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Il mio ispettore, anche lui in pensione: «Felice di quello che ho fatto»

Questo articolo è stato pubblicato sul N° 10 dell’ottobre 2015 del mensile illustrato del Locarnese e valli La Rivista. Si tratta di un’intervista che ho fatto a Eros Nessi, amico e collega, in pensione dal 1° settembre scorso. Da parte mia, in questo mio spazio, voglio aggiungere il mio «Grazie Eros!»

Nei primi anni ’90, dopo il pensionamento di Bruno Bertini, avevo dovuto convivere per qualche anno con un improbabile ispettore mandato lì dalla politica, non certo dagli ideali e dalle competenze. Fu nominato dopo diversi mesi di cinchischiamenti del Governo. Ero fuori Cantone, seppi della nomina da mia moglie, l’aveva sentito alle «Cronache regionali» della nostra RSI. Chiamai un funzionario del dipartimento e gli chiesi: com’è? Ha la barba, mi rispose. Nel ’94, tra l’altro, il barbuto aveva chiesto il trasferimento in un altro ispettorato divenuto vacante. Per quel che ne so, tra i motivi della richiesta c’era anche il fatto che io gli mettessi il bastone tra le ruote: contingenza verissima. Anzi, direi che l’espressione «mettere il bastone tra le ruote», nella fattispecie, è del tutto riduttiva.

Resta la soddisfazione di aver potuto poi lavorare con un nuovo ispettore competente, con degli ideali, umanista e con tanta umanità. Quell’altro, invece, non arrivò al tradizionale panettone di Natale. Rara avis, a quel punto lo Stato se ne liberò in fretta (stavolta, però, non a causa dei miei bastoni).


A fine agosto Eros Nessi, ispettore scolastico del VI circondario delle scuole comunali, è andato in pensione, dopo 42 anni nella scuola, di cui la metà in veste di ispettore. Nato a Sorengo nel 1953, originario di Burbaglio e cresciuto in tre angoli del Cantone al seguito del papà, impiegato delle ferrovie federali, Nessi ha ottenuto la patente di maestro di scuola elementare nel 1973. Per due anni ha insegnato a San Nazzaro, per poi passare alle scuole maggiori di Vira. Nel frattempo, come altri suoi colleghi di quegli anni, ha frequentato all’università di Pavia i corsi per conseguire il diploma di insegnante delle scuole secondarie, sacrificando molte vacanze e qualche week-end. Nel settembre del 1978 fu tra i primi docenti della neonata scuola media unica, come insegnante di italiano, storia e geografia nelle sedi di Vira e Cadenazzo.

Il 12 giugno scorso, ad Ascona, l’hanno festeggiato a sorpresa: invitato dai direttori del suo circondario per una cenetta tra intimi, è stato accolto da trecento e passa persone che hanno voluto tributargli il giusto omaggio per il lavoro svolto. E c’erano tutti, dal direttore del DECS a diversi funzionari dipartimentali, da tante maestre e tanti maestri a municipali e amministratori comunali.

L’ho incontrato in giugno, alle prese con le ultime incombenze amministrative e con le solite operazioni nostalgiche: perché non è facile cambiar vita così, di punto in bianco, con una semplice lettera di dimissioni. Soprattutto non è facile quando si ha la capacità di ricordare solo le cose belle e gli incontri migliori della propria attività professionale.

Con lui ho lavorato per vent’anni. Mi si passi quindi la scelta di dargli del tu nell’intervista che segue: non è solo un vezzo, ma anche un segno di rispetto.

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Una volta l’ispettore era quello che, nel vero senso della parola, ispezionava le scuole. Quando entrava in classe potevano tremare i polsi all’insegnante, mentre brividi freddi percorrevano le schiene degli allievi.

Ho frequentato le scuole elementari dapprima a Paradiso e poi a Bellinzona. Ricordo che la figura dell’ispettore, ma anche quella del direttore, incuteva timore. C’erano ancora gli esami finali, che prevedevano la presenza di queste due figure autorevoli. Il sabato mattina, giorno di esami, s’attendeva con tremore l’arrivo del direttore e dell’ispettore, che erano personaggi molto lontani da noi. Oltre trent’anni dopo ho iniziato la nuova attività di ispettore scolastico dopo aver fatto l’insegnante fino al giorno prima. L’apprendistato, quindi, l’ho fatto sul terreno, col primo obiettivo di conoscere e ascoltare, a diretto contatto con allievi e docenti. È stato un investimento oneroso, che mi ha però fatto conoscere bene il settore – venivo dalla scuola media – e di apprezzarlo per i tanti aspetti positivi. Questa fase di rodaggio mi ha poi permesso di impostare l’azione negli anni successivi.

