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La rete che pesca nella nostra infanzia e adolescenza

Da anni si lanciano anatemi o si predica il libero accesso dei più piccoli a internet e smartphone; ma il mondo della scuola non ha affrontato seriamente il rapporto fra educazione e rivoluzione tecnologica

È sotto gli occhi di tutti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno cambiato il nostro modo di vivere. Il ’900 è stato il secolo di due guerre mondiali, ma anche un periodo di mutamenti inimmaginabili. Avevo otto anni quando Jurij Gagarin volò nel cosmo, un’orbita completa attorno alla Terra. Ne avevo sedici l’anno del primo allunaggio. Poco più che trentenne misi per la prima volta le mani sulla tastiera di un Macintosh 128K. La memoria media di uno smartphone, che oggi ci accompagna dappertutto come un ipertecnologico coltellino svizzero, è di decine di milioni di volte più grande.

Secondo lo  psicologo sociale Jonathan Haidt, che Naufraghi/e ha ripreso da un articolo pubblicato dal portale Infosperber, dopo il 2010 è iniziata la fine dell’infanzia: «Le persone nate dopo il 1995 vivono un’infanzia completamente diversa perché varie invenzioni risalenti al 2010 hanno cambiato radicalmente le nostre vite. Soprattutto le piattaforme di social media e l’accesso costante tramite smartphone, che finirebbero per modificare il cervello dei bambini e dei giovani. A differenza di alcuni suoi colleghi – prosegue l’articolista –, Haidt vede una connessione diretta tra la diffusa introduzione di queste applicazioni e i crescenti problemi psicologici dei bambini e dei giovani in tutto il mondo».

I fattori che entrano in gioco sono chiaramente tanti. Nasciamo con alcune capacità innate, alcune delle quali si svilupperanno nel tempo, grazie all’esperienza concreta delle relazioni sociali e dell’apprendimento. Imparare a camminare è un processo difficile, così come non si impara a parlare e a comunicare se non si è esposti a stimoli e modelli adeguati. Tuttavia la maturazione dei cuccioli di Homo sapiens non terminerà a dieci anni:  ben altri cambiamenti aspettano ragazzine e ragazzini, che, attraverso quel complicato percorso che si chiama adolescenza, diverranno adulti. Va da sé che, già a partire dalla venuta al mondo, saranno indispensabili tutte le esperienze sociali, biologiche e culturali da affrontare con la più grande serenità possibile, nel mondo reale e non certo in quello virtuale.

Bambini, ragazzi e adolescenti devono avere il tempo per crescere, anche con la mediazione di genitori e maestri, senza che questi adulti colonizzino ogni minuto delle loro giornate. L’ozio è un diritto, come giocare a biglie improvvisandone le regole, costruire castelli con dei cubetti di legno, sfogliare un libro illustrato, fare scorrere le biglie colorate del pallottoliere, sognare di dirigere un circo, ascoltare le storie della nonna e avere paura pur sapendo come andrà a finire, giocare la finale dei mondiali di calcio in due, con discussioni accese a sapere se il pallone era passato sopra o sotto un’asta inesistente: Svizzera-Italia nel cortile di casa.

Invece, già da qualche anno, siamo alla dipendenza dagli schermi, indipendentemente dai contenuti che si trovano sul web, dalle enciclopedie alle botteghe, da blog di alto valore scientifico e culturale alla marea di pornografia (da cui bisognerebbe “non farsi fottere”, per citare la giornalista Lilli Gruber), dalle arti alla scienza, dai giochi interattivi al di tutto di più.

Basti citare pochi dati proposti dalla Fondazione Dipendenze | Svizzera: l’88% della popolazione dai 15 anni in su utilizza internet almeno una volta alla settimana; tra i 6 e i 13 anni la percentuale è già del 63%, e il 43% possiede un telefono cellulare; tra 12 e 19 anni il 99% ne fa uso più di una volta a settimana. Tra gli 11 e i 15 anni il tempo medio trascorso davanti allo schermo durante una giornata scolastica è di 4 ore e mezza, ma diventa di 8 ore durante i weekend.

E i bambini dove sono? La risposta è: su TikTok!

