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Scuole in collina: prove tecniche di collaborazione

Ecco un articolo che è stato pubblicato in questi giorni dalla rivista «Orselina 2015», edita dalla Pro Orselina, dove si parla di pluriclassi e dell’importanza di frequentare la scuola elementare dove si cresce e si vive.

È possibile scaricare interamente la rivista (Orselina 2015) o solo l’articolo, con le immagini e tanto di traduzione in tedesco: basta cliccare qui.


 

Da qualche anno si discute, tra i comuni della collina – Locarno, Orselina e Brione sopra Minusio – della possibilità o della necessità di creare una proficua collaborazione nella gestione delle tre sedi di scuola dell’infanzia ed elementare. Come è forse noto, da diverso tempo Brione e Orselina hanno stipulato una convenzione che regola la gestione della scuola dell’infanzia e della scuola elementare. Orselina ospita la scuola dell’infanzia e una sezione della scuola elementare, mentre un’altra sezione di scuola elementare è a Brione. Dal canto suo, i bambini di Locarno-Monti e di Brè frequentano la scuola dell’infanzia in città e la scuola elementare ai Monti, nella sede ampliata nel 2009 per far fronte a un’ipotesi di crescita importante della popolazione scolastica, crescita che si era poi esaurita in pochi anni.

Il progetto di aggregazione dei comuni della sponda sinistra della Maggia, poi bocciato in votazione popolare nel settembre del 2011, aveva permesso uno studio assai articolato circa l’organizzazione delle scuole della collina, con al centro un principio che ritengo tuttora di grande validità: «Si può (…) ritenere che la presenza della scuola – di una scuola – sul territorio stesso del comune rivesta un’importanza fondamentale, non fosse che a livello di identità e di attaccamento al proprio territorio. Molti comuni che, a suo tempo, optarono per le chiusure delle loro scuole, si sono assai rapidamente trasformati in anonimi quartieri-dormitorio. Un comune senza bambini che lo percorrono per andare a scuola è un comune senz’anima. Frequentare la scuola nel proprio comune – o nel proprio quartiere – è la prima condizione per conoscerlo»[1]. Nell’ottica di una futura collaborazione tra le tre entità comunali, è però necessario tener conto di due novità che saranno operative sul breve termine: la prima è l’entrata in funzione di HarmoS[2], che anticipa l’obbligo di frequentare la scuola a partire da quattro anni; la seconda è l’obbligo, stabilito da una recente decisione del Gran Consiglio, che ogni istituto di scuola comunale faccia capo a un direttore, decisione che azzera la figura del docente responsabile sino a oggi praticata da Brione e Orselina.

La collaborazione con Locarno, a questo punto, rischia di essere logica e naturale; al di là dell’obbligo imposto dal cantone in materia di direzione, Locarno dispone in collina di una sede scolastica ampia e, almeno in parte, moderna, ciò che non è il caso degli altri due comuni: è vero che la qualità della scuola è determinata principalmente dagli insegnanti, ma è altrettanto vero che gli spazi della scuola concorrono a creare quella serenità indispensabile affinché il lavoro di andare a scuola sia piacevole, per maestri e allievi. Detto questo, non si possono scordare due dati importanti entro i quali collocare i dettagli della collaborazione. Il primo è di natura schiettamente numerica: gli allievi presenti tra Brione e Locarno Monti non richiedono l’impellente aumento degli spazi scolastici, ma solo una migliore utilizzazione. Il secondo, più importante, è che Locarno-Monti, Orselina e Brione non hanno molte caratteristiche in comune, se non il fatto di trovarsi in collina e di far capo a una popolazione che, dal punto di vista socio-economico, è abbastanza affine.