In ogni caso ho avuto la fortuna di arrivare in un circondario assai fertile, dove c’era già l’abitudine al confronto e dove si stavano sviluppando delle iniziative interessanti. Oltre a un gruppo di direttori competenti e collaborativi, c’erano degli ottimi contatti con la scuola magistrale – in particolare col vice-direttore dell’epoca, Michele Mainardi, che prendeva già parte a diverse attività circondariali: per dire che avevamo la commissione circondariale dieci anni prima che la istituisse il Cantone. E ancora, su questo piano, non posso scordare il collega Giorgio Sartori, che è stato il primo capogruppo del servizio di sostegno pedagogico del nostro circondario: un collega di grande sensibilità, con una profonda conoscenza del circondario e un bagaglio di competenze fuori del comune. Sulla scorta di quelle prime esperienze, focalizzate soprattutto nell’area urbana – Locarno, Losone, Ascona e Brissago – è poi stato possibile estendere quel tipo di funzionamento all’intera area del circondario. C’è voluto del tempo, ma oggi tutte le scuole dei Comuni sono confluite in istituti allargati, che fanno capo a una direzione e a un’amministrazione efficace: anche questo prima che arrivasse l’obbligo cantonale di dotare ogni sede scolastica comunale di un direttore.

Quasi da subito, tuttavia, ho cercato di coinvolgere l’intero territorio: penso, per esemplificare, a un ambizioso progetto sul miglioramento delle attività per l’apprendimento della lettura e della scrittura, che aveva coinvolto la scuola dell’infanzia e quella elementare, con diverse osservazioni dentro le aule portate avanti congiuntamente coi direttori, anche al di fuori degli istituti di loro diretta competenza. Erano peraltro dei bei momenti anche sul piano umano, ad esempio quando andavo a Broglio col direttore di Locarno, in Onsernone con quello di Brissago o al Piano di Peccia con quello di Ascona. E poi diversi incontri su temi specifici con tutti gli insegnanti del circondario, corsi di formazione mirati a rispondere alle nostre esigenze, e via di questo passo.

Da «quei» tempi molte cose sono cambiate. Cominciamo dall’inizio: nel 1994, anno del tuo esordio come ispettore, c’erano ancora nove ispettori di scuola elementare e quattro ispettrici di scuola dell’infanzia. Nel settembre del 2002 ecco il primo salto mortale: da quattro ispettorati della scuola dell’infanzia e nove della scuola elementare, ne restano solo nove per entrambi i settori.

Per certi versi, al di là della diminuzione delle risorse disponibili e il conseguente aumento della mole di lavoro, questa riforma amministrativa ha agevolato l’armonizzazione tra i due settori scolastici e, in particolare, ha facilitato il compito di suffragare il valore del lavoro pedagogico e didattico svolto nella e dalla scuola dell’infanzia. Questa è quindi stata un’opportunità di rilievo. Naturalmente l’aumento dei compiti disgiunto da un ampliamento delle risorse umane a disposizione non ha sempre permesso di raggiungere in tempi brevi taluni obiettivi fors’anche di grande importanza.

Con quel «semplice» cambiamento organizzativo, che sembra logico e poco importante, comincia una sorta di rivoluzione copernicana del nostro sistema scolastico. È da quel momento che inizia ad affermarsi la figura del direttore, che fin lì era un personaggio concesso per lo più a quella ventina di istituti quantitativamente più importanti: penso alle città e a qualche Comune di dimensioni discrete o dalle finanze floride. Ma resta intatta l’autorità, non solo gerarchica, dell’ispettore, che rappresenta comunque la Repubblica e Cantone del Ticino.

Tu vai in pensione dopo essere riuscito a dotare ogni scuola del tuo circondario, storicamente il VI, di un direttore e di una direzione, in anticipo sui tempi della politica: da settembre 2015 tutte le scuole comunali dovranno avere un direttore, benché, in qualche caso, tramite «job sharing». Nel VI è una situazione già decisa e acquisita, prima che arrivassero i tassativi obblighi del Cantone. Sei una musa ispiratrice delle scelte politiche di questo Stato o hai saputo annusare i cambiamenti e precederli, alla ricerca di modelli diversi?

