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«La buona scuola è innanzi tutto un’idea»

È bello, di tanto in tanto, imbattersi in qualche opinione sulla scuola che sia in grado di sfuggire ai discorsi che s’ispirano alle solite tiritere, in parte conservatrici e in altra parte utilitariste, ma nel complesso attente ai tornaconti individuali o di casta, tanto da rasentare spesso la bugia.

È il caso di un bell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia apparso sul Corriere della sera di domenica 8 marzo 2015 con un doppio titolo: La scuola cattiva è questa, in prima pagina, con un rimando diretto alla situazione italiana e alle attuali proposte di riforma, e La visione che manca alla buona scuola a pagina 28.

Lo storico e pubblicista italiano sta alla larga dalla baraonda delle tesi e contro tesi che caratterizzano un po’ dappertutto le pseudo-discussioni sull’istituzione scolastica, ma risale alle sorgenti. Scrive che «La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire».

E ancora: «La scuola – è giunto il momento di ribadirlo – o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società. La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta».

Siamo insomma lontani anni luce dai soliti discorsi che infarciscono le campagne elettorali, quelli con un fervorino agli imprenditori e uno ai sindacati, qualche proposta per risolvere tutto – l’educazione civica, il salmo svizzero, il tablet, le varie “educazioni mirate”… – e tanta, tanta ipocrisia.

Ne tenga conto chi vede volentieri una “nuova e diversa” scuola che verrà e chi, invece, sta facendo di tutto per non lasciarla neanche partire. Nell’uno come nell’altro caso la sostanza delle cose non cambierà.

Naturalmente non m’illudo che, così all’improvviso, chi è nella stanza dei bottoni sia capace di uscire dai percorsi tradizionali (e conservatori). Lo dico dunque così, per scaramanzia. Però, secondo me, ha ragione Galli Della Loggia: la scuola o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è.

 

[È possibile risalire all’articolo nel sito del Corriere della sera – La scuola cattiva è questa – o scaricarne il testo qui.]

Il solito uso ambiguo della cultura e della conoscenza

Mi scrive spesso un amico dall’Italia per commentare i miei articoli, in cui trova, certo con troppa indulgenza, «osservazioni piene di ragionevolezza». A proposito dei recenti scritti sull’educazione alla cittadinanza ha osservato: «Come si può pensare di trasferire su pagine “scolastiche” l’educazione alla cittadinanza? Immagino ragazzi impegnati a compilare schede e a rispondere alle assurde domande di qualche questionario. Qui in Italia con i grandi temi finisce sempre così: penso all’educazione ambientale diventata pretesto per far leggere brani antologici di un grande Rigoni Stern “amputati” di parti ritenute sconvenienti (mi ero occupato una decina d’anni fa dello scempio antologico del nostro scrittore), ma penso anche con te che le “posizioni in bianco e nero” siano deleterie e finiscano per ignorare che educare alla cittadinanza vuol dire semplicemente educare…»

Non solo in Italia, caro amico.

Credo che si tratti di un vezzo piuttosto diffuso e, tutto sommato, significativamente caratteristico della scuola, che quando non può dàr le note si sente nuda come una ranocchia. Non sapevo delle mutilazioni commesse dalla scuola ai danni di Rigoni Stern. Ma ho dimestichezza con le tante carognate che la scuola ha comminato a tanti geni che hanno avuto la malasorte di finire dentro i programmi scolastici: da poeti a romanzieri a drammaturghi, da matematici a fisici, da musicisti a pittori e scultori, da storici a geologi, è tutto un fiorire di brutalità. La scuola sacrifica pressoché da sempre la conoscenza e la cultura sull’altare della valutazione – cioè, per chiarezza, sull’altare dell’inveterata volontà di assegnare delle note a tutti i costi.

Non c’è insegnamento degno di importanza se la scuola non può mettere in atto una valutazione, espressa in termini di nota scolastica: ciò che significa dentro o fuori, adeguato o inadeguato, va’ avanti o resta lì. Poi, va’ a capire perché, le statistiche ci dicono, ormai da decenni, che si finisce più facilmente dentro o fuori se si appartiene a certi ceti piuttosto che ad altri.

Rigoni Stern è stato immolato per poter fingere, a scuola, di «fare» educazione ambientale. Gli è andata bene. C’è chi è stato oltraggiato per «fare» italiano o matematica: basti pensare a quanti odiano e hanno odiato Dante e Manzoni, Leopardi e Ungaretti, Euclide e Pitagora: mentre sarebbe ben più facile e gratificante farli amare.