Dunque converrà progettare la collaborazione alla luce delle due novità citate, affinché le maestre e i maestri che svolgono la loro attività in collina possano migliorare ancora un livello già buono, attraverso l’alleggerimento burocratico e una nuova organizzazione che non dev’essere «rivoluzionaria» a tutti i costi. Il mantenimento delle attuali sedi scolastiche è scontato e irrinunciabile. Le pluriclassi, sino a oggi, hanno dimostrato che sono tutt’altro che classi di serie B, come si sente spesso ripetere da più parti, in modo invero un po’ dogmatico. Anzi, a parer mio conservano un valore aggiunto rispetto alle monoclassi che sarebbe da scellerati il solo pensare di smantellarle o di ridurle tutte verso il modello che più assomiglia all’omogeneità[3], senza dimenticare che questo tentativo farebbe aumentare il nomadismo giornaliero degli allievi, aumentando i disagi e i costi.

In altre parole, e per concludere, i dettagli dell’accordo di collaborazione dovranno rappresentare un vantaggioso miglioramento per tutti e non solo un atto amministrativo.

[1] Educazione – Documento ad uso del gruppo di lavoro nell’ambito dello studio di aggregazione dei comuni della Sponda sinistra della Maggia, sottoscritto dai capidicastero dei sette comuni coinvolti, gennaio 2009.

[2] Accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, al quale il Canton Ticino ha aderito.

[3] A questo proposito si veda pure l’articolo W l’eterogeneità! W le pluriclassi! nel mio sito Cose di scuola (www.adolfotomasini.ch).

«La buona scuola è innanzi tutto un’idea»

È bello, di tanto in tanto, imbattersi in qualche opinione sulla scuola che sia in grado di sfuggire ai discorsi che s’ispirano alle solite tiritere, in parte conservatrici e in altra parte utilitariste, ma nel complesso attente ai tornaconti individuali o di casta, tanto da rasentare spesso la bugia.

È il caso di un bell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia apparso sul Corriere della sera di domenica 8 marzo 2015 con un doppio titolo: La scuola cattiva è questa, in prima pagina, con un rimando diretto alla situazione italiana e alle attuali proposte di riforma, e La visione che manca alla buona scuola a pagina 28.

Lo storico e pubblicista italiano sta alla larga dalla baraonda delle tesi e contro tesi che caratterizzano un po’ dappertutto le pseudo-discussioni sull’istituzione scolastica, ma risale alle sorgenti. Scrive che «La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire».

E ancora: «La scuola – è giunto il momento di ribadirlo – o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società. La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta».

Siamo insomma lontani anni luce dai soliti discorsi che infarciscono le campagne elettorali, quelli con un fervorino agli imprenditori e uno ai sindacati, qualche proposta per risolvere tutto – l’educazione civica, il salmo svizzero, il tablet, le varie “educazioni mirate”… – e tanta, tanta ipocrisia.

Ne tenga conto chi vede volentieri una “nuova e diversa” scuola che verrà e chi, invece, sta facendo di tutto per non lasciarla neanche partire. Nell’uno come nell’altro caso la sostanza delle cose non cambierà.

Naturalmente non m’illudo che, così all’improvviso, chi è nella stanza dei bottoni sia capace di uscire dai percorsi tradizionali (e conservatori). Lo dico dunque così, per scaramanzia. Però, secondo me, ha ragione Galli Della Loggia: la scuola o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è.

 

[È possibile risalire all’articolo nel sito del Corriere della sera – La scuola cattiva è questa – o scaricarne il testo qui.]