In parte ne abbiamo già parlato all’inizio di questa chiacchierata. Per me si è trattato di un obiettivo strategico. Due anni dopo la mia entrata in funzione come ispettore avevo capito che era necessario creare un maggior numero di figure presenti sul territorio, dentro gli istituti scolastici e nelle aule. È vero che vi sono stati dei benefici magari un po’ casuali – penso ad alcune aggregazioni, come ad esempio quella delle Terre di Pedemonte. Altre direzioni sovra-comunali sono state possibili grazie alla fiducia che mi è stata concessa da diversi municipi, ciò che ha agevolato questo tessuto di proficue e concrete collaborazioni tra scuole di Comuni diversi. Non si deve dimenticare che come gruppo di autorità scolastiche del circondario avevamo puntato sin dall’inizio sulla realizzazione di sinergie che coinvolgessero tutte le scuole del circondario, tant’è vero che la collaborazione tra insegnanti è sempre stata fruttuosa e costante, a garanzia della crescita di numerosi progetti pedagogici e didattici rivolti ad allievi e docenti di tutte le sedi scolastiche.

Nondimeno il contributo concreto di tanti municipi ha permesso di creare una rete più efficace di comunicazione e di collaborazioni, con la creazione di direzioni scolastiche che già durante l’anno scolastico passato coprivano l’intero circondario. Non voglio peccare di immodestia, ma l’attività continuata per oltre due decenni in questa regione mi ha consentito di sentirmi parte di queste realtà sociali, culturali e politiche, e forse di guadagnare la fiducia di molte persone volonterose e impegnate, dentro e fuori dalla scuola. Forse hanno giocato anche le mie origini: mi viene in mente, per capirci, il sindaco di uno dei Comuni più distanti dal polo regionale, che una volta sottolineò il fatto che con me si potesse discutere, magari in dialetto, e pure capirci…

C’è chi dice – e io sono tra quelli – che le scuole comunali non hanno più molto di veramente comunale. I margini di manovra e di autonomia, in altre parole, sono relegati a poche questioni di relativa importanza, se non per la politique politicienne: messa a disposizione degli spazi, gestione dei servizi para-scolastici, scelta dei maestri… ’Na roba risibile, in fondo. Qualcuno ha calato le braghe, da qualche parte. Ma non è qui il luogo per parlarne. Tu sei anche municipale e capodicastero Educazione di un Comune di nascita recente. Qual è, concretamente, il peso del Comune nella gestione di un segmento scolastico che, almeno fino a qualche anno fa, era ritenuto fondamentale, mentre oggi è definito sin nei dettagli più minuti da leggi cantonali, benché a pagare siano i Comuni? In altre parole, cosa ne guadagnano i Comuni, al di là di qualche possibile assunzione, da leggere magari in ottica clientelare?

Il ruolo del Cantone deve restare centrale, per dare delle linee, per indicare dei confini che permettano poi di giocare la partita in modo libero. Poi certe restrizioni e certi vincoli, a volte molto stretti, non coinvolgono solo la scuola, ma attraversano praticamente tanti ambiti di competenza comunale. È però certo che, a tutt’oggi, i rapporti tra Stato e Comuni non sono più chiari. Giungono delle decisioni cantonali che possono anche avere un loro senso, ma che, in tutta sincerità, spesso intralciano l’agire dei Comuni. In generale, e questo vale anche per la scuola, sarebbe opportuno che ci fosse un quadro più chiaro, a vantaggio di tutti.

A partire dall’anno scolastico 2015/16, come si sa, tutti gli istituti comunali dovranno far capo a un direttore. Sarà però molto opportuno curare la formazione di queste persone, affinché non diventino dei burocrati che amministrano il funzionamento delle scuole senza poter incidere, assieme ai docenti, sulla qualità stessa della scuola. In altre parole, è fondamentale che il Cantone collabori con i Comuni a creare una nuova classe dirigente che abbia passione, che sappia assumersi le necessarie responsabilità e che possieda le competenze e le conoscenze di un settore sempre più complesso com’è quello della scuola.