Ora c’è chi vuole porre dei limiti. A fine aprile una commissione di esperti, incaricati dal presidente francese Emmanuel Macron di determinare il corretto utilizzo degli schermi da parte dei nostri figli, ha rassegnato il suo rapporto, che ha messo in evidenza diverse criticità e formulato alcune raccomandazioni: nessuna esposizione agli schermi per i bambini di età inferiore ai tre anni; uso sconsigliato fino a sei anni, o limitato, occasionale, privilegiando i contenuti educativi con la presenza di un adulto; esposizione moderata e controllata a partire dai sei anni; nessun telefono cellulare prima degli undici anni; nessuno smartphone prima dei tredici anni; nessun accesso ai social network prima dei quindici anni; accesso solo ai social network “etici” dopo i quindici anni. La République intende legiferare in quella direzione e già altri Stati stanno battendo vie analoghe.

L’unica cosa fin qui certa è che siamo di fronte a un disastro delle istanze educative, che non sono solo la scuola, ma comprendono i media e la politica, per finire dentro le famiglie, indipendentemente dal livello socio-economico. Da anni si disquisisce, si minaccia, si lanciano anatemi, ognuno con la sua soluzione, spaziando tra l’incondizionato laissez faire e il più rigoroso e totale controllo censorio. Basti pensare che sono gli stessi genitori, di solito, a finanziare con orgoglio l’acquisto di smartphone, computer e tablet ai pargoli, ma non li si può incolpare di nulla. Sin dalla comparsa dei primi computer, la scuola ha cominciato a rincorrere il presente e a introdurre macchine e applicazioni nelle sue dottrine, fino a farsi travolgere. In nessun momento il mondo della pedagogia ha scelto di affrontare una riflessione epistemologica sul rapporto tra la formazione, l’educazione e l’allora imminente rivoluzione digitale: a partire dalla sua rilevanza pedagogica e al suo contributo alla costruzione di una conoscenza solida e pertinente.

Alla faccia di quella scuola che dovrebbe promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà.

 

Scritto per Naufraghi/e

Una scuola “a chilometro zero” che non diventi “insegnificio”

Progetti di riorientamento della scuola dell’obbligo passano anche da un’idea di sede scolastica che a livello dei comuni potrebbe trovare forse più facilmente, nella prossimità, qualche esempio originale e innovativo

La scuola non è solitamente un tema da elezioni comunali, sempre che non ci siano in ballo nuovi edifici scolastici da erigere. Ho vaghi ricordi di una polemica locarnese alla fine degli anni ’60. La città mandava storicamente i suoi allievi nella sede di Piazza Castello, ove oggi c’è il Palacinema; a Solduno, nell’allora nuova sede; e nella piccola sede dei Monti. Ma urgevano tante aule nuove, perché la popolazione stava crescendo rapidamente, sulla scia del boom economico e demografico. La soluzione proposta dal municipio spaccò in due la città. Si fronteggiavano i fautori di un edificio classico, su più piani, a immagine della sede originaria, e i sostenitori della proposta municipale, che puntava a una pedagogia nuova, bisognosa di una concezione architettonica di rottura col passato, per favorire e stimolare la scuola attiva, col bosco lì fuori, uno spazio di sperimentazione, aule autonome, ampie e luminose: una sorta di impressionismo pedagogico ispirato da quegli anni di grandi cambiamenti. In consiglio comunale prevalse l’impostazione innovatrice, così sorse la sede dei Saleggi, progettata dall’arch. Livio Vacchini.

Poi è andata come è andata, perché non è sufficiente un’architettura al servizio di una coerente pedagogia progressista per praticare per davvero la scuola della cooperazione, della curiosità, dell’educazione alla cittadinanza. La chiamano in tanti modi – école nouvelle, scuola attiva, pedagogia moderna, … – è nata oltre cento anni fa, ma non è ancora riuscita a seppellire quel modello selettivo e cattedratico edificato attorno alle note fin dal tempo dei preti che insegnavano l’ABC. Per dire che anche in una scuola fondata sull’apertura si può facilmente praticare la chiusura – a volte basta tirare le tende. È un po’ quello che, al contrario, fece Fernand Oury nella sua scuola-caserma di La Garenne-Colombes (ne abbiamo scritto in questa sede lo scorso mese di febbraio).