Un cappotto rivoltato può sembrare nuovo

Poverina. Sono ormai cinquant’anni che la scuola, in particolare quella dell’obbligo, ha perso la calma e la serenità necessarie per poter svolgere bene il proprio lavoro. A dirla tutta, non si riesce neanche più a trovare un po’ di consenso sulla definizione dei suoi compiti e del suo ruolo. È sconsolante seguire l’andamento delle cose e leggere le soluzioni, quasi sempre facilone più che facili. S’era cominciato con alcune battaglie sacrosante per le pari opportunità e in favore di un’equità capace di non curarsi dei divari di ceto e di censo. Abbiamo avuto la scuola media, che però, proprio a quei livelli, non ha mai ingranato. C’era anche un’altra parola chiave, mezzo secolo fa: partecipazione. Oggi partecipano tutti, tutti fan parte dell’orchestra, ma non si accordano, e la cacofonia cresce. Frattanto, a partire dagli anni ’80, il mondo ha cominciato a cambiare a ritmi esagerati. Forse se ne rende conto solo chi è già un po’ in là con gli anni. Ecco qualche parola chiave, tanto per capirci: informatica, www, globalizzazione dei mercati, caduta del muro di Berlino, euro e unione europea. Basta?

La scuola, fin qui, ha risposto aggiustando e rabberciando qua e là. Si dice spesso che è un cantiere perennemente aperto. A me sembra invece uno studio di progettazione, con dentro decine e decine di architetti appartenenti alle più disparate e contraddittorie correnti di pensiero. Che non riescono mai a mettersi d’accordo, ma si concedono l’un l’altro, a turno, qualche cortesia: un pizzico di socialità, una manciata di informatica, un po’ di lingue. L’importante è che la sostanza non cambi. Per giunta, dalle nostre parti incombono le elezioni del governo e del parlamento: una quarantina di candidati al consiglio di stato e oltre seicento al gran consiglio, con galoppini al seguito, che parlano di finanza, economia, lavoro, territorio, socialità, sicurezza.

E anche di scuola. In questi giorni se ne leggono d’ogni forma e colore. Tutti proclamano e propongono, come se bastasse ficcare una materia nei programmi e nella griglia settimanale per risolvere un problema. Naturalmente non è così. La scuola non funziona come i cani di Pavlov. Si continua a ripetere che la benemerita istituzione deve stare al passo con l’evoluzione del mondo, ma se c’è un’istituzione immobile e immutata questa è proprio la scuola, che continua a girare come due secoli fa, manco che nulla, attorno a lei, fosse cambiato.

Facciamo ancora capo a una struttura che ha saputo dare alla società risposte convincenti e vantaggiose per un paio di secoli, dall’alfabetizzazione alla modernità. Ma quella è una società che non esiste più. La politica, i sindacati e le tante lobby, interne ed esterne, continuano a proporre e concretizzare riforme che non mutano la sostanza, mentre somigliano tanto al cappotto rivoltato d’altri tempi. Non è con le pezze e i rattoppi che si possono affrontare le sfide educative proposte da un mondo che non è più quello che diede i natali a questa struttura scolastica. Dunque: o saremo in grado di cambiare la scuola per davvero, a partire dalla sua stessa organizzazione – il calendario, gli orari, l’indissolubile triangolo «un maestro, un’aula, un gruppo di allievi», i programmi e le frammentazioni disciplinari, con la valutazione che è il vero deus ex machina di tutto il sistema – oppure ci penserà qualcun altro: facendosene un baffo della democrazia e dei cittadini consapevoli. Sempre che l’insano processo non sia già iniziato.

Un matrimonio diverso e in apparenza un po’ strambo

Copertina flyer italmatica_Pagina_1L’esogamia, in etnologia, è la regola, adottata da tanti popoli dell’antichità, che prescriveva il matrimonio tra persone di altre tribù. La biologia invece, che definisce l’esogamia come un metodo riproduttivo attraverso l’incrocio di individui poco affini, dà implicitamente la spiegazione scientifica alla scelta di “quei” popoli che, per primi e in maniera molto assennata, avevano capito che l’arricchimento del patrimonio genetico era fondamentale per il miglioramento della specie Homo sapiens. Ho conosciuto la prorompente forza dell’esogamia leggendo Edgar Morin, in particolare il suo Le paradigme perdu: la nature humaine del 1973, e seguendo all’università le lezioni su questo tema di quel grande maestro che è stato per me Walo Hutmacher.