Infine occorre che il Cantone abbia una visione generale di tutta la scuola, a livello di monitoraggio, controllo e valutazione. In ogni momento dovrà chiedersi: «Funziona o non funziona?». Sappiamo altresì che la diffusione più capillare dei direttori sul territorio farà diminuire il numero degli ispettori e ne modificherà sostanzialmente il ruolo. Personalmente ho il dubbio che la nuova fisionomia della funzione striderebbe con il mio carattere e con i miei obiettivi: mi mancherebbe l’incontro pressoché quotidiano con i docenti, gli allievi e tutti gli attori impegnati concretamente e anche fisicamente nella scuola. Sono più un pastore che un teologo, se mi è concesso il paragone. Ho amato il mio lavoro per ogni giorno di questi vent’anni e passa proprio perché mi permetteva di entrare nelle classi, di incontrare le maestre e i maestri, toccarne con mano i successi e gli insuccessi, e sedermi con i genitori e gli amministratori comunali. I miei momenti privilegiati erano quelli dei contatti diretti con i bambini, che erano il fulcro e il propulsore di tutto il resto.

So che negli anni dell’attività professionale avevi i tuoi sistemi per ricaricare le batterie e per evitare che i difficili, e a volte ansiogeni, compiti determinati dalla professione avessero il predominio sulla tua vita. Mi sento di dire che sei un uomo concreto, pragmatico: poche balle, ma con intelligenza e il cervello connesso. Non è naturalmente un insulto, né una sorta di Deminutio capitis, una diminuzione dei tuoi diritti e delle tue capacità d’azione.

E ora? Come sarà la tua vita dal 1° settembre in poi? Toccherà a te, stavolta, fare la rivoluzione copernicana: perché tua moglie – come sempre dietro un uomo di valore c’è una grande donna – non potrai più condirla via con le richieste inderogabili di chi ti dà la michetta.

Dovrò fare un esercizio, quello di non più passare le giornate a passo di corsa, assillato da orari, incontri, visite, scadenze. Spero di riuscire, nei prossimi mesi e anni, a intrattenere le mie relazioni di amicizia con tante persone senza dovermi sedere con un occhio perennemente rivolto all’orologio. Mi piacerebbe poter bere il caffè o l’aperitivo in compagnia con la calma rilassata del pensionato. Questo è un regalo che mi voglio donare.

Senza voler diventare invadente, spero di poter continuare talune mie attività a favore della società, che ho svolto anche in passato a titolo volontario, come una sorta di dovere                                                                                 verso una comunità che mi ha dato comunque tanto. Poi resteranno quei piaceri più privati, che di certo non abbandonerò, anzi… Per me la famiglia ha sempre rivestito un ruolo quasi sacrale. Però è vero che negli anni abbiamo dovuto fare spesso dei sacrifici, che andavano un po’ contro questa dichiarazione di grande rispetto. Tanto per esemplificare, ho sempre cercato di dedicare i fine settimana alla famiglia, ma è pur vero che tantissime volte la mia funzione mi ha portato fuori dalla famiglia anche al sabato e alla domenica. Spesso erano anche dei bei momenti, delle feste, delle inaugurazioni, ma naturalmente era un ulteriore prolungamento del mio ruolo professionale sottratto all’ambito privato, che non appartiene esclusivamente a me. Qui ci sono certamente degli ampi margini di recupero.

Oggi sono contento di poter smettere senza essere stufo, senza dovermi dire «Per fortuna è finita!». Chiudo felice di quello che ho fatto, sentendomi favorito dalla sorte per il mestiere che ho potuto scegliere, nella consapevolezza di aver fatto tutto quel che era nelle mie possibilità, anche se sicuramente, in certi casi, non sono riuscito a raggiungere quei traguardi che sarebbero stati auspicabili. Ho un rincrescimento, un po’ una nostalgia, che d’altronde mi ha accompagnato per tutta la vita: quando mi stacco da qualcosa di importante vado incontro a un periodo di malinconia che riguarda le persone con cui ho lavorato e, in parte, vissuto. Sarà una debolezza, e so che non significa perderle: ma sono consapevole che i rapporti futuri saranno di altro tipo. Mi dovrò (ri)abituare.

C’è qualche domanda che ti aspettavi e che non ti ho posto?

Non credo, in fondo le hai già escluse tu. Non mi hai chiesto ipotesi sul futuro. Non voglio essere né un supponente, né voglio fare la cassandra. Spero solo che quello che in tanti abbiamo seminato negli scorsi decenni possa essere corretto, migliorato o, per certi versi, anche sostituito, con il dovuto rispetto e col riguardo dovuto alla conservazione della memoria, perché è solo attraverso la memoria che si possono costruire cose diverse e utili…

Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.

A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?

La parola in piazza, al mercato del giovedì.
La parola in piazza, al mercato del giovedì.

