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Un rapporto dell’OCSE che premia la nostra scuola, ma non si cura dei ragazzi che la scuola perde per strada

Secondo i dati forniti da PISA 22 la scuola Svizzera e ticinese stanno bene, anzi meglio, e guadagnano posizioni nel contesto mondiale. Ma quanto vale una graduatoria dettata da un’organizzazione economica?

A inizio dicembre sono stati diffusi i risultati di PISA 2022, il programma per la valutazione internazionale dei quindicenni promossa dall’OCSE, che sarebbe poi l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico degli stati caratterizzati da economie avanzate ed elevati redditi pro capite. A ritmo triennale si misurano i livelli di competenza dei quindicenni in matematica, scienze naturali e lettura. Mica roba per tutti, insomma, ma sempre più paesi se la giocano.

In questa tornata la Svizzera e il Ticino hanno ottenuto ottimi risultati. Le prestazioni elvetiche, nel complesso, collocano la Svizzera al quinto posto, con il 19.4% di allievi molto performanti – per semplificare, gente da 5 ½ o 6 – e il 12.4% di allievi all’altro estremo della scala. Il nostro cantone contribuisce significativamente a questo successo. «In PISA 2022 il Ticino, in matematica e in scienze, ottiene punteggi medi simili a quelli della Svizzera. In lettura raggiunge un punteggio statisticamente superiore rispetto a quello della Svizzera, anche se la differenza è minima. Il Ticino si trova inoltre sopra la media OCSE in tutti e tre gli ambiti».

© Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sisteemi educativi.

Molto bene, quindi, soprattutto se si pensa a qualche brutto risultato dei primi anni. Nel 2003 il Ticino era finito tra gli ultimi della classifica elvetica – ed era partita la solita baraonda di reazioni più o meno scomposte. Non c’è stata testata che non se ne sia occupata: da chi metteva in dubbio la serietà dello studio (cioè: colpa del “termometro”, cioè di PISA) a chi evocava l’alta percentuale di stranieri presenti nelle nostre classi (toh?!), per giungere a chi criminalizzava i tagli finanziari di quei mesi (ri-toh?!), scordando che i risultati conseguiti dai quindicenni non si costruiscono nello spazio di un mattino: allora come oggi.

«Il Ticino si situa in cima a tutte le classifiche», ha esultato l’appuntamento informativo RSI del  Quotidiano del 5 dicembre (in versione alquanto “governativa”). Che ha poi chiesto l’immancabile commento a Emanuele Berger, grand commis del DECS: «Uno si può chiedere perché. Potremmo fare tre ipotesi: una potrebbe essere che la nostra è una scuola inclusiva, e PISA ci dice da sempre che i sistemi inclusivi hanno dei buoni risultati. Inoltre, da molti anni lavoriamo su una didattica per competenze, e PISA verifica le competenze. E la terza ragione ovviamente è l’ottimo lavoro di tutti i docenti, che contribuiscono in materia determinante e ne vanno tutti ringraziati»: una sviolinata, ma ci sta.

L’OCSE non è un’associazione di beneficienza, né una fondazione che sostiene valori umanistici. Persegue scopi economici, anche se l’aggettivo, di per sé, è neutro. Tuttavia, se i primi confronti internazionali ci avevano fatto conoscere sistemi scolastici di grande interesse – la Finlandia su tutti – negli anni a seguire si è insinuato il dubbio che PISA abbia ben altre mire: e già non siamo troppo lontani da una scuola globalizzata, che mette al centro tre discipline e crea classifiche di buoni e cattivi, grazie all’adesione di una settantina di paesi nei cinque continenti.