Ma cosa può fare il Comune, visto che le norme attuali lo racchiudono in un recinto esclusivamente amministrativo? Anche la scuola dei comuni ha spazi di manovra nelle sedi e nelle aule di sua competenza. Il Piano di studio della scuola dell’obbligo è molto prescrittivo, ma è talmente complesso e prolisso che, ignorandone l’approccio un po’ “bancario”, si presterebbe meravigliosamente alla realizzazione di una scuola più umanista, senza neanche contraddire quella “scuola delle competenze” di cui il Piano fa sfoggio. In questo anche i comuni, in stretta collaborazione con i professionisti che operano nelle loro scuole, potrebbero contribuire a far nascere occasioni preziose per valorizzarne l’attività.

Per esempio, potrebbero sviluppare altri percorsi assai «educogenici», come la scuola all’aperto, a contatto con la natura e con la curiosità infantile dello scienziato, tramite le scuole nel bosco e i periodi di scuola fuori sede, senza scordare le tante occasioni fuori dall’aula offerte dall’ambiente circostante. Penso anche alla musica, alla poesia, alla pittura, alla scultura, alla danza, al fumetto, al teatro, al cinema, attività che possono richiedere costi anche importanti, vuoi per gli spostamenti, vuoi per l’accesso a strutture come i musei o i teatri: perché in sede o in classe non si può far tutto.

Scuola all’aperto. L’immagine è tratta da Silviva, Imparare all’aperto – con e nella natura.

Su un altro piano, poi, i comuni devono essere vigili nel difendere l’esistenza della propria scuola. Nel 2018, per dire, gli allora deputati Nicola Pini e Giacomo Garzoli avevano presentato un’iniziativa parlamentare per modificare un articolo della legge sulle scuole comunali concernente il numero di allievi necessari per istituire o mantenere una classe, tenendo conto che, in qualche caso, un’unica classe significa la presenza della scuola. «La scuola dell’infanzia e la scuola elementare – scrivevano i due politici – rappresentano un elemento di vitalità senza il quale una regione sembra davvero destinata a morte certa dal profilo culturale e comunitario». Proponevano così di prestare particolare attenzione al contesto socioeconomico e alla morfologia territoriale per non sopprimere fatalmente le piccole scuole di paese.

Ma la tendenza a chiudere le scuole non si è attenuata, anzi. Giusto un anno fa il Consiglio di stato aveva sottoposto al parlamento la proposta di adozione di una nuova legge, che contempla pure il concetto di Istituto scolastico minimo. Per essere riconosciuto come tale l’istituto dovrebbe avere una dimensione adeguata: «due su tre dei criteri seguenti: sette sezioni al minimo, 150 allievi al minimo, popolazione di riferimento di almeno 2’500 abitanti» (v. Quando la scuola pensa al minimo). Poche settimane fa il governo stesso ha ritirato questa proposta di legge, almeno per ora.

La concentrazione di allievi in istituti minimi ed efficienti, all’inseguimento di risultati da classifica mondiale – contro le pluriclassi, la scuola serena, la presenza capillare ed ecologica, cioè senza troppi trasporti giornalieri tra casa e scuola – rischia di trasformare la scuola in un insegnificio, quasi un non-luogo, per usare la definizione dell’antropologo Marc Augé: spazi impersonali, globalizzati, magari nascostamente competitivi. Una non-scuola, insomma, se per scuola vogliamo ancora intendere quell’Istituzione che il nostro parlamento ha così ben definito nel 1990, con una impegnativa definizione delle finalità della scuola.

Scritto per Naufraghi/e

MARC AUGÉ, Nonluoghi, 2023, Elèuthera (Edizione originale: Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, 1992)

Piazzaparola, la letteratura per l’infanzia e uno spazio su «la Regione»

Doveva essere la tarda primavera del 2013, quando mi telefonò Raffaella Castagnola, all’epoca presidente della Società Dante Alighieri di Lugano e responsabile delle pagine culturali del Corriere del Ticino, sulle quali curavo la rubrica Fuori dall’aula, firmata per la prima volta nel 2001 e poi continuata fino al 2020.

Stavo chiudendo il mio ultimo anno scolastico come direttore delle scuole comunali di Locarno; in agosto sarei diventato un pensionato. Due anni prima la Dante luganese aveva inaugurato una nuova proposta letteraria, Piazzaparola, il cui occhiello precisava: L’arte di raccontareUn classico e voci contemporanee. Le prime due edizioni erano state dedicate a Dante e a Omero, con uno spazio riservato agli allievi delle scuole luganesi (se non sbaglio, in particolare quelli della zona Centro).