Suvvia, mi dicono spesso, lo sanno anche i paracarri che la scuola senza note non funziona. C’hanno provato in tanti, nel passato, ma hanno sempre fallito. Eppure tutti imparano a padroneggiare bene delle competenze, per nulla semplici, come camminare o parlare, senza che i loro insegnanti, di solito una mamma e/o un papà, debbano far capo alla tradizionale paccottiglia scolastica (compiti a casa, lezioni ex cathedra, test, note, comunicazioni ai genitori, libretti scolastici e certificati finali). Per dirla con altre parole: la scuola dell’obbligo potrebbe funzionare molto meglio di quel che accade oggi se solo educare e insegnare diventassero per davvero le travi portanti della quotidianità di ogni aula. Ma, disgraziatamente, non è così.

Mi viene in mente Philippe Perrenoud, quando abbozza un paragone tra la scuola e il sistema sanitario: «Nessun bambino sfugge all’azione pedagogica della scuola, alla quale è affidato da 25 a 35 ore alla settimana per almeno una decina di anni. Se la medicina preventiva potesse prendere a carico le persone in maniera così autoritaria e continuata, non le si perdonerebbe neanche una malattia!». (PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences, 1995, Paris: ESF éditeur).

Ogni tanto faccio un sogno. Vedo le vie e le piazze d’Europa, da Palermo a Reykjavík e da Lisbona a Vienna, che si riempiono di maestre e maestri di scuola elementare e, addirittura, professoresse e professori della scuola media. Sono raggianti, allegri e risoluti. Espongono degli striscioni, con slogan solo apparentemente fantasiosi: Aiutiamoli a fare da soli. Oppure: È difficile far bere un cavallo che non ha sete: noi sappiamo come fare. E ancora: I bambini non sono più sciocchi degli adulti, hanno solo meno esperienza. E tanti altri, bellissimi e profondi. Ce ne sono addirittura alcuni di stampo politico: Per la selezione c’è tempo dopo: non siamo i vostri servi. Milioni di insegnanti, che probabilmente hanno creato la loro primavera grazie al web, per giungere alla conclusione, dopo qualche secolo, che sì, il re è nudo e che loro non ci stanno più! Nel sogno ci sono, ai lati delle piazze e delle strade, migliaia e migliaia di mamme e di papà, nonne e nonni, zie e zii e amici. Sono felici, perché credono che la sommossa degli insegnanti lascerà il segno. Sarà rivoluzionaria sul serio. È la primavera della scuola.

È quasi sempre un sogno elettrizzante. Però capita che mi svegli tutto sudato e angosciato. Perché qualcuno s’è messo a sparare sui manifestanti e su chi li applaude. C’è sempre qualche cretino che dà ordini del genere, anche se, di solito, non è neanche necessario arrivare a questi punti.

La democrazia tra competenze, maggioranze e punti di vista

Sul Corriere del Ticino di martedì 3 febbraio Alberto Siccardi, promotore e agit-prop dell’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», se la prende per l’ennesima volta con il Governo, il DECS e il Gran Consiglio per le lungaggini che caratterizzano la discussione sull’iniziativa che, nella primavera del 2013, aveva raccolto in poco tempo oltre 10 mila firme. La sua presa di posizione, pubblicata nella rubrica L’Opinione col titolo «La civica nelle scuole: ostruzionismo statale», è comprensibile e legittima, almeno per certi versi; anche se verrebbe da dire che una persona civicamente educata e istruita dovrebbe conoscere i tempi della democrazia e sapere che, rispetto alle dittature e alle libere imprese, i tempi della democrazia diretta sono particolari: et pour cause.

Non so se corrisponde al vero che lo Stato stia facendo ostruzionismo. Forse c’è un po’ di melina, perché i giocatori in possesso di palla rallentano il gioco con passaggi leziosi. Sicuramente la posizione del Dipartimento dell’Educazione è poco chiara, dal momento che sta cercando una specie di quadratura del cerchio, nel tentativo di risolvere contemporaneamente le richieste dell’iniziativa sull’educazione civica e le istanze sull’educazione religiosa, nelle sue diverse sfaccettature.

Non condivido però il tono di Siccardi, a cavallo tra il vittimismo della minoranza – che poi minoranza non è – e certi modi da Sessantotto al contrario. Scrive ad esempio che certe frange della sinistra hanno accusato i promotori dell’iniziativa di essere fascisti e retrogradi. In tutti questi mesi non ho avvertito questo clima un po’ datato – anche se, bisogna pur dirlo, tra i promotori dell’iniziativa si incontrano diverse persone che del dileggio e dell’insulto a chi la pensa in altro modo hanno dettato e imposto un nuovo stile del dibattito politico. Non è il caso di Alberto Siccardi, col quale ho avuto modo più volte di discutere della “sua” iniziativa in modo civile e garbato: ecco perché questa sua Opinione sul Corriere mi suona un po’ come una caduta di stile.

