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Le vacanze dei Morti

Ripropongo oggi, con minuscole modifiche, un articolo che era uscito sul «Corriere del Ticino», nella mia rubrica Fuori dall’aula, il 7 novembre 2001, col titolo (redazionale) Se Halloween sostituisce il giorno dei morti.

Malgrado siano trascorsi tredici anni, mi pare che il contenuto mantenga il suo senso.

Credo che in tante aule scolastiche ci si ritaglino gli spazi, ipocriti e smaccatamente venali, per officiare Natale e carnevale, la festa della mamma e quella del papà. Magari, poi, si chiude un occhio sulla «Giornata della memoria», e ci si volta dall’altra parte in prossimità del giorno dei Morti. Perché in fondo a chi può mai interessare il passato? A che serve?


La scorsa settimana l’aula era chiusa, e siamo rimasti tutti fuori. C’erano le vacanze autunnali (detto dai laici), quelle dei Morti per i cattolici. Finché Ognissanti e il Giorno dei Morti son rimaste giornate del ricordo – giornate vissute – le aule non si chiudevano, non almeno per una settimana di fila. È solo da poco più di vent’anni che si lasciano a casa allievi e studenti a inizio novembre, per un calcolo molto fiscale d’adattamento del nuovo calendario alle esigenze del mercato. In altre parole: è dal 1978 che l’anno scolastico attacca a inizio settembre (e non più il 15), per guadagnare il sabato libero e permettere a insegnanti e discenti di sciamare liberamente, il sabato mattina, nelle tante biblioteche pubbliche a disposizione.

Oggi dei santi non è rimasto più nulla – neanche qualche brandello. Figuriamoci dei morti. Quello era l’unico rito che i bambini sapevano vivere sul filo delle radici, senza regali e senza festa: la camminata al cimitero dei padri si ricollegava tutto sommato alla consapevolezza della morte, e manteneva fresco un sentimento d’appartenenza a una famiglia, a un paese, a una nazione, a una cultura. Sembrava quasi di esistere ed essere importanti per questo.

Ora è Halloween. Dolcetto o scherzetto. Con una banalità, si sarebbe tentati di dire che si tratta dell’ennesimo cedimento all’imperialismo culturale made in U. S. A., come la Coca Cola. Invece non è propriamente così, anche se occorre pur riconoscere il peso risoluto dell’azione dei vari bottegai, che pur di vendere hanno importato anche questa, dopo la festa della mamma, quella degli innamorati, la festa della donna, quella del papà e via elencando. Ma il meccanismo di Halloween è gentilmente più sottile, poiché sostituisce la ricorrenza del giorno dei Morti – i propri morti – con gli estinti hollywoodiani: che ha a che fare mia nonna con le zucche intagliate e illuminate? E il bisnonno? Quali legami si possono scovare tra il lontano e mai conosciuto cugino, morto nel ’51 a soli tre anni, e gli impiccati e le streghe dei party (si chiamano così, of course) andati in onda in questo Ticino tra l’inizio e la fine di queste appena trascorse vacanze?

Dato che questa rubrica si perita di parlare di problemi educativi, a questo punto il lettore potrà chiedersi legittimamente cosa c’entrano Halloween e il giorno dei Morti con la scuola e i suoi scopi; e invece c’entrano, perché anche la scuola, non sapendo più, da almeno un trentennio, che pesci pigliare, si è messa, più o meno inconsapevolmente, a fare da cassa di risonanza a tutte queste baggianate. Dopo il docente che, beato lui, strutturava il programma di matematica sui Pokémon – visto alla TSI –, si potrebbe proporre alle sedi di scuola media di organizzare, l’ultimo giorno prima delle vacanze, qualche party in onore del dio halloween.

È inutile fare il solito predicozzo alle giovani generazioni: proprio perché non ho più vent’anni, mi mancano le occasioni di ritrovo con il mio gruppo, ma non ho più l’età per inventarne di nuove. L’importazione di Halloween in Europa non è certo una scelta dei sedicenni della Valle di Muggio; è invece la generazione dei loro padri che, a furia di politically correct, ha finito con immolarsi sull’altare del conformismo più torvo, aderendo in tutto e per tutto a quella che Ostellino, proprio sulle pagine di questo giornale, ha chiamato la filosofia del «né né»: né al cimitero il 2 novembre (con l’essenziale seguito di caldarroste all’osteria), né per le strade vestiti da scheletri (e poi tutti a ballare); né il comunismo, né il capitalismo; né il femminismo, né il maschilismo. Né né. Come dicevo in un precedente intervento: penso per me, mi occupo di me…

E la scuola? Che fa, dimmi, che fa? Il Maestro un po’ attempato – che da allievo leggeva anche lui il «Marco» di Bertolini e si esaltava ai racconti sulla Patria e sul servizio militare, e che nei ’70, divenuto insegnante di scuola elementare, faceva le ricerche sui partigiani – oggi ha aderito anche lui alla dottrina del «né né»: non è più di moda far politica a scuola, soprattutto da quando si è scoperto che chi a otto anni faceva le ricerche sui partigiani, oggi vota come minimo per Berlusconi. Il «né né», di conseguenza, rischia di confondersi sempre più con la nana dei francesi.