Mi chiese, senza sapere che stavo andando in pensione, di organizzare per il Locarnese le prossime edizioni di Piazzaparola per gli allievi delle scuole elementari. Diedi la mia disponibilità, chiesi la collaborazione del DFA, anche per avere un tetto istituzionale (quell’anno il direttore era Michele Mainardi), conobbi una giovane Silvia Demartini, che coinvolsi da subito – sarebbe poi diventata, negli anni a seguire, l’autrice principale dei testi di tutte le edizioni locarnesi di Piazzaparola.

Neanche tre mesi dopo quella telefonata, andò in scena al Castello Visconteo la nostra prima edizione di Piazzaparola jr, dedicata a Giovanni Boccaccio e destinata alle classi di 4ª e 5ª elementare di Locarno e Minusio: Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo, con le narratrici Tatiana Winteler e Sara Giulivi, le illustrazioni di Dario Bianchi, l’accompagnamento musicale del gruppo «Greensleeves» di Paolo Tomamichel e i «Giullari dei Visconti», gruppo di studenti della Scuola Teatro Dimitri di Verscio, preparati da Oliviero Giovannoni: trattandosi dello spettacolo inaugurale merita il ricordo dei protagonisti.

Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo (Giovanni Boccaccio, 2013)

Seguirono due edizioni che si svolsero per davvero nelle piazze, con gruppi di allievi che passavano da una postazione all’altra: Leonardo da Vinci nel 2014 e Publio Ovidio Nasone del 2015. Nei due anni successivi capitò di voler restare nuovamente nelle piazze, ma la meteo ci costrinse a rifugiarci dentro il Teatro di Locarno: nel 2016 Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia, l’anno dopo Inseguendo l’ombra di Don Giovanni. Per ovviare al tempo che fa, da qualche anno ci siamo installati nelle piccole sale del Palacinema: Echi dal Diario di Anne Frank (2018), La vera storia del dottor Victor Frankenstein (2019), Canto di Natale (2022). Nel mezzo, a causa della pandemia, niente Piazzaparola nel 2020 e un’edizione ridotta nel 2021, con La storia di Robinson Crusoe nella corte interna del Castello; per poi tornare al Palacinema in questo dicembre 2023, con Dimezzato, inesistente, rampante: tre magnifici antenati, nel centenario della nascita di Italo Calvino.

Il barone rampante (Italo Calvino, 2023) – © Foto Marco Beltrametti

Dall’anno prossimo si vedrà, sarebbe bello poter tornare nelle piazze, ma costa un po’ di più, mentre da qualche anno parrebbe che non ci siano più soldi, neanche per Piazzaparola.

* * *

A margine di questa edizione dedicata a Italo Calvino, il quotidiano laRegione, nellasua edizione del 18 dicembre 2023, ha dedicato un’intera pagina al tema della letteratura per i più giovani.

Far parlare la letteratura alle giovani generazioni

di Silvia Demartini, Professoressa in Educazione linguistica e linguaggi disciplinari dell’italiano presso il Centro competenze didattica dell’italiano lingua di scolarizzazione (DILS), DFA/ASP-SUPSI, e Adolfo Tomasini, pedagogista.

Nel mondo digitale la parola scritta rischia di attirare sempre meno giovani. Ma i piccoli lettori possono trovare ricchezza nei grandi classici.

La letteratura è un magico spazio in cui ritrovarsi, (ri)conoscersi, ma anche scoprire, conoscere e vivere altre vite oltre alla propria. L’ha sintetizzato a chiare lettere Umberto Eco oltre trent’anni fa: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5’000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’Infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro” (dall’articolo “Perché i libri allungano la vita”, rubrica La bustina di Minerva, L’Espresso, 2 giugno 1991). Proprio quest’ampiezza di vedute è uno degli aspetti principali (non il solo) per cui vale la pena di avvicinare bambine e bambini alla letteratura.