È la terza volta, in poco tempo, che torno a scrivere di «Piazzaparola», che quest’anno ha fatto conoscere Ovidio e alcune sue metamorfosi a ragazzine e ragazzini di nove o dieci anni, naturalmente adattate per la loro età e per il loro (presunto e presumibile) retroterra di conoscenze. L’ho fatto nel giugno scorso («Perque omnia sæcula vivam!») e poi ancora ai primi di settembre (Rieccomi).

Se ci torno nuovamente oggi è per due o tre ragioni che vanno al di là della classicità, dei miti dell’antichità, della manifestazione pubblica e di ogni altro motivo legato all’attualità, alla cronaca, all’autocelebrazione o alla visibilità di chi ha comunque il coraggio di sostenere proposte di tal fatta. Tra le tante cose che mi prescrive il medico a scadenze regolari, non c’è che mi debba impegnare a organizzare «Piazzaparola» o altri eventi sui generis.

Giovedì scorso, a Locarno, abbiamo ospitato poco meno di 300 alunni delle scuole elementari della regione. Nessun maestro, presumo, è stato obbligato dal suo direttore a portare la sua classe a seguire le nostre parole in piazza. Eppure si trattava di una mattinata esigente e difficile.

L’appuntamento con allievi e maestri era per le nove al Teatro di Locarno. I primi dieci minuti sono passati con il benvenuto del direttore del DFA della SUPSI, Michele Mainardi, e un’introduzione a ciò che sarebbe successo di lì a poco.

Ai giardini Rusca
Cristina Zamboni e Simona Meisser narrano due metamorfosi ai giardini Rusca, accanto alla scultura del toro che l’artista Remo Rossi (1909-1982) ha donato alla città di Locarno nel 1976.

Io e Silvia Demartini, la mia impagabile complice nelle cose di «Piazzaparola», abbiamo spiegato al nostro pubblico cosa sarebbe successo nei prossimi cinquanta minuti: perché per 23 e passa minuti la platea avrebbe ascoltato La via Lattea, l’origine del mondo dal caos, la nascita dell’uomo, in un nostro adattamento (più di Silvia che mio, a dirla tutta). D’accordo, c’era la suggestiva ed evocativa fantasia musicale di Giovanni Galfetti, composta per l’occasione; c’erano le voci suadenti di Marco Fasola e Beppe Vedani; e c’era il racconto di Ovidio, così come l’avevamo trasformato, con quel qualcosa che ancora mancava, quell’essere più nobile e più intelligente, che sapesse gestire gli altri, l’Uomo, impastato con acqua piovana e terra.

A seguire Eco e Narciso, messi in scena da Sara Giulivi e Cristina Zamboni, che hanno piegato la narrazione alle loro dolcezze attoriali: creando sul palco spoglio un pathos mica da niente.

Insomma, dieci minuti di protocollo, ventitre minuti di ascolto al buio, con alcuni giochi di luce, discreti. Poi un altro un quarto d’ora di storie d’altri tempi, ma con emozioni moderne. Eppure in quei cinquanta minuti nessuno ha fatto caciara, non ci sono stati schiamazzi da stadio, non si sono visti insegnanti furibondi, a gridare «Silenzio!» e a minacciare improbabili e feroci punizioni. Segno che i nostri ragazzi sono bene educati.

Da lì in poi, almeno per me e per Silvia, la strada è stata in discesa: è più facile raccontare storie quando ci sono la bravura e l’emozione di attrici come Sara Giulivi e Cristina Zamboni, che hanno duettato con un artista eclettico – Daniele Dell’Agnola, qui in veste di musicista, con la sua superba fisarmonica – e con un’illustratrice brava quanto affascinante – Simona Meisser. Insomma: all’udito abbiamo concesso qualche altro organo di senso in più…

Il ratto di Europa, secondo Simona Meisser.
Il ratto di Europa, secondo Simona Meisser.

Che concludere? Che si possono offrire cose difficili e impegnative anche a ragazze e ragazzi di nove o dieci anni. Che per fare cultura con i futuri adulti, i cittadini di domani, non è obbligatorio farli ridere a tutti i costi, con le banalità più grossolane e chiassose, e non è nemmeno così democratico interagire con loro minuto dopo minuto, chiedendo di esporre le tesi più improvvisate, condite dall’immancabile commento dell’adulto, che tutto sa e tutto accredita: basta divertirsi, fingere di essere alla mano, giocare al buon democratico e sdoganare ogni scemenza sparata al microfono volante dal piccolo narcisista di turno, che ha ben memorizzato le dinamiche televisive – mentre, per restare a quel giovedì ovidiano, non ha capito la storia di Narciso (a tempo debito bisognerà fargli leggere il capolavoro di Oscar Wilde, con test al seguito).