Ma che si vuole? Anche l’11 settembre, ormai, fa parte del passato. Come l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria.

Qualcuno li fermi!

Pare che tra breve il Gran Consiglio si occuperà della mozione di Fiorenzo Dadò, che risale al dicembre del 2008 e che s’intitola «Volontariato nelle scuole: un’opportunità di crescita per i giovani». In sostanza il parlamentare popolare democratico chiede, col solito artificio retorico, «se non sia il caso, all’interno dei programmi scolastici e delle attività delle Scuole medie e delle Scuole medio-superiori, inserire almeno una giornata ufficiale dedicata interamente e appositamente agli ambiti generali del volontariato. Nella stessa non si potrebbe addirittura pensare a far partecipare i giovani a un’esperienza concreta, coinvolgendo gli ambiti in cui il volontariato si manifesta nella nostra quotidianità».

Ti pareva. Come diceva un caro amico ed ex collega, la scuola sembra sempre più a un animale pluri-mammellare, una specie di scrofa che può distribuire latte a chi ha voglia di attaccarsi. Già Diego Erba, all’epoca direttore della divisione della scuola del DECS, aveva scritto che «la nostra società non è che ci aiuti a sfoltire i contenuti dei nostri programmi. Anzi, a mo’ d’esempio, rammento alcuni atti parlamentari che hanno chiesto alla scuola – in quest’ultimi anni – cosa intende fare per l’educazione alla cittadinanza, l’educazione alimentare, la lotta contro gli abusi, l’educazione sessuale, le lingue nazionali e l’inglese, la lettura e l’analfabetismo, la lotta alle dipendenze, l’attenzione da rivolgere ai plusdotati». E aveva continuato così: «In queste condizioni è oggi difficile definire cosa sia importante insegnare e apprendere nella scuola di base, nella scuola obbligatoria affinché l’allievo al momento del suo ingresso nel mondo degli adulti disponga di quegli strumenti pratici e intellettuali che gli permetteranno di adattarsi alla realtà sociale e professionale. Adattarsi ad una realtà che in quel momento potrebbe essere anche molto diversa da quella attuale!» [ADOLFO TOMASINI (a cura di), A scuola per il piacere di apprendere, 2006, Bellinzona: DECS, Divisione della scuola, Centro didattico cantonale]

Dal canto suo – e per fortuna, ma è d’obbligo incrociare le dita – il rapporto di maggioranza della Commissione speciale scolastica del parlamento, relatore il socialista Francesco Cavalli, così si esprime sin dalle prime righe:

Se si volesse dar seguito a tutte le suggestioni – peraltro legittime e più o meno sostenibili – espresse da varie parti, la scuola dovrebbe: occuparsi di sicurezza (in casa, sulla strada, sul lavoro, …); insegnare economia già nelle medie; istituire corsi di buone maniere; informare sul servizio civile; promuovere l’incontro fra culture religiose; introdurre lezioni di primo soccorso; insegnare il dialetto ticinese e quello svizzero tedesco; aprirsi al mondo delle aziende; educare al bello (mostre d’arte concerti, …); insegnare a non indebitarsi; occuparsi di agricoltura e fare l’orto; insegnare il gioco degli scacchi; incentivare l’uso della bicicletta; educare all’uso parsimonioso del telefonino; istituire una giornata di recupero rifiuti lasciati nell’ambiente; spiegare come funziona il sistema giudiziario; prevedere lezioni di etica; e, non da ultimo, dedicare una giornata al volontariato.

E se ne potrebbero aggiungere decine di altre; basta scorrere gli organi d’informazione dove fioccano, a scadenze più o meno regolari, proposte e suggestioni da parte di politici, genitori, giornalisti e comuni cittadini per assegnare nuovi compiti alla scuola.

Tutte cose interessanti e rispettabili ma che, se accolte indistintamente, penalizzerebbero il normale svolgimento dei programmi a un ritmo adeguato alle capacità degli allievi.