Il bisogno di letteratura nella formazione delle giovani generazioni

Dell’immortalità all’indietro evocata da Eco, oggi, c’è quanto mai bisogno, anche e forse soprattutto per i più giovani. Catturati sin da molto presto nella rete e nel digitale, infatti, bambine e bambini hanno meno occasioni di accostarsi alla letteratura come ambito di esplorazione, come spazio di divertimento e di approfondimento, come palestra linguistica, come luogo in cui semplicemente passare il tempo. E anche come elemento di complessità. Una complessità, certo, che va calibrata sulla base dell’età e della maturità di lettrici e lettori, per cui l’incontro con la letteratura deve essere sfidante, ma non impossibile, onde evitare banalizzazioni grottesche o riduzioni scimmiottanti. Se affrontata nel modo giusto, proprio la sana complessità del testo letterario e dei personaggi che lo popolano continua ad avere un grande potenziale formativo, a più livelli. Basti pensare alle profonde discussioni che possono scaturire dalla lettura di un’opera non banale o alla modalità di lettura estensiva (piacevole, ma anche prolungata e non “a salti”) che richiede un bel romanzo. Per non parlare del ricco patrimonio linguistico al quale la letteratura espone, proponendolo senza “insegnarlo”.

Navigare nel “mare” della letteratura

Domanda per niente semplice, perché le risposte possono essere molte e non unanimi. Ai fini del nostro discorso va però almeno precisato che “letteratura” è tante cose; è tanti generi (dall’epica ai romanzi agli albi illustrati, per intenderci), è tanti stili, è tanti destinatari, è tante epoche, è tanti formati (in prosa e in versi): per non perdersi servono consapevolezza, preparazione e cura, soprattutto se si tratta di avvicinare certe opere a giovani ragazze e ragazzi. Perché c’è una letteratura che, a seconda delle età, va affrontata in autonomia (magari confrontandosi su di essa in gruppo, a scuola), e c’è una letteratura alla quale da “piccoli” è bene accostarsi in modo mediato, scoprendo scrittrici, scrittori e opere grazie al tramite di qualcuno che ne cura l’accessibilità. Ciò non significa forzare l’incontro con la letteratura “adulta”, ma promuovere la curiosità: con una metafora, significa offrire una scala per incentivare a fare capolino e a curiosare in un giardino bellissimo, che, più in là, ragazze e ragazzi andare a visitare completamente. E non solo: significa accostare al bello, alla ricchezza di contenuti e di parole, alla grandezza di certi personaggi; accettando anche di saper rinunciare a certe sfide, posticipandole.

Fra scuola e divulgazione: il senso dei “classici”

Che la letteratura non sia in senso stretto una “materia scolastica” è cosa nota, o dovrebbe esserlo, come dovrebbe essere altrettanto noto, però, il suo potenziale in chiave educativa e didattica. Da questo presupposto è nata l’idea (ormai dieci anni fa, nel 2013) di realizzare una proposta per le scuole elementari del locarnese nell’ambito di un evento letterario concepito per il pubblico adulto (PiazzaParola), cogliendo anno dopo anno la sfida di proporre un grande classico, o un autore/un’autrice, all’attenzione di ragazze e ragazzi di IV e V elementare. Fino al 2019 PiazzaParola si è svolto in settembre, per fornire un momento iniziale intenso, quasi rituale, che avrebbe potuto fare da detonatore di un progetto pedagogico da sviluppare durante l’anno scolastico. In tal senso già in primavera si informavano gli istituti scolastici di ciò che avremmo presentato a fine estate, fornendo anche una documentazione che poteva servire per la preparazione di allieve e allievi, e per sviluppare percorsi di approfondimento.

Questa scelta intendeva facilitare e stimolare la ricerca di quell’immortalità all’indietro offerta dai “classici”, tema che nel 2012 era stato ampliato e approfondito durante un convegno dedicato alla letteratura per l’infanzia (poi sfociato nel volume Il gatto ha ancora gli stivali? Perché leggere i classici a scuola, oggi e domani, curato a D. Corno, S. Fornara e A. Tomasini, Armando Dadò Editore, 2013).

Quella era stata l’occasione di chiedersi, per dirla con Italo Calvino, se è ancora vero che i classici continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Suggestione sempre attuale, che, in questo 2023 (nel centenario della nascita di Calvino), rilanciamo proponendo una rilettura della trilogia calviniana I nostri antenati. Ormai un “classico” recente, il cui insieme di fantasia, originalità, divergenza rispetto alla normalità del mondo che ci circonda è certamente in grado di intercettare l’ “orecchio acerbo” di rodariana memoria dei più giovani.