Tanto per fare un esempio, l’edizione 2003 di PISA aveva relegato il nostro Cantone tra le peggiori della Svizzera, che aveva raggiunto per conto suo risultati mediocri. Vent’anni fa, agli esordi del programma per la valutazione internazionale dei quindicenni, si osservava, parlando dei due paesi in vetta alla classifica, Finlandia e Corea del sud, che nel paese asiatico le ore settimanali di scuola erano addirittura più imponenti delle nostre e che la frequenza degli esami e la pressione della nota provocavano il dilagare di depressioni nervose, fino al suicidio. Per contro la scuola finlandese terminava verso le tre del pomeriggio, i famosi “test” erano pressoché inesistenti, così come le bocciature, e il tempo scolastico era riservato all’apprendimento delle discipline giudicate essenziali. Il meno che si possa dire è che, a parità di risultati, i due sistemi scolastici erano tanto diversi. Ma questi sono aspetti che non interessano all’OCSE, che si limita a spiattellare punteggi, medie e percentuali di allievi in media o significativamente molto distanti da essa – poveri cristi in grande difficoltà scolastica da una parte, precoci primi della classe dall’altra.

Che ne sappiamo dell’Estonia, oggi primo classificato dei paesi OCSE, o di Singapore, primo classificato in assoluto, davanti al Giappone e alla Corea? Nulla, o poco più. Però vediamo paesi, come il nostro, che nel frattempo hanno guadagnato tante posizioni, non senza che s’insinui qualche dubbio. Come diceva quello là, a pensar male si fa peccato, ma a volte ci s’azzecca. Eppure il dubbio che molti sistemi educativi abbiano virato sempre più verso gli obiettivi scolastici PISA è grande. Anche il sistema scolastico svizzero si è a poco a poco uniformato, dapprima, nel 2007, con l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria; poi con i nuovi piani di studio delle tre aree linguistiche svizzere, molto vicine alle aspettative della cooperazione economica mondiale. Tutto ciò assomiglia molto, forse troppo, a quel famigerato «studiare per i test», passati i quali ci si può anche scordare ogni cosa.

Il risultato è che oggi un gran numero di stati del mondo – oltre una settantina – sta commisurando i suoi obiettivi formativi a quelli di PISA, incurante di chiedersi cosa ne sanno i quindicenni della storia del loro paese, della letteratura, della poesia, del teatro, delle arti. E non sono interessati a sondare quanto sono razzisti i quindicenni dei paesi partecipanti; che governo istituirebbero, se potessero; quale attitudine mostrano verso l’accoglienza, le dipendenze, l’ecologia, l’etica, la politica o l’economia. No, all’OCSE interessano la matematica, le scienze naturali e la lettura, e stilano classifiche che se ne fanno un baffo delle immense diversità culturali tra un paese e l’altro e delle loro ricchezze intangibili.

Siamo forse vicinissimi alla globalizzazione planetaria dei valori di educazione e istruzione degli adulti di domani, una sorta di nuova colonizzazione delle politiche: benché la ricca Svizzera, ai piani alti della classifica mondiale, perda per strada il 12% dei suoi quindicenni, inadeguati in matematica, lettura e scienze.  Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde».

Scritto per Naufraghi/e

Il dato del 12% di allievi inadeguati in matematica, lettura e scienze è tratto da Résultats du PISA 2022 (Volume I), p. 25. Per contro il rapporto ticinese (Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sistemi educativi) indica percentuali più alte.

I docenti non vendono scarpe

Le ingerenze e le pressioni delle famiglie sugli insegnanti sono frutto di un’idea mercantile di scuola fatta di concorrenza fra istituti e fra allievi. Ma la scuola pubblica è un’altra cosa

Pochi giorni fa mi è saltato all’occhio un titolo incredibile su un giornale francese: À Neuilly-sur-Seine, les profs ont le sentiment d’être «les employés des parents d’élèves». Anticipa l’occhiello: Nell’opulenta città dell’Hauts-de-Seine, le famiglie hanno preso l’abitudine di richiedere molto al team pedagogico e di intromettersi negli affari della scuola. A volte, anche in modo eccessivo.