Voglio dire: in quel giovedì mattina si è dimostrato che i nostri decenni, se rispettati e presi sul serio, sanno comportarsi come o anche meglio di tanti adulti, che a certi congressi VIP magari s’addormentano o fanno i giochini con lo smartphone.

E allora, dov’è l’inghippo?

Me lo chiedo. Nei prossimi giorni chiunque potrà scaricare dal sito del DFA della SUPSI tutti i materiali utili per capire cos’è successo quel giovedì mattina. Tutto sarà disponibile al link della manifestazione: Torna Piazzaparola! Metamorfosi: storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone.

«Ieri un calice si è spezzato a causa di tutto questo fracasso, e il mio vino si è rovesciato sulla mia toga nuova!», disse Bacco, dio del vino e della vendemmia.
«Ieri un calice si è spezzato a causa di tutto questo fracasso, e il mio vino si è rovesciato sulla mia toga nuova!», disse Bacco, dio del vino e della vendemmia.

 

Intendiamoci: chi ha partecipato a «Piazzaparola», quest’anno come negli anni scorsi, ha vissuto un avvenimento caratterizzato dall’essere insieme, dal vivere con altri un momento artistico emozionante. Ma i racconti di Ovidio sono lì, a disposizione di chi li vuole. Per primi, ovvio, chi era con noi, perché il piacere di ripercorrere, capire e approfondire è maggiore se legato alla partecipazione concreta. Un conto è aver visto e sentito «Eco e Narciso» recitato dalle nostre attrici, un altro conto è leggerlo personalmente.

Ma la forza del racconto resta intatta.

E allora sarebbe interessate riuscire a sensibilizzare quelle centinaia di maestre e maestri che operano lontano da Locarno, e che ben difficilmente potrebbero partecipare alle nostre offerte. Ma, ancora una volta, non mi faccio troppe illusioni: de facto Ovidio e i classici – i classici di tutte le arti – interessano poco alla scuola o alla scuola dell’obbligo. Basterebbe pensare che «Piazzaparola junior», manifestazione che a Lugano ha mosso i primi passi, da quest’anno non ha più organizzato nulla per le migliaia di allievi della grande Lugano e dell’intera regione.

E avanti con le supposizioni.

Ho detto che le maestre e i maestri che hanno accolto il nostro invito sono una quindicina. Dalla maggiore parte di loro ho riscosso, a fine mattinata, apprezzamenti molto lusinghieri. Modestamente mi vien da dire che, magari, sono stati solo educati e gentili, perché hanno rispettato un lavoro preparatorio che hanno stimato intenso e disinteressato. Ma sono sicuro che nessuno di loro, rientrato in classe, si è messo a fare i test e a dare le note agli allievi.

Proserpina - Meisser
La nascita delle stagioni nell’illustrazione di Simona Meisser.

E qui giungiamo a un punto cruciale. Questi insegnanti hanno la possibilità di arricchire la giornata rileggendo le storie di Ovidio, discutendole, confrontandole col presente, cercando di coglierne gli insegnamenti e gli intendimenti morali o etici. Volendo, potranno tuffarsi nell’antichità e nella romanità, nel greco antico, nel latino e nel percorso affascinante e appassionante della nascita delle lingue romanze. E potranno anche chinarsi sulla vicenda di quell’uomo impastato con acqua piovana e terra, così simile all’Adamo biblico, sgorgato dalla penna del poeta latino quando Gesù Cristo aveva meno di dieci anni.

Tre anni fa ho colto lo stuzzicante invito di «Piazzaparola», quello di proporre anno dopo anno del classici della letteratura e della cultura italiana ad allievi di scuola elementare. Lo faccio con passione, anche grazie a chi mi asseconda, mi sostiene o – come Silvia Demartini – fa in modo che sia possibile passare dalle chiacchiere alla realtà: perché personalmente non ho i numeri per presentare ad altri Ovidio (o Leonardo nel 2014 o Boccaccio due anni fa o chissà chi negli anni a venire).

Dopo averci pensato a lungo, Zeus decise di compiere una grandiosa trasformazione: posò lo scettro, ritirò il fulmine che era solito lanciare sulla terra e si tramutò in un enorme e maestoso toro.
Dopo averci pensato a lungo, Zeus decise di compiere una grandiosa trasformazione: posò lo scettro, ritirò il fulmine che era solito lanciare sulla terra e si tramutò in un enorme e maestoso toro.