Un rapporto dell’OCSE che premia la nostra scuola, ma non si cura dei ragazzi che la scuola perde per strada

Secondo i dati forniti da PISA 22 la scuola Svizzera e ticinese stanno bene, anzi meglio, e guadagnano posizioni nel contesto mondiale. Ma quanto vale una graduatoria dettata da un’organizzazione economica?

A inizio dicembre sono stati diffusi i risultati di PISA 2022, il programma per la valutazione internazionale dei quindicenni promossa dall’OCSE, che sarebbe poi l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico degli stati caratterizzati da economie avanzate ed elevati redditi pro capite. A ritmo triennale si misurano i livelli di competenza dei quindicenni in matematica, scienze naturali e lettura. Mica roba per tutti, insomma, ma sempre più paesi se la giocano.

In questa tornata la Svizzera e il Ticino hanno ottenuto ottimi risultati. Le prestazioni elvetiche, nel complesso, collocano la Svizzera al quinto posto, con il 19.4% di allievi molto performanti – per semplificare, gente da 5 ½ o 6 – e il 12.4% di allievi all’altro estremo della scala. Il nostro cantone contribuisce significativamente a questo successo. «In PISA 2022 il Ticino, in matematica e in scienze, ottiene punteggi medi simili a quelli della Svizzera. In lettura raggiunge un punteggio statisticamente superiore rispetto a quello della Svizzera, anche se la differenza è minima. Il Ticino si trova inoltre sopra la media OCSE in tutti e tre gli ambiti».

© Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sisteemi educativi.

Molto bene, quindi, soprattutto se si pensa a qualche brutto risultato dei primi anni. Nel 2003 il Ticino era finito tra gli ultimi della classifica elvetica – ed era partita la solita baraonda di reazioni più o meno scomposte. Non c’è stata testata che non se ne sia occupata: da chi metteva in dubbio la serietà dello studio (cioè: colpa del “termometro”, cioè di PISA) a chi evocava l’alta percentuale di stranieri presenti nelle nostre classi (toh?!), per giungere a chi criminalizzava i tagli finanziari di quei mesi (ri-toh?!), scordando che i risultati conseguiti dai quindicenni non si costruiscono nello spazio di un mattino: allora come oggi.

«Il Ticino si situa in cima a tutte le classifiche», ha esultato l’appuntamento informativo RSI del  Quotidiano del 5 dicembre (in versione alquanto “governativa”). Che ha poi chiesto l’immancabile commento a Emanuele Berger, grand commis del DECS: «Uno si può chiedere perché. Potremmo fare tre ipotesi: una potrebbe essere che la nostra è una scuola inclusiva, e PISA ci dice da sempre che i sistemi inclusivi hanno dei buoni risultati. Inoltre, da molti anni lavoriamo su una didattica per competenze, e PISA verifica le competenze. E la terza ragione ovviamente è l’ottimo lavoro di tutti i docenti, che contribuiscono in materia determinante e ne vanno tutti ringraziati»: una sviolinata, ma ci sta.

L’OCSE non è un’associazione di beneficienza, né una fondazione che sostiene valori umanistici. Persegue scopi economici, anche se l’aggettivo, di per sé, è neutro. Tuttavia, se i primi confronti internazionali ci avevano fatto conoscere sistemi scolastici di grande interesse – la Finlandia su tutti – negli anni a seguire si è insinuato il dubbio che PISA abbia ben altre mire: e già non siamo troppo lontani da una scuola globalizzata, che mette al centro tre discipline e crea classifiche di buoni e cattivi, grazie all’adesione di una settantina di paesi nei cinque continenti.

Tanto per fare un esempio, l’edizione 2003 di PISA aveva relegato il nostro Cantone tra le peggiori della Svizzera, che aveva raggiunto per conto suo risultati mediocri. Vent’anni fa, agli esordi del programma per la valutazione internazionale dei quindicenni, si osservava, parlando dei due paesi in vetta alla classifica, Finlandia e Corea del sud, che nel paese asiatico le ore settimanali di scuola erano addirittura più imponenti delle nostre e che la frequenza degli esami e la pressione della nota provocavano il dilagare di depressioni nervose, fino al suicidio. Per contro la scuola finlandese terminava verso le tre del pomeriggio, i famosi “test” erano pressoché inesistenti, così come le bocciature, e il tempo scolastico era riservato all’apprendimento delle discipline giudicate essenziali. Il meno che si possa dire è che, a parità di risultati, i due sistemi scolastici erano tanto diversi. Ma questi sono aspetti che non interessano all’OCSE, che si limita a spiattellare punteggi, medie e percentuali di allievi in media o significativamente molto distanti da essa – poveri cristi in grande difficoltà scolastica da una parte, precoci primi della classe dall’altra.

