Si ha un bel dire che, cambiando le regole, poi cambia anche la sostanza. Da qualche anno, per esempio, l’obbligo di andare a scuola è stato anticipato, e a quattro anni si entra nella scuola dell’infanzia. Il cambiamento non ha sollevato polemiche, anche perché a quattro, massimo cinque anni l’iscrizione all’asilo rasentava già da tempo il 100%. Il vero rito di passaggio, nondimeno, coincide ancora con l’entrata in prima elementare, perché è in quel momento che scatta la trepidazione di genitori e figli. C’è ancora chi crede che nella scuola dell’infanzia si gioca, si raccontano storielle, si disegna e si fanno i lavoretti. La realtà è ovviamente diversa e più complicata, perché a quell’età i nostri cuccioli hanno immense capacità di sviluppo, che sarebbe un crimine non stimolare attraverso delle attività che facilitano e amplificano lo sviluppo cognitivo, relazionale e motorio. Allo stesso modo molti pensano che è solo dalla prima elementare che si impara: a leggere e a scrivere, a conoscere i numeri e a far di conto.
Imparare a leggere e a scrivere è di per sé un percorso complesso, che si nutre del terreno in cui si cresce: c’è chi ha ascoltato storie sin dall’età più tenera, in un ambiente pieno di stimoli, gesti, parole, relazioni. Altri hanno vissuto solitudini, violenze, silenzi, senza traguardi né sogni. A sei anni, che è l’età in cui, mediamente, ci sono i requisiti che permettono di imparare i codici della scrittura e della lettura, ogni bambino si presenta con le sue specificità e il suo bagaglio di esperienze positive e negative, spesso dettate dal caso. Dal successo e dai progressi ottenuti in quell’età delicata dipenderanno la scolarizzazione e la crescita sociale e culturale di ogni bambino, tant’è vero che il Piano di studio della nostra scuola dell’obbligo situa il percorso di questo apprendimento fondamentale tra l’ultimo anno dell’asilo e la seconda elementare. Sa bene, in altre parole, che sono infinite le variabili che concorrono al successo o all’insuccesso di imparare l’italiano, che è il primo veicolo di ogni apprendimento successivo.
Poi, come spesso succede, tra il dire e il fare ci sono ostacoli che paiono impossibili da rimuovere. Nella scuola elementare prevale il dogma della monoclasse, che riunisce quella ventina di bambini che hanno più o meno la stessa età. Si evocano le pari opportunità, che significa che tutti saranno trattati equamente, nella quasi totale indifferenza alle differenze. Basteranno poche settimane per sfilacciare il gruppo, e ci sarà chi comincerà faticare e comincerà troppo presto a ritenersi incapace. Già prima di Natale qualche genitore si sentirà dire che il figlio fa fatica, che la maestra non può mica fare miracoli.
Eppure non è una condizione inevitabile. Lo stesso Dipartimento afferma che il momento più adatto per imparare a leggere e a scrivere è situato tra i cinque e i sette anni. Così non si capisce perché il primo appartiene alla scuola dell’infanzia e gli altri due a quella elementare. Si vuole armonizzare tutto, ma sono rari i casi di maestre dei due ordini di scuola che lavorano insieme, sotto lo stesso tetto. Non sarebbe più utile ed efficace istituire classi più eterogenee – dall’ultimo anno di asilo alla II o III elementare – affidate a gruppi di maestre con competenze professionali altrettanto eterogenee? Suvvia, stiamo parlando di imparare a leggere e a scrivere, competenze universali di cui tutti hanno bisogno, mica dei principi della termodinamica!