Credo, lo credo fermamente, che queste cose così inutili, legate alle arti, siano un atto di resistenza di grande importanza al cospetto della scuola di oggi, così tecnocratica e selettiva, che sta invadendo il nostro paese, assieme a tanti altri. Perché non se ne può più di HarmoS, delle competenze, dei test, delle valutazioni a getto continuo, del disprezzo che la scuola mostra verso tutto ciò che non può essere misurato e pesato e proposto in modo utilitarista: la più grande fregatura da quando esiste la scuola pubblica e obbligatoria. Ovidio, assieme ai suoi colleghi artisti di tante discipline, è molto più importante, per la democrazia e la civiltà, di tanti usi perversi e fondamentalmente immorali che la scuola di oggi, giorno dopo giorno, infligge alle grandi conquiste umane e intellettuali, dall’antichità ai giorni nostri: dall’etica al diritto, dai teoremi di Euclide alla meccanica quantistica, dalla genetica alla robotica.

Sempre più spesso sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…».

Un ricordo schietto, dieci anni dopo

L’altro giorno, 8 settembre, era la giornata mondiale dell’alfabetizzazione. Per fortuna me l’ha ricordato Cooperazione, il settimanale della Coop, uscito proprio quel giorno lì, che ha dedicato un servizio un po’ del menga al tema. Titolo, accattivante: Scrivere – Un’arte in via di estinzione? Svolgimento: ognuno si faccia la sua idea.

Non intendo parlare delle giornate mondiali. Assomigliano un po’ alle feste patronali, che si rifanno (o, meglio, si rifacevano) a qualche santo, anche se la parte religiosa non è certo la più frequentata e attesa, a parte i soliti bigotti che, per paura di finire all’inferno, si prestano anche a portare in giro per il paese qualche statua, solitamente in lunghe processioni votive, che, a tarda sera, finiscono normalmente in gloria. Mi viene in mente che a Riveo, frazione del mio paesello d’origine che ora è stato «aggregato», c’era la festa della Madonna delle rane, che cadeva in maggio: processione, coi baciapile dietro al prete, a cantare e portar la croce; messa solenne nella chiesetta, incanto sul sagrato, e poi via con le gambe sotto il tavolo. Mangiatene e bevetene tutti…

Bene, lasciamo perdere le giornate mondiali e le sagre paesane, anche se le seconde son più sensate delle prime, benché a confini più ristretti.

Tornando invece al tema della scrittura, convengo che scrivere potrebbe effettivamente essere un’arte in via di estinzione. Diciamo che si scrive tanto, tutto sommato. Ma male. L’importante è farsi capire. Poi non funziona quasi mai, anche se l’ortografia, a volte, è a posto. Come dice un divertente libretto che sto leggendo, La situazione è grammatica (Andrea De Benedetti, Einaudi).

Mi sarebbe piaciuto riattivare Cose di scuola il 12 agosto. Il 12 agosto di dieci anni fa era morto prematuramente, a soli 48 anni, un caro amico e collega, Luca Franscella, maestro nelle “mie” scuole. L’anno dopo il Collegio dei docenti istituì un premio di scrittura  intitolato a lui e indirizzato agli allievi di 5ª elementare, il cui scopo era definito dal regolamento:

«Oltre a ricordare la figura di Luca Franscella, che al di là dell’impegno professionale era attivo in molteplici altre attività e riservava uno spazio privilegiato alla lettura e alla scrittura, il concorso si prefigge di incentivare il piacere della scrittura attraverso la riflessione, la pratica costante e il regolare miglioramento delle conoscenze e delle competenze linguistiche di ogni allievo».

Il concorso ha avuto sette edizioni, ospitando, come padrini o madrine, sette professionisti della scrittura che avevano proposto sette temi di sicuro interesse:

  • Andrea Fazioli, «Una storia mozzafiato»;
  • Dario Robbiani, «Dal nostro corrispondente da…»;
  • Simone Fornara, «Scrivo per ricordare»;
  • Gino Buscaglia, «Come in un’avventura»;
  • Manuela Mazzi, «Il posto più bello del mondo»;
  • Mario Gamba, «Dico la mia»;
  • Alfredo Stoppa, «Se penso a mio nonno».

Copertina Franscella VIINell’estate di due anni fa ho lasciato la direzione di quelle scuole. Era normale, ne sono certo, che questa modalità per non dimenticare Luca Franscella si prendesse una pausa di riflessione. Inutile nascondere che c’era qualche dubbio, qua e là, e che un ripensamento fosse necessario. In maniera del tutto libera se n’era parlato nella pubblicazione dell’ultima edizione, di cui qui è possibile scaricare alcuni estratti.