Detto questo, chi mi segue in questo sito e chi legge la mia rubrica sul Corriere del Ticino sa che non condivido né le proposte dell’iniziativa di Siccardi & co., né i goffi tentativi del DECS e dei suoi tentacoli politici, sindacali e lobbistici di (non) risolvere i veri problemi che tormentano la scuola in rapporto alle sue finalità fondatrici.

È sufficiente inserire la parola cittadinanza nel riquadro apposito per trovare tante mie opinioni sul tema. Malauguratamente il dibattito pubblico è tutto da altre parti, apparentemente a sinistra e a destra, col rischio che gli interessi di partito o di area politica travalichino il nocciolo del discorso: ch’è poi quel che dovrebbe contare di più. E si badi bene che io non mi sento al centro.

Non scrivo ’ste cose per autocommiserazione o paranoia. Ma educare alla cittadinanza non è una questione che si può risolvere col bilancino del farmacista o con trattative da ragioniere. Non è, insomma, una questione di griglie orarie, di note sul libretto o di sciocche definizioni. Per quel che ho letto e capito, l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» pretende in sostanza che la scuola istruisca i giovani, così che conoscano, in teoria e a memoria, alcuni principi che fondano il nostro Paese: più “cose” conosci a memoria, più alta sarà la nota sul libretto, che farà media con le note delle altre discipline.

È una questione di chiarezza, perché l’istruzione è una cosa, l’educazione un’altra. Le parole non sono un optional, bisognerebbe usarle nel loro significato, a meno che non si considerino sinonimi l’istruzione e l’educazione, che per me restano comunque cose diverse, checché ne dicano e ne pensino i poteri che decidono.

Vi sono persone molto istruite, ma civicamente maleducate. Mi è venuto in mente un breve passaggio di un romanzo che sto leggendo in questi giorni, «Il male non dimentica», di Roberto Costantini (2014, Marsilio): «Vorrei parlare un po’, ma mio fratello è a Londra per studiare l’inglese e fare amicizie utili. Per imparare a rubare legalmente, come sostiene» sua madre (pag. 88).

E vi sono persone poco istruite, ma talmente educate che non raccontano frottole quando compilano la dichiarazione per le imposte, fanno cortesemente la coda allo sportello, rispettano lo Stato e i suoi rappresentanti anche quando non sono d’accordo, dànno dei lei sia al consigliere di stato che al cameriere che porta in tavola la pizza; leggono i giornali e ascoltano i dibattiti televisivi, ma non pendono dalle labbra di nessuno; pagano i contributi sociali e stanno alla larga da mazzette e inciuci col potere. E non rubano legalmente.

È quasi logico che, in questi tempi di politica da stadio e di posizioni in bianco e nero, il dibattito sull’educazione alla cittadinanza si riduca all’ennesima (inutile) discussione tra posizioni inconciliabili: inconciliabili perché, tutto sommato, da una parte e dell’altra si evita di andare al centro del problema, che è più complesso di come si tenta di sdoganarlo nell’arengo politico.

Non è un comportamento utile alla democrazia. Dato che non ho la sfera magica, non so come andrà a finire. Ma se nel frattempo non cambierà qualcosa di sostanziale nel dibattito, non potrà andare che male. Dovesse vincere l’iniziativa dei 10 mila e passa sottoscrittori non cambierebbe un ette, si svilirebbe l’insegnamento della storia, già ridotto ai minimi termini, e si nutrirebbero illusioni, funeste quasi per definizione. Dovesse prevalere il pensiero del DECS, invece, come sopra.

Credo che l’espressione Educare alla cittadinanza possa essere riassunta in un’unica parola: Educare. Un cittadino educato sa che non ha ragione che grida più forte, ma chi è in grado di dimostrare meglio. Appartenere alla maggioranza non significa ancora avere ragione: la democrazia, quella vera, è un’altra cosa.