Oddio, il rapporto fa d’ogni erba un fascio, accostando l’insegnamento del dialetto ticinese all’educazione al bello: un modo un po’ disinvolto e cavilloso per spingere qualche parlamentare dubbioso, e magari poco avvezzo a rispettare gli ordini di scuderia – una categoria che non ha mai fatto l’en plein nei diversi schieramenti politici – a passare da quella parte (à la guerre comme à la guerre, insomma). Ma bene hanno fatto i commissari a mettersi di traverso. Tanto, mi vien da dire, al parlamentare valmaggese non importerà più di tanto, vista la tempistica della discussione in Gran Consiglio: la proposta è del 2012, ma – i casi della vita… – arriva in Parlamento proprio durante la campagna elettorale in vista del rinnovo dei poteri cantonali. L’importante è che i tanti volontari che, più o meno umilmente, operano nel nostro Cantone si ricordino di Dadò al momento di infilare la scheda nell’urna. Così come si ricorderanno di altri parlamentari che hanno imposto alle scuole l’insegnamento del salmo svizzero. E, per dirla tutta, nell’indice stilato dalla commissione parlamentare non figura la Giornata della memoria, pur generata da una mozione dello stesso Cavalli del 2011.

Per tornare al volontariato e alla proposta di Dadò di inserire almeno una giornata ufficiale dedicata interamente e appositamente agli ambiti generali del volontariato nelle Scuole medie e nelle Scuole medio-superiori, sono doverose un paio di chiose. La prima è che i volontari sono sempre esistiti, così come, al loro fianco, ci son sempre stati quelli abili a schivare l’oliva anche nei momenti cruciali. Non sarà certo la giornata scolastica dedicata al volontariato – obbligatoria e in tempo di scuola, cioè al posto di qualcos’altro – a modificare le mentalità.

La seconda è che l’attitudine al volontariato, vale a dire l’attività gratuita a favore di qualche segmento della collettività, fa parte di quel grande tema educativo che va sotto il nome di educazione civica, che non è una disciplina scolastica che può essere circoscritta a una serie di nozioni, come vorrebbe qualcuno (guarda caso: anche su questo tema è pendente un’iniziativa popolare, Educhiamo i giovani alla cittadinanza, che aveva raccolto una marea di firme).

Non mi esprimo sulle tante, troppe proposte attorno a «problemi» che la scuola dovrebbe risolvere. La tecnocrazia sempre più dilagante espone la scuola a gravi danni, perché non è sufficiente emanare un decreto, una norma, una legge o un regolamento per risolvere i problemi e raggiungere l’obiettivo. È giunto il tempo di tagliare, di avere il coraggio di eliminare l’inessenziale a favore di una scuola più efficace e serena e di tutti gli allievi della scuola dell’obbligo.

Caricare la scuola di compiti, sapendo che non è in grado di svolgerli, è da irresponsabili, anche se si parla di argomenti importanti, come la shoah o il volontariato.

Il caso dei bambini ecuadoriani nel Gambarogno

In questi giorni soleggiati di metà ottobre, ha fatto un certo rumore lo scontro tra il direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, Manuele Bertoli (Socialista), e quello del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (Lega), in merito alla scolarizzazione di due bambini di origine ecuadoriana nelle scuole del comune di Gambarogno. Ne hanno riferito un po’ tutti, a partire da La Regione Ticino che nell’edizione del 16 ottobre ha lanciato il caso in prima pagina, con un duro commento del direttore Matteo Caratti e una cronaca nelle pagine interne (Ecuadoregni: Bertoli vs Gobbi). Ha scritto Caratti, sotto il titolo «Dalla civiltà all’inciviltà…»:

È vergognoso che un rappresentante del governo cantonale intervenga, oltretutto invadendo campi altrui, su un esecutivo comunale per dire di non scolarizzare due ragazzini ecuadoregni che dovrebbero frequentare l’asilo e le elementari, perché hanno la maledetta pecca di non essere ufficialmente domiciliati.

Quale sarà il prossimo passo di un cantone che non è nemmeno più capace di accogliere le carovane di zingari, come avveniva anche solo fino a pochi anni fa? Nemmeno gli zingari rossocrociati? Non dare l’opportunità a un bimbo figlio di migranti di imparare, di istruirsi, di incontrare altre culture, di capire cosa significa vivere qui da noi, porta semplicemente all’esclusione.

Nessun ponte, raus, giù anche la saracinesca della scuola, buttiamoli in strada. È il verbo dei nuovi movimenti populisti: qui (solo) i nostri, fuori gli altri. E già che ci siamo fuori anche i bambini, che vanno invece tutelati più di tutti senza né se e né ma.

Per affermarlo è giusto rifarsi alle convenzioni internazionali. Parlano chiarissimo. Ma, guardiamoci dentro, basterebbe anche una minima dose di buon senso e – osiamo? si può ancora? – di cuore. Quei bambini non hanno colpa alcuna (e a dire il vero nemmeno i loro genitori che si arrabattano come possono per stare a galla).

Noi abbiamo invece il dovere di accoglierli! Dalla civiltà all’inciviltà, signori, il passo è breve.