Non è il caso che mi metta a declamare più o meno a memoria le mie (presunte) conoscenze sul tema e le loro ricadute in termini di educazione. Basti dire che, secondo il filosofo e sociologo francese, senza l’esogamia Homo sapiens non sarebbe diventato l’animale così evoluto che conosciamo, una bestiola capace di sragionare, ma proprio per questo pure ingegnoso nel fare nascere ordine dal caos: determinando la sua stessa evoluzione.

La questione m’è venuta in mente pensando al titolo del convegno organizzato nel giugno prossimo dal Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI. Silvia Sbaragli, PhD in Mathematics Education, e Simone Fornara, dottore di ricerca in linguistica italiana, ideatori del convegno e, soprattutto, iniziatori di questa bella storia d’amore tra due individui appartenenti a tribù diverse, han voluto chiamare il convegno «Questo matrimonio s’ha da fare», con sottotitolo didascalico e chiarificatore: «Italiano e matematica nella scuola del terzo millennio».

Insomma, non hanno resistito alla voglia di ribellarsi all’esortazione del bravo, che aveva intimato al pavido e accomodante Don Abbondio: questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. Sappiamo com’è andata a finire la storia di quel matrimonio.

Resta che, come hanno scritto Silvia Sbaragli e Simone Fornara nella presentazione dell’evento, il convegno che propongono va decisamente contro i luoghi comuni, quei luoghi comuni che oppongono pressoché da sempre l’italiano e la matematica, falsamente definite disciplina pressappochista e “creativa” la prima, scientifica e “pignola” la seconda. Per poi accorgersi, soprattutto fuori dalla scuola, che entrambe sono discipline umaniste, che han solo da guadagnare da un matrimonio come questo. Si noti, d’altra parte, che la matematica, sostantivo femminile, è disciplina che, nel pensare popolare, s’addice soprattutto agli uomini, mentre l’italiano, sostantivo maschile, può andar bene anche per cervelli di donna. Ditelo a Margherita Hack o a qualche sua collega di ieri e di oggi.

Insomma: tante fantasie da parte di uno che alla matematica ha sempre dato del Lei senza capirla molto, per segnalare il convegno italmatico del 25 giugno e per raccomandare a ognuno di prendervi parte. Perché la scuola, soprattutto quella dell’obbligo, ha un gran bisogno di arricchire il proprio patrimonio genetico.

Il solito uso ambiguo della cultura e della conoscenza

Mi scrive spesso un amico dall’Italia per commentare i miei articoli, in cui trova, certo con troppa indulgenza, «osservazioni piene di ragionevolezza». A proposito dei recenti scritti sull’educazione alla cittadinanza ha osservato: «Come si può pensare di trasferire su pagine “scolastiche” l’educazione alla cittadinanza? Immagino ragazzi impegnati a compilare schede e a rispondere alle assurde domande di qualche questionario. Qui in Italia con i grandi temi finisce sempre così: penso all’educazione ambientale diventata pretesto per far leggere brani antologici di un grande Rigoni Stern “amputati” di parti ritenute sconvenienti (mi ero occupato una decina d’anni fa dello scempio antologico del nostro scrittore), ma penso anche con te che le “posizioni in bianco e nero” siano deleterie e finiscano per ignorare che educare alla cittadinanza vuol dire semplicemente educare…»

Non solo in Italia, caro amico.

Credo che si tratti di un vezzo piuttosto diffuso e, tutto sommato, significativamente caratteristico della scuola, che quando non può dàr le note si sente nuda come una ranocchia. Non sapevo delle mutilazioni commesse dalla scuola ai danni di Rigoni Stern. Ma ho dimestichezza con le tante carognate che la scuola ha comminato a tanti geni che hanno avuto la malasorte di finire dentro i programmi scolastici: da poeti a romanzieri a drammaturghi, da matematici a fisici, da musicisti a pittori e scultori, da storici a geologi, è tutto un fiorire di brutalità. La scuola sacrifica pressoché da sempre la conoscenza e la cultura sull’altare della valutazione – cioè, per chiarezza, sull’altare dell’inveterata volontà di assegnare delle note a tutti i costi.