I nonni e la ricchezza della testimonianza

Nei giorni scorsi i media hanno dato molto risalto a un’iniziativa dell’Associazione ticinese della Terza Età, idea nata nel 2005 nel Luganese e ora sbarcata anche nel Locarnese, dopo aver coinvolto il Bellinzonese e le sue Valli. Di che si tratta? Ha scritto questo giornale che il progetto è «un’iniziativa intergenerazionale gratuita nata dalla voglia di molti volontari di mettere a frutto le proprie esperienze e dalle esigenze di parecchi ragazzi di prima e seconda media, che non sempre in famiglia trovano un aiuto per far fronte alle difficoltà scolastiche». In sostanza, una specie di recupero scolastico gratuito. Là dove i professionisti dell’insegnamento fanno cilecca, ecco scendere in campo i nonni, a dare una mano a famiglie stressate con relativi pargoli a carico. Con un sorriso, si potrebbe dire che il mondo di sta ribaltando: dai figli «stampelle della vecchiaia» agli anziani sostegno di nipoti e bisnipoti.

Posso immaginare che, per quei ragazzetti che l’esperienza la vivono in diretta, l’appoggio non si fermi al recupero di qualche lacuna e, magari, di quei tre espedienti per riuscire a organizzarsi meglio e a costruire la propria indipendenza. Sono invece sicuro che queste collaborazioni siano contrassegnate proprio dall’incontro tra generazioni diverse. E allora io mi spingerei ben oltre, affinché gli anziani non diventino utili solo per metter le pezze agli strappi di una scuola che troppo spesso dimentica qual è il suo vero ruolo. Qualche anno fa le scuole comunali di Massagno, pungolate dal loro pirotecnico direttore, avevano dato vita a un progetto che mirava proprio a coinvolgere i nonni nella vita dell’istituto. Non so se quell’idea, semplice eppur geniale, sia ancora viva. Ma quello è un percorso facile, che tutti potrebbero intraprendere: perché in una società sempre più votata all’efficienza e alla produttività, l’incontro tra ragazzi e anziani porterebbe con sé la ricchezza della testimonianza. Perché i nonni hanno delle storie importanti da raccontare, e perché sanno narrare con grande emozione storie incantevoli.

Un omaggio a Philippe Meirieu nei giorni in cui siamo tutti Charlie

Chi mi conosce sa che ammiro da tanto tempo Philippe Meirieu, un uomo che, per me, non è solo un «semplice» professore di pedagogia, ma uno che da sempre si batte con tenacia, attraverso l’educazione, affinché Liberté, Égalité e Fraternité non restino solo dei semplici slogan, ma arrivino un giorno a costituire un sistema di valori appartenente a ogni donna e ogni uomo in ogni parte del mondo.

Sabato scorso (10 gennaio) la «sua» università, l’Università Lumière di Lione, gli ha reso omaggio nell’anno in cui andrà formalmente in pensione, essendo nato nel 1949. La manifestazione, intitolata Où vont les pédagogues? Regards et perspectives a partir des travaux de Philippe Meirieu, è stata l’occasione per una riflessione sul lavoro pluridecennale di uno dei pochi pedagogisti di radice umanista ancora in circolazione in Europa: il giusto sostegno a chi, di sicuro, continuerà a far sentire la sua voce e le sue idee attraverso i libri, le più importanti testate francesi, le televisioni, il web e le tante occasioni di incontro diretto in Francia e altrove. Cioè a dire: non sarà certo un semplice atto burocratico come il pensionamento a farlo tacere.

L’incontro lionese per l’omaggio a Philippe Meirieu ha coinciso coi giorni in cui la Francia ha vissuto l’attentato terroristico del 7 gennaio alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo. Sono stati i giorni in cui eravamo tutti Charlie.

Propongo così una sua intervista, rilasciata a Lyon Capitale TV e diffusa dal vivo in streaming il 9 gennaio, in cui Meirieu parla a tutto campo della possibilità e della necessità di controllare e padroneggiare l’odio verso l’Altro, che i fatti di questi giorni potrebbero facilmente nutrire: con una toccante e limpida riflessione finale sul ruolo della scuola repubblicana nell’educazione dei suoi cittadini.

Perché in questi giorni siamo tutti Charlie, ma dovremmo esserlo anche domani.

Je_suis_Charlie


Qui è possibile seguire integralmente la registrazione dell’incontro del 10 gennaio all’Università Lumière di Lione.

Tra i tanti qualificati interventi segnalo la conferenza introduttiva di Daniel Hameline (L’enclos, le seuil et l’esplanade, che inizia più o meno a 32 minuti) e l’intervento, a sorpresa, del filosofo Denis Kambouchner (inizio a 3 ore e 8 minuti), che nei primi anni di questo millennio si era opposto duramente alle politiche educative dell’epoca e aveva confutato severamente le posizioni di Philippe Meirieu (DENIS KAMBOUCHNER, Une école contre l’autre, 2000, Presses Universitaires de France).

Per terminare sottolineo le reazioni finali dello stesso Philippe Meirieu (inizio a 4 ore e 31 minuti).