Non servono leggi, regolamenti o trattati, che la Svizzera ha sottoscritto ormai da decenni, per capire che la decisione del comune di Gambarogno è corretta. Lo sarebbe stata anche solo appellandosi all’etica, laica o cristiana che sia, che non è acquetta.

Fa bene, quindi, La Regione a non mollare l’osso, riprendendo il tema sull’edizione del 18 ottobre, con un articolo in cronaca – Sono bene integrati e contenti – e un lucido editoriale del direttore Matteo Caratti (La panna montata della paura).

Lo stesso quotidiano, inoltre, rende un omaggio sacrosanto a Eros Nessi, vicesindaco del comune di Gambarogno e responsabile del dicastero Educazione. Nella sua rubrica del sabato, dedicata al meglio e al peggio della settimana, La Regione lo mette in Alto, con un semplice commento.Untitled

Eros Nessi, oltre che un amico (lo dico per evitare malintesi), è pure stato il mio ispettore per una quindicina di anni, e sta continuando in quell’attività come ha sempre fatto, con impegno e competenza; ma, più di tutto, con un rispetto altissimo dei diritti delle persone, diritti che valgono sempre più di ogni campagna elettorale.


Per una rapida panoramica della vertenza, ecco il servizio mandato in onda il 16 ottobre dal «Quotidiano», su RSI LA1: Bimbi ecuadoregni, scontro Bertoli-Gobbi, con le dichiarazioni dei due consiglieri di stato.

L’inclusione tra sogni e realtà

C’è una nuova parola che circola nel contesto pedagogico ticinese da un paio d’anni: inclusione, erede diretta di integrazione e di accoglienza, che hanno caratterizzato gli ultimi due o tre decenni. «Scuola Ticinese», periodico della Divisione della scuola del DECS, ha dedicato un suo recente numero monografico al tema dell’inclusione. E di inclusione si parla anche nel comunicato stampa del DECS dedicato alla quinta indagine internazionale PISA. Vi si legge:

Uno dei capisaldi della scuola ticinese è l’inclusione: il sistema cerca infatti di accogliere al proprio interno il maggior numero di allievi, evitando il più possibile separazioni di tipo strutturale. Questo implica di riflesso la presenza di classi maggiormente eterogenee, come succede nei sistemi scolastici con i migliori risultati, ma di più difficile gestione se non accompagnate da adeguate misure pedagogiche. Partendo dal presupposto che la scuola ticinese intende mantenere, se non rafforzare, la sua natura inclusiva, è necessario un cambiamento che, pur preservando i principi della scuola attuale, permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe. Maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile potrebbero essere delle risposte a queste sfide.

I «casi difficili»

In un commento al mio articolo W l’eterogeneità, W le pluriclassi!, Doriano Buffi, direttore di scuola comunale, ha toccato il tema dell’inclusione riferendosi ai cosiddetti casi difficili (si veda in calce all’articolo il suo primo commento un po’ maldestro, seguito dalla mia reazione e dalla sua precisazione). L’argomento rimanda dritti dritti al lodevole proposito dipartimentale, e fanno bene i suoi vertici politici e pedagogici a mirare al nobile obiettivo di accogliere all’interno dei normali canali scolastici il maggior numero possibile di allievi, evitando separazioni di tipo strutturale. Giustamente lo stesso Dipartimento auspica «un cambiamento che (…) permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe» attraverso «maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile».

In tanti anni di esperienza ho avuto spesso a che fare con casi difficili, a volte già alla scuola dell’infanzia, e ben prima che si cominciasse a parlarne come di un problema. Detto per inciso: si sa che quando si comincia a parlare di qualche nuovo fenomeno è perché i casi si stanno moltiplicando e, sovente, i buoi sono almeno sull’uscio, pronti a uscire dalla stalla. Chiuso l’inciso.

Quei casi sono triplicemente difficili. Lo sono perché i bambini o i ragazzi soffrono assieme alle loro famiglie. Lo sono perché l’insegnante e gli altri allievi si vedono l’ambiente di lavoro disturbato pesantemente, un ambiente costruito in tanti mesi di impegno assiduo o magari, invece, ancor tutto da creare. E lo sono pure per le cosiddette autorità scolastiche al fronte – ispettori, direttori, capigruppo del sostegno pedagogico – che sanno molto bene come gli strumenti a loro disposizione siano fragili o inesistenti e, soprattutto, richiedano tempi lunghi per essere attivati. Si creano così situazioni drammatiche, grondanti frustrazioni a 360 gradi, senza parlare del pietoso festival delle arrampicate sui vetri, nell’estenuante tentativo di limitare i danni in attesa di escogitare una soluzione precaria.