Che ne sappiamo dell’Estonia, oggi primo classificato dei paesi OCSE, o di Singapore, primo classificato in assoluto, davanti al Giappone e alla Corea? Nulla, o poco più. Però vediamo paesi, come il nostro, che nel frattempo hanno guadagnato tante posizioni, non senza che s’insinui qualche dubbio. Come diceva quello là, a pensar male si fa peccato, ma a volte ci s’azzecca. Eppure il dubbio che molti sistemi educativi abbiano virato sempre più verso gli obiettivi scolastici PISA è grande. Anche il sistema scolastico svizzero si è a poco a poco uniformato, dapprima, nel 2007, con l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria; poi con i nuovi piani di studio delle tre aree linguistiche svizzere, molto vicine alle aspettative della cooperazione economica mondiale. Tutto ciò assomiglia molto, forse troppo, a quel famigerato «studiare per i test», passati i quali ci si può anche scordare ogni cosa.

Il risultato è che oggi un gran numero di stati del mondo – oltre una settantina – sta commisurando i suoi obiettivi formativi a quelli di PISA, incurante di chiedersi cosa ne sanno i quindicenni della storia del loro paese, della letteratura, della poesia, del teatro, delle arti. E non sono interessati a sondare quanto sono razzisti i quindicenni dei paesi partecipanti; che governo istituirebbero, se potessero; quale attitudine mostrano verso l’accoglienza, le dipendenze, l’ecologia, l’etica, la politica o l’economia. No, all’OCSE interessano la matematica, le scienze naturali e la lettura, e stilano classifiche che se ne fanno un baffo delle immense diversità culturali tra un paese e l’altro e delle loro ricchezze intangibili.

Siamo forse vicinissimi alla globalizzazione planetaria dei valori di educazione e istruzione degli adulti di domani, una sorta di nuova colonizzazione delle politiche: benché la ricca Svizzera, ai piani alti della classifica mondiale, perda per strada il 12% dei suoi quindicenni, inadeguati in matematica, lettura e scienze.  Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde».

Scritto per Naufraghi/e

Il dato del 12% di allievi inadeguati in matematica, lettura e scienze è tratto da Résultats du PISA 2022 (Volume I), p. 25. Per contro il rapporto ticinese (Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sistemi educativi) indica percentuali più alte.

Un’educazione del sentimento civico

Per non confondere, nella scuola, una pretesa educazione civica con una più appropriata educazione alla cittadinanza e alla democrazia

La pensata comune tende a ridurre l’educazione civica a quelle quattro nozioni in croce. «A livello di scuola media – ha detto Greta Gysin in un’intervista a Enrico Lombardi (Tre domande a Greta Gysin) – si impara ancora quante persone siedono in Consiglio nazionale e quante ce ne sono agli Stati: questi, in fondo, sono dei dettagli che non importano poi così tanto». Invece, continua, «bisogna far crescere la passione per la politica, quindi far capire come si discutono le cose, andare a palazzo federale, andare a palazzo delle Orsoline. Far sentire quella che è la politica, ma proprio sulla pelle, e forse così si riuscirebbe, almeno nelle persone giovani, a risvegliare un po’ di interesse, e così, in definitiva, aumentare un po’ la partecipazione».

Che bello. Ho sott’occhio l’introduzione di un testo di educazione civica di quasi cent’anni fa. «Mentre altri testi hanno cercato di procurare agli allievi molte nozioni esatte intorno all’organizzazione dei pubblici poteri e di fornire al docente un prontuario delle cose che il programma a lui richiede – sono le parole di Brenno Bertoni, autore di uno storico testo di educazione civica – io mi sono sforzato di eliminare tutti i particolari, tutte le singolarità che oggi sono e domani non sono, e forse saranno murate quando lo scolaro sarà fatto uomo. Per contro ho cercato di conseguire l’educazione del sentimento civico, coltivando nel cuore dell’allievo il naturale amore al suo paese, la naturale inclinazione al bene, il naturale aborrimento del male. Mi sono ingegnato di inspirare nell’animo del giovinetto un ideale semplice ma bello di ciò che dev’essere il suo comune, la sua valle, lo stato di cui sarà il futuro cittadino e difensore».

