamentare che perdura da troppi anni. Siamo una terra di fervidi credenti, a condizione che l’omelia sia breve e che i dieci comandamenti siano a geometria variabile.

Religione a scuola: una sperimentazione inutile?

A inizio ottobre il DECS ha diramato a sorpresa un comunicato stampa sulla storia delle religioni, disciplina inserita due anni fa in alcune sedi di scuola media a titolo sperimentale: in tre istituti obbligatoriamente, in altri tre come alternativa alle tradizionali lezioni facoltative di religione. La scarna velina dipartimentale si affretta a dire che gli allievi che hanno seguito il corso sperimentale ne sanno di più di chi invece ha frequentato le solite lezioni delle religioni riconosciute. Va da sé – ci mancherebbe altro – che chi è stato del tutto alla larga da ogni corso ottiene punteggi inferiori rispetto alle altre opzioni. Il 6 ottobre i quotidiani locali hanno dato spazio al tema. Il «Corriere» specifica fin dal titolo lo stucchevole risultato dell’esame intermedio: «Test positivo per la storia delle religioni: dalle prove risulta che chi segue il corso ha migliori conoscenze». Analogo il titolo della Regione: «Convince il corso in cui si spiegano i diversi credo». Con piena adesione alle regole del gioco, il Giornale del Popolo dissente: «Perplessità su una comunicazione del DECS: le valutazioni sugli allievi e le cifre sono da rivedere». Alla fine un lettore normale si chiede: qual era lo scopo dell’annuncio dipartimentale? Cosa si voleva dimostrare con questa valutazione? Si scrive che gli allievi-cavia ne sanno di più, senza nessun accenno sostanziale. Sono ragazzi che hanno recuperato una loro religiosità, una maggiore serenità interiore che li mette al riparo dal disordine emotivo di questi anni confusi e globalizzati? La Regione scrive che, ad esempio, «si chiedeva agli allievi di segnare su una cartina dove il cattolicesimo o l’Islam fossero più diffusi». In sostanza una domanda da quiz televisivo per spettatori di bocca buona. Fatto sta che i rapporti di ricerca, che dovrebbero anche rivelare contenuti e finalità del bilancio e della concretezza di ciò che succede nelle classi, non è stato pubblicato, neanche in edizione succinta.
Sono convinto che questa sperimentazione, con le decisioni che ne scaturiranno, non servirà a nulla sul piano dell’educazione e della famosa «scelta consapevole di un proprio ruolo attraverso la trasmissione e la rielaborazione critica e scientificamente corretta degli elementi fondamentali della cultura» eccetera. E sono altrettanto persuaso che l’insegnamento del catechismo debba avvenire nelle parrocchie e non a scuola. Non so quale valore aggiunto attribuire alla conoscenza di nozioni sulla diffusione geografica delle religioni. Anche a livello di integrazione e di tolleranza dell’«altro», sono persuaso che la conoscenza e la comprensione della nostra Cultura rappresenti una condizione irrinunciabile per ogni successivo progetto di vita e di società. Il nostro territorio è disseminato di segni che, al di là delle loro radici palesemente religiose, si configurano come elementi laici del nostro essere qui e oggi: chiese, oratori, cappelle, croci, pitture, sculture, affreschi… La storia dell’Europa e dell’Occidente è anche la storia della democrazia, del Cristianesimo e del processo di secolarizzazione. Dalla civiltà minoica all’UE abbiamo percorso un cammino tortuoso, segnato da scoperte, invenzioni, guerre, riforme e rivoluzioni, monarchie e dittature e tentativi di sovranità popolare, da passioni e idee, spesso descritte ed esaltate dalle arti: un’indispensabile conoscenza, che certo supera le nozioni sull’espansione geografica dell’uno o dell’altro credo. Che ne sanno, tanti giovani e tanti adulti, di Dante e del Manzoni, di Bach e di Liszt, del Caravaggio e di Michelangelo? E quel massone di un Mozart non ha nulla da dirci a questo proposito? Insomma: potremmo eliminare una materia, invece di aggiungerla. Perché con l’italiano, la storia, la matematica, la fisica, la storia dell’arte e la musica potremmo pigliare due piccioni con un’unica fava.