Racconta Julie, insegnante di scuola elementare: «Ciò che all’inizio sembra voglia di collaborare si rivela poi un’ingerenza. A Neuilly i genitori sono molto invadenti. Si permettono di suggerirmi idee per le lezioni, di richiedere servizi o di commentare l’avanzamento del programma in un modo che mi fa sentire la loro domestica». Aggiunge Léa: «Dobbiamo costantemente giustificarci con i genitori, tranquillizzarli se la classe accanto non è allo stesso punto del programma. Non hanno fiducia e alcuni si comportano come se tutto fosse dovuto. Ho l’impressione di lavorare per loro più che per i miei alunni. È spossante».

«Quando sono arrivata a Neuilly, la prima cosa che mi hanno detto è stata: ‘Fai attenzione ai genitori, perché metà di loro conosce il sindaco e l’altra metà conosce l’ispettrice», ricorda Léa. Insomma, si può immaginare la situazione, che genera un clima di lavoro energivoro e frustrante.

Non conosco direttamente situazioni simili nel nostro Cantone, ma qualche episodio l’ho pur percepito già qualche anno fa, così come in tempi più recenti ho sentito insegnanti che citano proprio il comportamento arrogante di alcuni genitori come fattore di stress. So di chi ha gettato la spugna e ha cambiato aria, proprio nel senso di abbandonare la scuola e fare altro. E sono numerosi i docenti impazienti di andare in pensione il prima possibile.

Se ne parla poco, se non tra colleghi e nei corridoi. Eppure, per dirne una, la difficoltà nel trovare insegnanti è evidente. Ne avevo scritto poco tempo fa (La scuola come istituzione, non come servizio), e già in quell’articolo si intravedevano comportamenti prepotenti che ritroviamo oggi nel servizio sulla scuola di Neuilly-sur-Seine, cittadina di 60 mila abitanti alle porte di Parigi, «uno dei luoghi di residenza preferiti dall’affermata e ricca borghesia francese», come la descrive la solita Wikipedia. Ed è proprio con l’ostilità di alcune famiglie che si confrontano sempre più spesso i docenti della scuola dell’obbligo.

Ancorché in altri anni, la scuola, da parte di chi ci lavora, godeva di un’ottima reputazione; oggi sono probabilmente tante le cause della disaffezione, o peggio. Sullo sfondo c’è sicuramente la forte pressione sulla scuola affinché risponda alle più fantasiose richieste formative a un alto livello di competenza, ciò che fa a pugni con la preminenza del principio, nella scuola dell’obbligo, di non occuparsi solo dei suoi allievi più fortunati. Per la scuola e per i suoi insegnanti ci sono così il piano di studio della scuola dell’obbligo, oltre 200 pagine fitte; il percorso formativo richiesto a maestri e professori, sempre più in bilico tra le promesse del DFA e le tante realtà che si incontrano in classe; la situazione socio-geografica in cui operano gli insegnanti, quasi 150 sedi di scuola comunale e 36 istituti di scuola media; la marea di compiti che fa parte del loro cahier des charges, non sempre del tutto pertinenti con la pedagogia e la didattica.

Insomma, mi pare che sia sempre più indifferibile la necessità di mettere mano a tutto l’impianto che regge la pubblica educazione – sì, uso volutamente questo bel sostantivo, Educazione, benché sempre più spesso, già nell’aula del parlamento, si sottintenda che la scuola deve “limitarsi” a istruire – si veda al proposito anche la recente querelle sull’agenda.

Invece ai piani alti della politica scolastica si mette in scena, anno dopo anno, l’obsoleto teatrino delle riforme-cerotto e del numero di allievi per classe: e pensare che la legge-quadro della scuola ticinese risale al 1990, e per certi versi è figlia di una legge settoriale, quella della scuola media, che l’anno prossimo compirà giusto giusto mezzo secolo.