Non c’è insegnamento degno di importanza se la scuola non può mettere in atto una valutazione, espressa in termini di nota scolastica: ciò che significa dentro o fuori, adeguato o inadeguato, va’ avanti o resta lì. Poi, va’ a capire perché, le statistiche ci dicono, ormai da decenni, che si finisce più facilmente dentro o fuori se si appartiene a certi ceti piuttosto che ad altri.

Rigoni Stern è stato immolato per poter fingere, a scuola, di «fare» educazione ambientale. Gli è andata bene. C’è chi è stato oltraggiato per «fare» italiano o matematica: basti pensare a quanti odiano e hanno odiato Dante e Manzoni, Leopardi e Ungaretti, Euclide e Pitagora: mentre sarebbe ben più facile e gratificante farli amare.

Suvvia, mi dicono spesso, lo sanno anche i paracarri che la scuola senza note non funziona. C’hanno provato in tanti, nel passato, ma hanno sempre fallito. Eppure tutti imparano a padroneggiare bene delle competenze, per nulla semplici, come camminare o parlare, senza che i loro insegnanti, di solito una mamma e/o un papà, debbano far capo alla tradizionale paccottiglia scolastica (compiti a casa, lezioni ex cathedra, test, note, comunicazioni ai genitori, libretti scolastici e certificati finali). Per dirla con altre parole: la scuola dell’obbligo potrebbe funzionare molto meglio di quel che accade oggi se solo educare e insegnare diventassero per davvero le travi portanti della quotidianità di ogni aula. Ma, disgraziatamente, non è così.

Mi viene in mente Philippe Perrenoud, quando abbozza un paragone tra la scuola e il sistema sanitario: «Nessun bambino sfugge all’azione pedagogica della scuola, alla quale è affidato da 25 a 35 ore alla settimana per almeno una decina di anni. Se la medicina preventiva potesse prendere a carico le persone in maniera così autoritaria e continuata, non le si perdonerebbe neanche una malattia!». (PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences, 1995, Paris: ESF éditeur).

Ogni tanto faccio un sogno. Vedo le vie e le piazze d’Europa, da Palermo a Reykjavík e da Lisbona a Vienna, che si riempiono di maestre e maestri di scuola elementare e, addirittura, professoresse e professori della scuola media. Sono raggianti, allegri e risoluti. Espongono degli striscioni, con slogan solo apparentemente fantasiosi: Aiutiamoli a fare da soli. Oppure: È difficile far bere un cavallo che non ha sete: noi sappiamo come fare. E ancora: I bambini non sono più sciocchi degli adulti, hanno solo meno esperienza. E tanti altri, bellissimi e profondi. Ce ne sono addirittura alcuni di stampo politico: Per la selezione c’è tempo dopo: non siamo i vostri servi. Milioni di insegnanti, che probabilmente hanno creato la loro primavera grazie al web, per giungere alla conclusione, dopo qualche secolo, che sì, il re è nudo e che loro non ci stanno più! Nel sogno ci sono, ai lati delle piazze e delle strade, migliaia e migliaia di mamme e di papà, nonne e nonni, zie e zii e amici. Sono felici, perché credono che la sommossa degli insegnanti lascerà il segno. Sarà rivoluzionaria sul serio. È la primavera della scuola.

È quasi sempre un sogno elettrizzante. Però capita che mi svegli tutto sudato e angosciato. Perché qualcuno s’è messo a sparare sui manifestanti e su chi li applaude. C’è sempre qualche cretino che dà ordini del genere, anche se, di solito, non è neanche necessario arrivare a questi punti.