Non c’è nessun accenno polemico, in queste righe. So fin troppo bene quali sono le poste in gioco quando si dirige un istituto scolastico complesso, come quello di Locarno: soprattutto in questi tempi neoliberisti e tecnocratici.

Ma, in assenza di qualcosa, mi è sembrato doveroso ricordare un collega e amico importante, a dieci anni dalla sua scomparsa. Il 24 luglio scorso avrebbe compiuto 58 anni.

Rieccomi

Non sono così ingenuo da credere che gli abbonati alla mia newsletter si siano accorti che Cose di scuola era sparito dal web da almeno un paio di mesi. Oddio, qualche amico gentile mi aveva detto che non riusciva più ad accedere al mio dominio; qualche altro, incontrandomi, mi faceva i complimenti: «Leggo sempre con interesse i tuoi articoli». Qualche altro ancora avrà ghignato sotto i baffi.

No, garantisco che non ero a corto di idee. La situazione è ben più terra terra. Quando, nei primi mesi dal 2014, mi era venuta l’idea di aprire ’sto sito avevo chiesto a un giovanotto come funzionava la questione. Capivo poco un anno fa e non ho fatto molti passi avanti. Gentilmente e con entusiasmo mi disse quali erano i passi che potevo fare io e fece lui gli altri, quelli più complicati. Così, verso metà marzo, nell’immensità del web comparve anche Cose di scuola.

Come è normale in queste faccende, a un certo momento m’è venuta la voglia di cambiare qua e là, di migliorare la comunicazione e l’organizzazione del sito. Ma il mio giovane webmaster era sparito. Volatilizzato. Parafrasando il mio amato Alfred Hitchcock, The lord vanishes. Malauguratamente, con lui sono scomparsi anche taluni «attrezzi» del sito: pensavo, ingenuo che sono, che era solo questione di aver pazienza, che prima o poi il giovanotto m’avrebbe fatto avere almeno l’ultimo backup completo del mio sito. E così son passati due mesi.

Allievo conducenteNel frattempo ho trovato un altro amico che mi dà una mano per tenere in vita il mio dialogo sulle cose di scuola. È un giovanotto dentro, anche se l’anagrafe tentenna. Vado in giro con la targa da allievo conducente. Prima o poi riuscirò a capire come funziona il tutto: potenza della scuola attiva. Per il momento mi scuso: il sito si presenta con una nuova veste grafica, ma è ancora largamente incompleto e con tante provvisorietà. Solo per sistemare la newsletter mi ci è voluto un pomeriggio.

Naturalmente il mondo della scuola non si è fermato. In questi mesi sono successe tante di quelle cose che avrei potuto divertirmi. Ma riuscirò a riprendere il filo del discorso. Come per il caso del giovanotto, anche in quest’ambito occorre solo aver pazienza.

Per ora auguro buon anno scolastico a chi ha a che fare con la scuola – come insegnante, allievo o studente, genitore, funzionario, politico o che so io – e vi aspetto giovedì prossimo, 10 settembre, per «Piazzaparola», che quest’anno sarà dedicato a Publio Ovidio Nasone: era stato l’ultimo articolo che avevo pubblicato prima del blackout, il 17 giugno: «Perque omnia sæcula vivam!».

Siamo ormai alle ultime rifiniture. Sentiremo alcune storie bellissime tratte dalle Metamorfosi: Apollo e Dafne, Giove ed Europa, Proserpina, Dedalo e Icaro e re Mida. Inizieremo con la via Lattea, l’origine del mondo dal caos, la nascita dell’uomo, con le belle voci degli amici Marco Fasola e Beppe Vedani – le voci del promo della nostra radio – e un’affascinante musica composta per l’occasione da Giovanni Galfetti.

Poi Sara Giulivi e Cristina Zamboni racconteranno la metamorfosi di Eco e Narciso. Dopo di che andremo in piazza. Al mercato di Piazza Grande Sara Giulivi darà voce a due miti, con la stupenda musica della fisarmonica di Daniele Dell’Agnola. E in contemporanea, ai giardini Rusca, Cristina Zamboni rivelerà un paio di altri cambiamenti ovidiani, coi disegni in diretta dell’illustratrice Simona Meisser.

A questo indirizzo, nel sito della SUPSI, trovate tutti i dettagli.

Ci vediamo?