In realtà già l’educazione alla cittadinanza è un proposito piuttosto complesso da definire; se poi si vogliono anche raggiungere obiettivi inequivocabili, il rischio è di creare illusioni, per nascondere la solita figura da cioccolataio. Far crescere la passione per la politica, realizzare il sentimento civico, l’amore per il paese, l’inclinazione al bene e il disprezzo del male, sono fondamenti etici propri di ogni educatore che si muove nell’ambito di una società democratica. Da qui al declinare il desiderio in un percorso pedagogico con le migliori scelte didattiche il passo è sicuramente più lungo della gamba, e forse lo è sempre stato sin dai tempi del “Frassineto”.

Il Piano di studio della scuola dell’obbligo dedica ampio spazio al tema dell’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia, con il lodevole tentativo di precisarne il significato e i traguardi formativi, il modello e i traguardi di competenza, le indicazioni metodologiche e didattiche. È possibile che questo sforzo sia scaturito, almeno in parte, dalle diverse pressioni giunte allo Stato attraverso iniziative che si sono inseguite per almeno vent’anni, da quella dei giovani liberali per l’introduzione dell’ora di civica, all’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», al beneplacito del parlamento per una nuova disciplina nelle scuole medie e medio-superiori e, infine, il verdetto popolare del 24 settembre 2017: 44% di votanti, 63% di voti favorevoli. 56% da educare, per farli andare appassionatamente alle urne.

Come capita spesso, un conto è raccogliere firme e marcare il territorio mandando il popolo alle urne; un altro, invece, credere per davvero che la scuola sia in grado, da sola, di raggiungere obiettivi educativi di questa portata. Che poi, a ben guardare, non c’è bisogno di una nuova disciplina scolastica con le sue brave note – brave nel senso manzoniano del termine. La Legge della scuola, per tanti versi vecchiotta e incerottata, dice tutto già col suo art. 2 dedicato alle finalità. Bisogna leggerlo bene, ricordarselo e fare sempre il possibile per realizzare pienamente quel grande progetto educativo, che si sviluppa attraverso la scuola, la famiglia e – dice la legge – le altre istituzioni educative, vale a dire quella realtà sociale e culturale in cui tutti i cittadini sono immersi: i mass media, i luoghi di studio e di lavoro, i contesti artistici, sportivi, del divertimento.

La scuola di Atene (Raffaello Sanzio, 1509-1511)

 

È lì che avviene la vera educazione civica e alla cittadinanza, e lo è soprattutto nella società di oggi, che ha caratteristiche ben diverse dalla Svizzera e dal Ticino del secolo passato: basta pensare alla moltitudine di culture che vivono e danno vita alla nostra quotidianità, svizzeri o stranieri che siano. La vera sfida di cittadinanza, semmai, è quella di riuscire a rafforzare una convivenza che non sia solo tollerante, rispettosa e laboriosa, ma che sia anche partecipativa nel senso più largo ed empatico del termine. Proprio lì, forse, ci potrebbe essere il vero punto di forza della scuola, già a partire da quella dell’infanzia. Perché è a scuola che si incontrano, convivono e devono imparare a cooperare persone che provengono dalle più diverse situazioni religiose, economiche, storiche, etniche.

Già a quattro anni si possono (e si dovrebbero!) creare dei contesti di cittadinanza, che col passare degli anni – dalla prima infanzia all’adolescenza all’età adulta – diverranno via via più consapevoli della centralità del Diritto in una società democratica. E sarà nel momento della seppur parziale consapevolezza del Diritto che si potrà cominciare a spiegare il perché di talune scelte politiche, di consessi diversi dal comune alla confederazione, di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari.

Quell’altra educazione civica che si continua a evocare è solo un insieme di nozioni più o meno vuote o incomprensibili, che non possono lottare contro l’assenteismo alle urne.

Scritto per Naufraghi/e