Sono insegnante di scuola dell’infanzia e per oltre venti anni sono stata insegnante nella scuola elementare, ora primaria. La sezione in cui lavoro è una sezione eterogenea con bambini di tre, quattro e cinque anni. È una benedizione lavorare in questa situazione e come me la pensano molte altre colleghe. I bambini crescono in un rapporto naturale con bambine e bambini di età diversa, con capacità diverse che non sono legate semplicemente al fatto di essere più grande o più piccolo. Gli orientamenti sono chiari nell’indicare quali sono le competenze in uscita, e quindi i requisiti in entrata, per i bambini di cinque anni: si parla di capacità di realizzare segni, di essere in grado di scrivere il proprio nome e riconoscere alcune lettere. Non di saper scrivere. Poi ci sono genitori e famiglie che sono presi dal sacro fuoco della scrittura e della lettura, oppure ci sono bambini con sorelle e fratelli maggiori, oppure bambini spontaneamente curiosi o particolarmente autonomi. E noi teniamo conto di tutte queste possibilità. Tutte le insegnanti con le quali viene fatto il passaggio tra scuola dell’infanzia e scuola primaria sono scontente all’idea di trovare bambini molto competenti nella scrittura: come scuola o interclasse adotano uno dei vari metodi che sono ormai ben presenti nelle scuole. All’inizio di un nuovo ciclo possono decidere di cambiare o adattare il metodo sulla base di quanto avvenuto nei 5 anni precedenti. Le scuole dell’infanzia statali fanno fare ai bambini noiosissime schede di pregrafia pensando di fare un percorso facilitante: non sono stati fatti grandi studi in merito e non risultano particolari benefici per i bambini. Le classi omogenee nella scuola dell’infanzia sono state abbandonate da decenni e anche nei nidi si fanno gruppi misti tra medi e grandi. Se viene comunicato a dicembre che il bambino fa fatica forse è perchè esistevano già difficoltà, o forse perchè bisogna attendere ancora un po’di tempo.
Gentile Anna, grazie per la sua preziosa testimonianza. Anche da noi la scuola dell’infanzia ha sezioni con bambini di 3, 4 e 5 anni (la frequenza è obbligatoria da 4 anni). È una scuola che funziona bene, malgrado dei piani di studio complicati e, per certi versi, pretenziosi (v. Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese).
L’entrata nella scuola elementare coincide invece con la ricerca quasi spasmodica della monoclasse, mentre la pluriclasse esiste solo in alcune piccole realtà. Personalmente resto un tifoso e un sostenitore dell’eterogeneità più grande possibile, ma sembra sempre più un affare donchisciottesco.
Sull’importanza dell’eterogeneità dei gruppi trova numerosi articoli in questo sito.
Anna, concordo in tutto. Le classi eterogenee sono una ricchezza infinita che in nostri sistemi d’ istruzione in Europa dovrebbero considerare piu seriamente e sopratutto valorizzare!
Concordo pienamente anche con la sua esperierenza riiguardo al pregrafismo e schede a tutti i costi che purtroppo alcune scuole dell ‘infanzia impiegano.
@Alfonso Tomasini. Non Condivido assolutamente questi passaggi ” C’è ancora chi crede che nella scuola dell’infanzia si gioca, si raccontano storielle, si disegna e si fanno i lavoretti. La realtà è ovviamente diversa e più complicata, perché a quell’età i nostri cuccioli hanno immense capacità di sviluppo, che sarebbe un crimine non stimolare attraverso delle attività che facilitano e amplificano lo sviluppo cognitivo, relazionale e motorio. Allo stesso modo molti pensano che è solo dalla prima elementare che si impara: a leggere e a scrivere, a conoscere i numeri e a far di conto.” Forse questo e’ il modo in cui lei vuole interpretare il tutto?. Molto riduttivo e disinformato a mio avviso.
Non esiste nessuna base scientifica riguardo agli “ipotetici benefici” dell’insistenza sul pregrafismo. Anzi, purtroppo esistono parecchi studi* che evidenziano quanto invece sia controprudecente per un bambino di 5 anni quasiasi tipo di attivita’ gia strutturata e prolungata dall adulto.