«Gli anni 2000 ­– ha dichiarato il pedagogista francese Philippe Meirieu agli autori dell’articolo su Neuilly-sur-Seine – hanno segnato l’arrivo delle prime indagini comparative internazionali, delle classifiche e del Programma internazionale per la valutazione degli studenti (PISA). Progressivamente, il paradigma democratico che regolava il servizio pubblico scolastico e che richiedeva che tutti fossero trattati allo stesso modo, è stato sostituito da un paradigma mercantile che promuove la competizione tra istituzioni e individui. La scuola è diventata un mercato e l’obbligo di fornire mezzi è diventato l’obbligo di ottenere risultati. Questo ha portato alcune famiglie a pensare che i docenti dovessero essere sottoposti alla stessa concorrenza dei venditori di scarpe e che l’istituzione scolastica dovesse rendere conto molto accuratamente del trattamento individuale riservato ai loro figli».

Nelle laiche Tavole della legge della nostra scuola si stabilisce che essa mira a crescere persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà, in collaborazione con le famiglie – c’è scritto proprio collaborazione, non collaborazionismo. Si specifica poi che le famiglie sono un organo consultivo – cioè non sono le famiglie che fanno e disfano. Sembrerebbe invece che più nessuno se ne ricordi, tanto da chiedersi se siano ancora in molti a pensarle così, le finalità della scuola, e se questi principi abbiano ancora un posto speciale nella cassetta degli attrezzi dei nuovi insegnanti.

Continuo a credere, ed è una delle certezze che conservo da prima di avere il diritto di voto, che la scuola pubblica e obbligatoria sia un cardine della democrazia.

 

Scritto per Naufraghi/e

Philippe Meirieu, in collaborazione con Daniel Hemeline, aveva pubblicato curato e pubblicato nel 2010 un’interessante contributo dedicato Aux parents d’élèves qui ne liront jamais ce livre. À leurs enfants: L’École et les parents: la grande explication. Per certi versi è obsoleto, ma vi si possono ancora trovare diverse ottime spiegazioni. Il libro è esaurito, ma nel sito del prof. Meirieu si trova una versione scaricabile gratuitamente.

Imparare a leggere e scrivere tra scuola dell’infanzia e scuola elementare

Si ha un bel dire che, cambiando le regole, poi cambia anche la sostanza. Da qualche anno, per esempio, l’obbligo di andare a scuola è stato anticipato, e a quattro anni si entra nella scuola dell’infanzia. Il cambiamento non ha sollevato polemiche, anche perché a quattro, massimo cinque anni l’iscrizione all’asilo rasentava già da tempo il 100%. Il vero rito di passaggio, nondimeno, coincide ancora con l’entrata in prima elementare, perché è in quel momento che scatta la trepidazione di genitori e figli. C’è ancora chi crede che nella scuola dell’infanzia si gioca, si raccontano storielle, si disegna e si fanno i lavoretti. La realtà è ovviamente diversa e più complicata, perché a quell’età i nostri cuccioli hanno immense capacità di sviluppo, che sarebbe un crimine non stimolare attraverso delle attività che facilitano e amplificano lo sviluppo cognitivo, relazionale e motorio. Allo stesso modo molti pensano che è solo dalla prima elementare che si impara: a leggere e a scrivere, a conoscere i numeri e a far di conto.



Imparare a leggere e a scrivere è di per sé un percorso complesso, che si nutre del terreno in cui si cresce: c’è chi ha ascoltato storie sin dall’età più tenera, in un ambiente pieno di stimoli, gesti, parole, relazioni. Altri hanno vissuto solitudini, violenze, silenzi, senza traguardi né sogni. A sei anni, che è l’età in cui, mediamente, ci sono i requisiti che permettono di imparare i codici della scrittura e della lettura, ogni bambino si presenta con le sue specificità e il suo bagaglio di esperienze positive e negative, spesso dettate dal caso. Dal successo e dai progressi ottenuti in quell’età delicata dipenderanno la scolarizzazione e la crescita sociale e culturale di ogni bambino, tant’è vero che il Piano di studio della nostra scuola dell’obbligo situa il percorso di questo apprendimento fondamentale tra l’ultimo anno dell’asilo e la seconda elementare. Sa bene, in altre parole, che sono infinite le variabili che concorrono al successo o all’insuccesso di imparare l’italiano, che è il primo veicolo di ogni apprendimento successivo.