In questi casi non è lecito intervenire nell’ambito dell’inclusione a priori. Si deve capire che questi casi difficili non possono essere affrontati all’interno della classe, nemmeno con la presenza in aula di personale supplementare, peraltro mai a tempo pieno e quasi mai disponibile dall’oggi al domani. Per contro occorrerebbero strutture in grado di proteggere questi allievi e le loro famiglie e, nel contempo, di intervenire sulle cause che provocano i comportamenti devianti, con l’obiettivo di raggiungere l’inclusione nel tempo più breve: per taluni potrebbero essere poche settimane, per altri anni interi. La presenza di un bambino difficile in una sezione di scuola dell’infanzia o elementare ha effetti devastanti, con ricadute incontrollabili su tutta la scuola. Sono casi che annichiliscono la necessaria serenità che serve per mettere in atto il già difficile compito di educare all’interno di un gruppo attraverso il lavoro dell’imparare.

Tenere in classe questi seppur pochi casi difficili sarà anche politicamente corretto, ma alla fine è logorante e, nel contempo, non fa il bene della scuola né, ovviamente, di quegli stessi allievi. Siamo insomma confrontati con casi psichiatrici. Dalle maestre e dai maestri delle scuole dell’infanzia ed elementari, che sono dei generalisti, non possiamo continuare a pretendere che, oltre a tutti i compiti che son stati loro assegnati negli ultimi quarant’anni, siano pure in grado di affrontare situazioni che neanche gli specialisti saprebbero gestire in situazioni analoghe.

I diversi «non difficili»

Diversa è la vicenda, invece, di alcuni allievi che non sono di per sé casi difficili, ma finiscono assai spesso in quel benemerito settore scolastico che si chiama scuola speciale. Penso, in particolare, a quei bambini o ragazzi dalle capacità intellettive lievemente ridotte, leggeri ritardi che rendono particolarmente difficile la loro inclusione nelle classi «normali», essenzialmente a causa del fatto che nelle classi «normali» – le virgolette sono naturalmente una scelta consapevole – vige il primato della prestazione prettamente scolastica, appesantito da un accanimento valutativo e sommativo che non giova a nessuno. Questa indifferenza alle differenze, che si traduce, ad esempio, nella certificazione annuale, cozza in maniera apertamente contraddittoria contro quella differenziazione dell’insegnamento e quei percorsi personalizzati di cui parla il Dipartimento.

Vi sono allievi che finiscono a scuola speciale perché non raggiungono determinati obiettivi dei programmi nei tempi prestabiliti, tempi che sono fissati dalle statistiche della psicologia cognitiva e da quelle, più empiriche, dell’esperienza. Ho visto ragazzi finire a scuola speciale perché, ad esempio, dopo aver rinviato l’inizio della scuola obbligatoria e aver ripetuto poi una classe, rischiavano di ritrovarsi con delle competenze scolastiche inadeguate per l’età, mentre il corpo era già quello di un preadolescente. Per questi ragazzi l’alternativa alla scuola speciale poteva essere il disimpegno della scuola: li si aiutava a cavarsela in qualche modo per tirare a campare fino al termine della scuola elementare, assegnando delle sufficienze che nascondevano gravi lacune e che si aggravavano col trascorrere degli anni. Qualcuno sarebbe riuscito a barcamenarsi fino ai quindici anni, qualche altro sarebbe diventato un caso difficile.

Ancora una volta, quindi, W la massima eterogeneità. Per una volta mi sento di sognare anch’io coi vertici del Dipartimento dell’Educazione: la scuola indicata, quella dell’inclusione, è l’unica che può Educare per davvero. Ma occorre azzerare le contraddizioni interne, la più vistosa delle quali resta la selezione dei «migliori», o quantomeno la loro classificazione, attraverso programmi scolastici ingiustificabili, che sono soggettivamente valutati a scadenze ravvicinate e regolari – con tanto di promozioni e bocciature – senza tener conto delle differenze individuali. Le pari opportunità sono state una conquista; oggi, tuttavia, non devono impedire di mirare alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del risultato massimo a cui ognuno può spingersi.

W l’eterogeneità, W le pluriclassi!

La campagna in vista della votazione sull’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali», iniziata in primavera, ha moltiplicato a dismisura gli interventi sulla stampa. Dal fronte del e da quello del no giungono motivazioni a sostegno dell’una o dell’altra tesi che vanno ad arricchire la già nutrita serie dei colori dell’iride. Non ho naturalmente letto e ascoltato tutto ciò che è stato scritto e detto. Sono stato costretto a una selezione, perché, a dispetto dell’essere in pensione, non posso mica passare le giornate a leggere di tutto e di più sulla scuola ticinese e i suoi dintorni.

Ma, qua e là, ho colto qualche sparata degna di citazione. Eccone tre che mi hanno colpito per l’originalità della traiettoria.