Alcuni studi statunitensi* hanno dimostrato che “Esperienze educative non adeguate al livello di sviluppo o in sintonia con i bisogni e le possibilità dei bambini possono causare gravi danni, tra cui sentimenti di inadeguatezza, ansia e confusione.” Questo perche’ le aree cerebrali destinate a essere correlate alla scrittura e alla lettura in realta’ non sono pronte prima dei 6 anni. (Il che e’ valido in linea generale per tutti i bambini di 5 anni, nati ad inizio o a fine anno)
Stare seduto a scrivere ed ancor peggio (come da qualche parte in Europa e negli Stati Uniti sta succedendo) incoraggiare il bambino a leggere, equivale a privarlo di cio’ di cui per lui e’ developmentally appropriate (cio di cui ha veramente bisogno a livello di sviluppo). Questo perche’ c’e’ tanta differenza tra un interesse spontaneo riguardo alle lettere dell’alfabeto e al voler scrivere il loro nome, e l’obbligo di scrivere e di imparare a farlo prima della primaria come programma vero e proprio 9creando oltretutto situazioni da’ansia nei bambini e mettendo irragionevole pressione in queste piccoli menti Il gioco libero, la socializzazione e rispetto nella comunita’, lo sviluppo della manualita’ fine con attivita’ semplici e quotidiane devono essere il vero obbiettivo. E si, concordo con Anna, nessuna insegnante primaria che io conosca anche all’estero e’ mai felice di vedere bambini arrivare con gia un bagaglio di conoscenze letterarie e numeriche.
Gentile Gianfranca Loi, pubblico il suo scritto con una precisazione. Lei cita passaggio di un mio articolo apparso nel novembre del 2020 su Il Caffè – Settimanale di attualità, politica e cultura. Purtroppo le sua personale interpretazione della seconda frase del passaggio citato – […] a quell’età i nostri cuccioli hanno immense capacità di sviluppo, che sarebbe un crimine non stimolare attraverso delle attività che facilitano e amplificano lo sviluppo cognitivo, relazionale e motorio – non corrisponde minimamente a ciò che penso. Evito di controbattere punto per punto alla sua “requisitoria”. Sono ben lontano dall’impostazione da pedagogia bancaria (v. Paulo Freire) che lei mi appioppa, partendo da «Non esiste nessuna base scientifica riguardo agli “ipotetici benefici” dell’insistenza sul pregrafismo», termine che non ho mai usato né evocato.
Chiarito questo aspetto, trovo inutile pubblicare la serie di link a sostegno delle sue tesi, che non c’entrano con ciò che penso (e che, per sommi capi, posso pure condividere).
Gentile Adolfo,
Grazie del suo commento.
Per chiarirci, il mio intervento non voleva essere assolutamente una “requisitoria” nei suoi confronti e mi dispiace se lei lo ha interpretato in questo modo, cosi come non ho mai voluto “appioppare” alcunche’a nessuno.
Tale intervento non e’ stata nemmeno la mia “personale” interpretazione, ma piuttosto una semplice e diretta controargomentazione ad alcune frasi nell’articolo. (Vorrei sperare che in un blog pubblico si possa non condividere qualcosa ed anche sostenere la propria argomentazione).
Specifico:
*”[…] C’è ancora chi crede che nella scuola dell’infanzia si gioca, si raccontano storielle, si disegna e si fanno i lavoretti. La realtà è ovviamente diversa e più complicata”.
Fortunatamente, alla scuola dell’ infanzia ancora vige il meraviglioso diritto al gioco libero, all’ascoltare storielle, allo sperimentare e sviluppare la loro immaginazione attraverso diverse tecniche artistiche.
*” […] Allo stesso modo molti pensano che è solo dalla prima elementare che si impara: a leggere e a scrivere, a conoscere i numeri e a far di conto.”
E “molti” pensano bene! Ufficialmente e’ ancora cosi nella maggior parte dei sistemi educativi e curricoli Europei, Statunitense e negli IB PYP adottati dalle Scuole internazionali nel mondo. E per fortuna direi!
Ho usato il termine “pregrafismo”in riferimento a quest’ultima frase in cui sottolineava “[…] molti pensano si legga e si scriva in prima elementare” ed anche in riferimento ai requisiti richiesti ai bambini di 5 anni, confermando cio che aveva gia precedentemente sottolineato la signora Anna nel comment precedente.