Poi, come spesso succede, tra il dire e il fare ci sono ostacoli che paiono impossibili da rimuovere. Nella scuola elementare prevale il dogma della monoclasse, che riunisce quella ventina di bambini che hanno più o meno la stessa età. Si evocano le pari opportunità, che significa che tutti saranno trattati equamente, nella quasi totale indifferenza alle differenze. Basteranno poche settimane per sfilacciare il gruppo, e ci sarà chi comincerà faticare e comincerà troppo presto a ritenersi incapace. Già prima di Natale qualche genitore si sentirà dire che il figlio fa fatica, che la maestra non può mica fare miracoli.

Eppure non è una condizione inevitabile. Lo stesso Dipartimento afferma che il momento più adatto per imparare a leggere e a scrivere è situato tra i cinque e i sette anni. Così non si capisce perché il primo appartiene alla scuola dell’infanzia e gli altri due a quella elementare. Si vuole armonizzare tutto, ma sono rari i casi di maestre dei due ordini di scuola che lavorano insieme, sotto lo stesso tetto. Non sarebbe più utile ed efficace istituire classi più eterogenee – dall’ultimo anno di asilo alla II o III elementare – affidate a gruppi di maestre con competenze professionali altrettanto eterogenee? Suvvia, stiamo parlando di imparare a leggere e a scrivere, competenze universali di cui tutti hanno bisogno, mica dei principi della termodinamica!

Gli svogliati e il patto della scuola col paese

Gli ultimi scorci d’agosto hanno coinciso coi riti che lanciano un nuovo anno scolastico, con le vetrine dei negozi che ammiccavano a scolari e studenti e i giornali pieni di statistiche – tot docenti, tot allievi – e riflessioni sulla scuola che, di lì a qualche giorno, avrebbe alzato il sipario sulla nuova e spettacolare puntata sui temi dell’istruzione e dell’educazione dei futuri cittadini. Ancora una volta hanno tenuto banco la mobilità lenta e qualche iniziativa insolita. C’è un istituto, per dire, che vende banchi di scuola vintage a prezzi stracciati per comprare nidi per le rondini. Problemi grassi della scuola che c’è già.

Qua e là ha fatto capolino la condanna degli svogliati. Il popolo sovrano ha mostrato il pollice verso alla «Scuola che verrà», che è il parere dell’arena: le note scolastiche sono l’asse portante della scuola, per cui se, poniamo, un ragazzino di sei anni non impara un po’ in fretta a scrivere le prime semplici frasette – diciamo entro Natale – ci sono solo due possibilità: è un incapace o un fannullone. Nell’uno come nell’altro caso, meglio intervenire subito con dei brutti voti, così si risparmiano energie superflue e si evita che i genitori covino progetti irrealizzabili.

In questo rito, che ha in sé, per definizione, un che di ripetitivo, Ernesto Galli Della Loggia, (CdT del 24 agosto), ha sostenuto che «Poche istituzioni come la scuola hanno risentito dei grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni nelle nostre società. A cominciare dal cambiamento principale: e cioè che nel complesso siamo diventati una società ricca, largamente soddisfatta, appagata anche in molti bisogni superflui». E poi: «Quando eravamo meno benestanti era naturale guardare alla scuola come a uno strumento decisivo perché i figli migliorassero la condizione familiare di partenza. Farli studiare era considerato come l’occasione unica e irripetibile per uscire dal disagio e dalla privazione, per salire nella scala sociale. Questo fenomeno in buona parte non esiste più». Concordo che il patto tra la scuola e la società è saltato. Per dirne una, l’inserimento nel mondo del lavoro era praticamente garantito sin dagli anni ’50, e più si andava lontano con la formazione, più «da grandi» si sarebbero svolte professioni ben retribuite e socialmente riconosciute. Già da un bel po’ di anni questa equazione è stata spazzata via, salvo per quei pochi che seguono le orme dei padri – a patto, per lo più, che ci sia da ereditare uno studio o una ditta, e non da costruire ex novo.