  • Per replicare a chi afferma che se quest’iniziativa fosse accolta dal popolo il margine decisionale dei comuni si avvicinerebbe allo zero, qualcuno ha affermato che «La scuola comunale rimane ai comuni per quanto riguarda la scelta dei docenti, del direttore, dell’edilizia e tante altre cose; e soprattutto la vigilanza. Però è importante che su tutto il territorio cantonale tutti abbiano le medesime opportunità». Quando si dice l’autonomia – e senza tornare al merito delle ormai famose «pari opportunità», che son diventate il classico nebbione che nasconde e confonde tutto. L’autonomia: babbo Stato impone ai comuni auto costose e non necessariamente adeguate a ogni particolare territorio. Naturalmente il Comune paga una sostanziosa parte del costo (e non è un leasing). Poi può scegliere il colore dell’auto e chi la guida. Addirittura ha l’autonomia di verificare che l’auto funzioni come si deve. Per finire può (eh eh!) finanche costruire una bella autorimessa, possibilmente Minergie.
  • «Con più la classe è numerosa, più il maestro è costretto a fare delle lezioni frontali, delle lezioni cattedratiche». Questa l’ha detta un caro amico e ormai ex collega, che conosce bene le esperienze di Don Lorenzo Milani, tanto per citarne uno tutt’altro che a caso. Un Maestro che non la pensava proprio così, anzi. Si vede che il caro amico e ormai ex collega è ancora attratto dal magister, sul modello universitario; l’unica alternativa possibile sarebbero classi sufficientemente piccole, affinché sia possibile dare “lezioni private”. Tertium non datur.
  • Della terza chicca ho perso l’autore e il giornale che l’ha ospitata. Riassumo a memoria: l’opinionista di turno è d’accordo che si diminuisca il numero di allievi per classe. Ma ritiene che tra 25 e 15, 16 o 20 non cambi gran che. Bisognerebbe fare classi veramente piccole, di otto o dieci allievi. Vabbe’, pian piano torneremo al precettore di aristocratica memoria.

Un’interessante intervista al ministro dell’educazione

Ma torniamo alle cose serie. Manuele Bertoli, che da presidente del Partito socialista era tra i promotori dell’iniziativa e che da Direttore del DECS aveva proposto un compromesso al Parlamento, oggi, da Presidente del Consiglio di Stato, si ritrova a sostenere il punto di vista della maggioranza governativa, come noto contrario all’iniziativa. E lo sta facendo con grande correttezza: tanto di cappello. L’11 settembre ha rilasciato una lunga intervista al Corriere del Ticino, pubblicata col titolo «Scuola, oggi sono tenuto a dire no». Non entro nuovamente nel merito dei soliti capitoli trattati dall’iniziativa, ma voglio sottolineare una sua affermazione significativa, importante e fuori dal coro.

Domanda del giornalista: «È vero che portare a 20 allievi l’asticella potrebbe generare l’effetto perverso dell’aumento delle pluriclassi?».

Risposta del ministro Bertoli: «Lo abbiamo segnalato nel documento consegnato alla Commissione scolastica sugli effetti quantitativi che dava conto dei costi dell’iniziativa. È vero che in alcune zone il numero di pluriclassi potrebbe aumentare perché non sarebbe data la possibilità di fare monoclassi da 22 o 23 allievi e quindi si andrebbero a comporre sezioni con più classi al loro interno. Bisogna però non drammatizzare troppo il tema, le pluriclassi non sono necessariamente un male. Alcuni sostengono addirittura che sono utili nella misura in cui chi è più debole può, quando segue la classe più avanzata, ascoltare e ripetere quanto fatto l’anno prima e chi è più forte, nella classe meno avanzata, può già sentire cosa farà l’anno successivo. Comunque l’iniziativa porta ad un aumento delle pluriclassi, anche se la situazione è molto differenziata sul territorio».

Era ora che qualcuno lo dicesse, non fosse che per il grande rispetto verso i tanti maestri che insegnano bene e da anni nelle pluriclassi [1]. Ma è ora e tempo di finirla con la storiella che le pluriclassi siano una sorta di male necessario allorché, per far funzionare le alchimie numeriche e nell’impossibilità di poter istituire le tanto agognate monoclassi, si è costretti a mettere insieme allievi di classi diverse. Prendendo a prestito un recente tormentone di Celentano – mi si passi la citazione bislacca – la pluriclasse è rock, mentre la monoclasse è lenta.

Non è questa la sede per sintetizzare i tanti vantaggi della pluriclasse e il primato educativo della massima eterogeneità. Chi è interessato ad approfondire il tema può rivolgersi all’ampia letteratura in materia. Se si vuol trovare qualche spunto, magari leggermente provocatorio, si può dare un’occhiata al capitolo che Philippe Meirieu dedica all’eterogeneità nel suo libro L’école ou la guerre civile, che può essere consultato e scaricato qui: Pour un nouveau contrat entre la société et son école: “vive l’école obligatoire”! (da pagina 108).