I link da me proposti rimandano a riviste scientifiche ed erano decisamente attinenti al discorso affrontato nell’articolo.
Il fatto che lei trovi inutile pubblicare tali link a sostegno dell importanza del gioco libero e spontaneo, di contro all apprendimento letterario e numerico gia nella scuola dell’infanzia, e’ abbastanza deludente per un blog su temi educativi.
Ma questa e’ una sua scelta e la rispetto.
Cordialmente,
G.L
Caro Adolfo,
Il quadro della situazione è descritto molto bene e concordo con tutto quanto scrivi. Purtroppo a monte delle tue osservazioni vi è un grosso problema molto più grave dell’assenza di coordinazione tra scuola dell’infanzia et scuola elementare: parlo dell’assenza di ipotesi e postulati di lavoro seri. Mi spiego: il ritorno a dei modi di pensare la lettura e scrittura come un atto prevalentemente empirico sprovvisto di qualsiasi quadro teorico. Prova a chiedere a quali riferimenti teorici si rivolge la maggior parte dei nostri colleghi ? La risposta la sai già. Credo sia fondamentale poter pensare la lettura e scrittura come un fenomeno semiotico che non deve fare l’economia di modelli teorici adeguati sennò scivoliamo nei meandri del senso comune, che come tale, ci impedisce di capire il mondo.
Grazie per questa riflessione, che – va da sé – pretenderebbe una risposta ben più articolata di quella che scaturisce dalle mie competenze specifiche. Tuttavia il richiamo alla padronanza assoluta, da parte di ogni insegnante, di un qualsiasi quadro teorico e la precisazione che sia fondamentale poter pensare la lettura e scrittura come un fenomeno semiotico che non deve fare l’economia di modelli teorici adeguati sennò scivoliamo nei meandri del senso merita un minimo di riscontro, anche perché non sarebbe giusto schivare la proverbiale oliva.
Il discorso sul quadro teorico tocca evidentemente tutte le discipline, e non solo l’entrata nei codici della lingua (già a questo livello si potrebbe disquisire a lungo, perché le lingue possono assomigliarsi, ma non sono identiche). Da diversi anni mi chiedo se all’insegnante sia più utile una buona didattica oppure se sia preferibile impossessarsi di un quadro teorico che convince (e aggiornarlo lungo tutta la carriera!), per declinarlo in seguito in pratica didattica efficace – e più efficace di ogni altra.
A ciò si aggiunga che ogni epoca ha avuto i suoi «quadri teorici», che a volte diventavano terreni di scontro quasi dottrinale, senza che, solitamente, nessuno andasse a verificare l’ortodossia dei “quadri” rispetto alle pratiche effettive, e in rapporto alla reale efficacia delle (diverse?) didattiche presenti in aula. Detto questo, non sono troppo convinto che esistano didattiche miracolose o magiche, senza dimenticare l’impatto che l’insegnamento in un contesto così formale come la scuola varia a seconda delle esperienze cognitive e culturali di ogni allievo.
Sai bene cose penso di quel funzionamento della scuola ancor oggi basato sulla trinità pedagogica dell’insegnante che ha i suoi allievi e la sua aula. Se ne parla ormai da tanti decenni, dell’importanza dell’équipe pedagogica; così come si discorre di eterogeneità delle classi, di contenuti disciplinari dei piani di studio e delle modalità di valutazione, quasi sempre arbitrarie e – quelle sì! – senza un quadro teorico e pedagogico preciso.
Ciò che precede mi porta a una conclusione, ovviamente aperta: potremo continuare a creare didattiche sempre migliori, fondate su quadri teorici aggiornatissimi che creano meravigliosi fenomeni semiotici; ma finché la scuola dell’obbligo non saprà affrancarsi dalla sindrome della curva di Gauss si continuerà a confondere la riuscita scolastica con l’apprendimento.