Gli ultimi rilevamenti statistici raccontano però che la sottoccupazione ha raggiunto livelli mai visti prima, che l’interinato è vieppiù una regola con cui fare i conti e che il nostro è il cantone coi salari più bassi della Svizzera – mentre, per dire, un pacco di pasta della Migros costa uguale a Locarno o Zurigo. Va da sé, questa tendenza colpisce ampiamente i giovani.

Parrebbe insomma che tutta la fregola efficientista della politica scolastica dell’ultimo trentennio, culminata finora nei nuovi piani di studio, pretenziosi e illusori, non abbia fin qui prodotto granché. Sull’altare di un contratto fallace tra la scuola, la finanza e l’imprenditoria si sono sacrificati valori che in troppi – dalla politica ai sindacati ai media – hanno ritenuto sorpassati e inutili. Ridateci la storia, la geografia e le arti, che almeno ci permetteranno di capire il presente e di progettare un futuro più giusto. Con tutto il rispetto per le rondini, prediligo ancora Leopardi.

Ecco Sgrammit, per scoprire la grammatica dell’italiano nella scuola elementare

Si chiama Sgrammit, è nato dalla penna dell’illustratrice ticinese Simona Meisser ed è il simpatico personaggio principale di un importante progetto per scoprire la grammatica dell’italiano nella scuola elementare,  ideato e diretto da Simone Fornara e Silvia Demartini (Centro competenze didattica dell’italiano lingua di scolarizzazione del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI).

Sgrammit – precisano gli autori – non è un manuale di grammatica. Le sue proposte sono pensate e progettate per fornire all’insegnante esempi di attività e di percorsi che rispecchiano lo stato dell’arte nella didattica dell’italiano e sono finalizzate allo sviluppo delle competenze linguistiche delle allieve e degli allievi, coerentemente con le indicazioni previste nel Piano di studio della scuola dell’obbligo del Canton Ticino. Non sono pertanto ricette da applicare indistintamente e indipendentemente dal contesto classe.


L’intera opera è composta da sei serie di quaderni, dedicati a sei grandi temi che permettono di affrontare i nodi principali della riflessione sulla lingua nella scuola elementare. Ogni serie è costituita da due quaderni e dalla guida per l’insegnante. I quaderni di Sgrammit sono in sintonia con il Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, perché ne rispecchiano la suddivisione della materia in tipologie testuali e in risorse linguistiche, dando modo di affrontare la grammatica in maniera graduale, utilizzando come porta d’entrata preferenziale il testo.

Il primo «capitolo» – La punteggiatura – sarà pubblicato nel maggio 2019. Questa prima uscita sarà l’occasione per una serie di incontri informativi di presentazione dei materiali e del progetto (qui si può scaricare la locandina):

  • martedì 14.05.2019, ore 17.30, SUPSI, Dipartimento formazione e apprendimento di Locarno;
  • mercoledì 15.05.2019, ore 17.15, Scuole Elementari Bellinzona Nord;
  • martedì 21.05.2019, ore 17.15, Scuole Elementari di Rancate;
  • giovedì 06.06.2019, ore 17.15, Istituto Scolastico di Capriasca.

A partire dal 2020 saranno poi disponibili gli altri quaderni:

  • Il testo narrativo e il testo descrittivo
  • L’ortografia
  • Il testo espositivo e il testo argomentativo
  • La grammatica e il metalinguaggio
  • Il testo regolativo e il testo funzionale

All’indirizzo http://www.sgrammit.ch/ si trovano maggiori informazioni sul progetto.