L’omologazione è nemica dello sviluppo, della crescita e della creatività

La monoclasse è parente stretta di quella classe che si è stabilizzata nel XIX secolo, basata essenzialmente sul corso ex cathedra, e nasconde in modo subdolo la selezione delle future élites attraverso la legittimazione degli status socio-economici e culturali di partenza. Se è questa la scuola che si vuole, lo si dica con chiarezza. In caso contrario occorrono «delle riforme di carattere più pedagogico» per la scuola dell’obbligo (Manuele Bertoli, nella medesima intervista citata), per staccarsi esplicitamente e senza alibi quantitativi dall’organizzazione del lavoro quotidiano degli insegnanti che ruota attorno a lezioni uguali per tutti, esercizi uguali per tutti, tempi uguali per tutti e valutazioni uguali per tutti da effettuarsi nei medesimi momenti per tutti – col servizio di sostegno pedagogico a inseguire i danni provocati da questa maniera di affrontare la scuola dell’obbligo, senza mai arrivarne a capo.

Sarò vecchio, ma resto vicino alle finalità che il nostro Parlamento ha definito per la scuola dell’obbligo: formare cittadini. Cioè educare e istruire, perché non esiste un concetto di cittadino ignorante, mentre è facile allevare idioti specializzati, vale a dire uomini e donne super-specialisti nella loro disciplina, che non sanno assolutamente nulla delle discipline altrui.

Nell’ultimo decennio la scuola è divenuta sempre più utilitaristica. Cioè a dire: si è votata anno dopo anno alle conoscenze sterili e specialistiche (pardon, oggi le chiamano competenze).

Una scuola siffatta ha bisogno di strutture coerenti. Oddio: da sempre la scuola tende a omologare i gruppi, come avevo scritto in un articolo «Fuori dall’aula» del 2009, prendendo spunto da un’estemporanea proposta che voleva reintrodurre la separazione dei sessi nella formazione delle classi: Classi maschili e femminili nella scuola media? Così come, in due altre puntate della mia rubrica sul Corriere del Ticino, mi ero occupato dell’omologazione delle classi (I ghetti del XXI secolo) e dell’individualizzazione esasperata dell’insegnamento (Nel grande emporio della formazione).

I vantaggi della pluriclasse

Detto questo, parliamo un poco delle pluriclassi, con un plauso al ministro Manuele Bertoli, che, seppur timidamente (le pluriclassi non sono necessariamente un male), ha avuto il coraggio di dire quel che sarebbe stato preferibile sentire, da sempre e non solo da ieri, da ispettori, direttori e funzionari del Dipartimento. In questo Cantone le pluriclassi sono normalmente istituite quando non è possibile fare altrimenti, vale a dire quando i numeri non permettono l’istituzione delle tanto bramate monoclassi, quasi che il mettere insieme allievi più o meno della stessa età risolvesse motuproprio il problema dell’insuccesso scolastico.

Dovremmo chiederci, per cominciare, se vi sono dati chiari che indichino se vi sono significative differenze tra le competenze che si acquisiscono in una monoclasse rispetto alla pluriclasse. Nel contempo: da una trentina d’anni si ripete che, mono o pluri che sia la classe, è fondamentale differenziare l’insegnamento, badando bene al fatto che differenziare non è l’equivalente di individualizzare. Anche in questo caso l’insegnante è la trave portante della scuola: il maestro che non sa o non vuole differenziare il suo insegnamento, optando per troppe chiacchiere cattedratiche ed esercizi uguali per tutti, sarà ancor più in difficoltà in una pluriclasse. Ma se non sa o non vuole, non è al suo posto.

Vi sono sedi scolastiche che non conoscono le monoclassi, perché i numeri non l’hanno mai permesso. Però anche in questi casi ogni tanto non mancano le soluzioni perverse o, quantomeno, poco ragionevoli. Ho incontrato a fine agosto una bravissima maestra che lavora in una di queste piccole sedi. Mi ha detto che quest’anno le è stata assegnata una 1ª/2ª/3ª di 24 allievi, mentre la sua collega avrà una 4ª/5ª di 16 allievi. In quella sede ci sono dunque 40 allievi. Non sarebbe stato più logico istituire due pluriclassi di 20 allievi? O, meglio ancora, non sarebbe stato più razionale istituire un’unica sezione di cinque classi e 40 allievi affidata a due docenti a tempo pieno, quasi certamente con la presenza di un docente d’appoggio? Per dirne una, un’organizzazione siffatta avrebbe offerto la possibilità di far variare il numero di allievi a dipendenza dell’attività da svolgere. Per esemplificare, con un caso semplice semplice, e farmi capire: mentre 20 allievi sono in palestra con il docente speciale, due maestre possono occuparsi di 20 allievi. Le combinazioni sono naturalmente infinite.

In altri anni c’era stata la moda dei consorzi. Mi viene in mente il caso della Vallemaggia. Negli anni ’70 si era costruito e istituito il Centro Scolastico Bassa Vallemaggia, azzerando con un colpo di spugna le scuole di nove comuni (Avegno, Gordevio, Aurigeno, Moghegno, Maggia, Lodano, Coglio, Giumaglio e Someo). Il nuovo centro sembra una scuola di città. Ha la palestra e le sue brave monoclassi. Costa un sacco di soldi, costringe un gran numero di bambini e ragazzetti a trasferte giornaliere coi bus. I villaggi non hanno più la loro scuola (uh, le pluriclassi…) e la nuova scuola assomiglia a tutte le altre.  Cosa ne abbia guadagnato la Valle in termini di educazione e istruzione non si sa.

École-active-de-MalagnouLe scuolette di paese. Anni fa avevo avuto occasione di visitare una scuola a Ginevra, «La Barigoule», nel quartiere di Malagnou, a quei tempi diretta da un bravissimo Jean-Claude Brès [2]. Ricordo un piccolo edificio a due piani, su una collinetta, attorniato da palazzi che fanno sembrare «La Barigoule» a una specie di isola in mezzo all’oceano (la foto mostra una ristrutturazione recente; io parlo di oltre vent’anni fa). È una scuola che ha scelto L’école active, malgrado i locali esigui, i banchi e il mobilio raffazzonati (forse scarti di scuole pubbliche rammodernate). Ma vi si respirava un’aria entusiasmante e vivace, generatrice di educazione, sostenuta da un gruppo di insegnanti appassionati e ben consapevoli del loro ruolo. Alle monoclassi e al mobilio scintillante e moderno avevano preferito la forza delle idee e del rigore.

Célestin Freinet (1896-1966) ha spesso operato con pluriclassi piuttosto numerose. In quei primi decenni del ’900 i dibattiti attorno all’educazione come strada di progresso e di emancipazione politica e civica sono intensi. Accanto alla scuola «ufficiale», che classifica gli allievi e seleziona le élite, crescono e si diffondono movimenti che approfondiscono la cooperazione tra allievi, la corrispondenza scolastica, la differenziazione come forma di rispetto dei ritmi di ognuno, il rigore della conoscenza. Lo stesso Freinet si butta nell’esperienza dell’Educazione nuova, entra in contatto con John Dewey, Adolphe Ferrière, Ovide Decroly, Roger Cousinet.

Chissà: forse le scuole ispirate dai modelli dell’educazione nuova non sono mai riuscite a offuscare la vecchia scuola «ufficiale» proprio perché i suoi principi e le sue finalità tendono per davvero all’emancipazione. Quell’altra scuola, ancor molto legata nella sua organizzazione e nelle sue strutture a quella dei suoi albori (XVIII e XIX secolo), ha saputo superare anche il ’68 e arrivare sin qua, pimpante e cinica, pronta ad affrontare le prossime riforme gattopardesche: tanto ci sarà sempre qualche nuovo gruppo sociale da bocciare ed escludere. C’è sempre bisogno di braccia che, soprattutto, stiano zitte.

Mi fermo qui, per oggi. Sono convinto che la pluriclasse, combinata col lavoro in équipe, offrirebbe tante formidabili opportunità per migliorare la scuola dell’obbligo. La ricerca affannosa dell’omogeneità – per età, per sesso, per quoziente intellettivo, per segno astrologico, per scelta religiosa… – impone di volta in volta aggiustamenti costosi. La strada affinché ogni cittadino possa dire, con l’Alfieri (e con Piero Gobetti), di non aver niente a che fare con gli schiavi è ancora lunghissima.

Poi ci sarebbero altre innovazioni per rendere la scuola più coerente col mondo che la circonda. Ma di ciò parlerò forse in altra occasione.


[1] Per intenderci: quando parlo di pluriclasse intendo ogni sezione formata da allievi che frequentano classi diverse: dai classici 1ª/2ª e 3ª/4ª/5ª alle tante combinazioni possibili, non escluse le sezioni di otto classi, ancora esistente in qualche scuoletta discosta fino a 40 o 50 anni fa (dalla 1ª elementare alla 3ª maggiore, senza saltare nessuno).

[2] En 1972, Claude Ferrière, Robert Hacco, Michael Huberman, Laurie Lamartine et Freddy Stauffer fondent une association dans le but de promouvoir la pédagogie active à Genève. Face à la difficulté d’introduire une rénovation rapide au sein de l’instruction publique, ils décident de créer une école privée. Ils font appel pour cela à différentes personnes déjà engagées dans des démarches de pédagogie active dont Jean-Claude Brès et Ariane Ferrière. (École active de Malagnou).